di Silvano Danesi

Il rapporto tra la luce e le tenebre è questione primordiale, ha implicanze teoretiche, teologiche, psicologiche e si è concretizzata in azioni che hanno significative conseguenze nella vita dei singoli, dei popoli, dell’umanità.

Nell’ambito latomistico, nel quale si dipana questa breve riflessione, tale questione si coniuga con quella, spesso sottaciuta e sottovalutata, della sostanziale differenza tra la tradizione libero muratoria, cosiddetta operativa, e le tradizioni che nel loro insieme costituiscono quella libero muratoria speculativa.

La tradizione massonica operativa, come è riscontrabile in alcuni documenti, quali il Poema Regius e il Manoscritto Cooke, ha i suoi principali riferimenti nelle figure, sia pur mitizzate, di Euclide, di Pitagora e di Hermes il filosofo e pertanto incardina il suo pensiero nella filosofia greca antica e nel debito che essa ha con la sapienza egizia.

Tali riferimenti radicano la tradizione libero muratoria operativa in una concezione del mondo armonica, che concepisce l’essere umano come un artefice che ha il suo paradigma nell’ordine cosmico.

La tradizione libero muratoria operativa è primordiale, ancestrale e riscontrabile in una molteplicità di luoghi, laddove i manufatti dell’essere umano riproducono le armonie cosmiche, siano essi quelli del megalitismo, delle piramidi, delle zigurat, delle cattedrali gotiche o delle varie testimonianze di un’antichità costruttiva che contiene in sé la numerologia e la geometria del cosmo e le proporzioni essenziali della natura.

In questa tradizione l’architetto terreno è colui che imita l’arché-tecton, l’architetto divino, il logos, potere dinamico improntante e realizzante dell’arché, ossia dell’origine.

In questa tradizione l’essere umano è collaboratore del Grande Arché Tecton dell’Universo.

La tradizione libero muratoria cosiddetta speculativa, innestatasi su quella operativa nel XVII secolo, contiene in sé molteplici linee di pensiero, non sempre tra di loro compatibili, anzi, spesso tra di loro contrastanti.

Credo pertanto di poter affermare, sia pure in queste brevi considerazioni, che la tradizione libero muratoria operativa sia quella fondativa della moderna massoneria; quella alla quale si dovrebbe guardare come al riferimento paradigmatico essenziale.

La tradizione libero muratoria speculativa, al contrario, con le sue evidenti interne contraddizioni, anche se artatamente fatta assurgere a fattore costitutivo legittimante, va frequentata con grande attenzione e spirito critico, per non cadere nella trappola delle Costituzioni di Anderson, frutto della massoneria speculativa hannoveriana, o in quella delle Costituzioni federiciane, che, in contraddizione con l’essenza del pensiero libero muratorio, contengono riferimenti al dogma e alla dottrina.

Cosa abbia a che fare questo preambolo con la questione della luce e delle tenebre è comprensibile con alcuni esempi, non essendo possibile, nell’economia di questo lavoro, allargare l’orizzonte fino a comprendere un insieme complesso di linee di pensiero che andrebbero opportunamente approfondite.

Se, come s’è detto, la massoneria operativa ha come riferimento la Grecia classica, vediamo cosa pensavano i greci del rapporto tra la luce e le tenebre.

Aristofane (450-385 a.C.) negli Uccelli scrive: “Da principio c’era Caos e Notte ed Erebo [tenebra] nero e l’ampio Tartaro [realtà tenebrosa e sotterranea], ma non c’era terra né aria né cielo; e nel seno sconfinato di Erebo Notte dalle ali nere genera anzitutto un uovo sollevato dal vento, da cui nelle stagioni ritornanti in cerchio sbocciò Eros il desiderabile [entità primigenia vivificatrice dell’universo], con il dorso rifulgente per due ali d’oro, simile a rapidi turbini di vento. E costui di notte mescolandosi con Caos alato, nell’ampio Tartaro, fece schiudere la nostra stirpe, e prima la condusse alla luce. Sino allora non c’era la stirpe degli immortali, prima che Eros avesse mescolato assieme ogni cosa; ma essendo mescolate le une alle altre, nacquero Cielo e Oceano e Terra e la stirpe senza distruzione di tutti gli dei felici”.

Aristotele ci ricorda che i teologi “fanno iniziare la generazione dalla Notte”. (Metafisica).

Eudemio di Rodi (370-300 a.C) scrive: “E la teologia tramandata da Eudemo il Peripatetico, e da lui attribuita ad Orfeo, passa sotto il silenzio tutto ciò che è oggetto dell’intuizione, in quanto totalmente inesprimibile e inconoscibile….E assume il principio della Notte, da cui prende le mosse anche Omero, anche se non con una genealogia continua. Non bisogna difatti accettare l’affermazione di Eudemo, secondo cui Omero inizierebbe da Oceano e da Teti, poiché Omero sembra sapere che la Notte è la più grande divinità, al punto che lo stesso Zeus la venerava: «invero egli temeva di fare cose non gradite alla Notte, la veloce». Dobbiamo dire dunque che anche Omero comincia dalla Notte. Quanto a Esiodo, mi sembra essere stato il primo a considerare il Caos, a chiamare Caos la natura inafferrabile dell’oggetto dell’intuizione e compiutamente unificata, e ad aver posto accanto a esso in seguito la Terra, come principio dell’intera generazione degli dèi…”.

Crisippo, (281-277 a.C.) in un frammento afferma: “….e nel primo libro dice che la Notte è la primissima dea”.

Il neoplatonico Ermia (V sec. d.C.) introduce Fanes. Nel Commento al Fedro di Platone scrive: “Certo a Protogono nessuno guardò con i suoi occhi, se non la Notte sacra; ma tutti gli altri si stupirono scorgendo nell’etere uno splendore insperato: tale luce balenava dal corpo di Fanes immortale”.

Ancora Ermia (Commento al Fedro di Platone): “…nacque Adrastea, che è sorella di Ida: Ida dalle belle forme e la germana Adrastea [significato: inevitabile. Figlia di Ananke, la necessità] … perciò si dice che anche essa faccia strepito davanti all’antro della Notte: diede nelle mani ad Adrastea bronzei cimbali. Sulla porta dell’antro della Notte, difatti, si dice che Adrastea faccia strepito di cimbali ….Dentro invero, nel santuario della Notte, siede Fanes, e nel mezzo sta la Notte che profetizza per gli dei. Davanti alla porta invece sta Adrastea, che plasma per tutti le leggi divine. ….E oltre a ciò disse che queste sono creature della Notte, che rimangono dentro di lei…. E la Notte a sua volta generò la Terra e l’ampio Cielo, li rivelò manifesti, da nascosti che erano, e quali sono per nascita”.

Giovanni Malalas (V secolo, Cronografia) scrive: “Da principio si rivelò al tempo l’Etere creato dal dio; e di qua e di là dell’Etere vi era Caos; e Notte tenebrosa copriva tutte le cose e nascondeva quanto era sotto l’Etere…. E Orfeo disse che la terra era invisibile a causa delle tenebre….dicendo che la luce che aveva squarciato l’Etere era quella dell’essere … più alto di tutti, il cui nome lo stesso Orfeo, avendolo udito dall’Oracolo, rivelò come Metis, Fanes, Erichepo”.

Infine, Filodemo (110-35 a. C. Sulla Pietà): “In alcune fonti si dice che tutte le cose derivano da Notte e da Tartaro, in altre invece che derivano da Ade e da Etere. Chi ha scritto la «Titanomachia» dice che le altre cose discendono da Etere, mentre Acusilao dice che il primo da cui discendono è Caos. Nelle poesie poi attribuite a Museo sta scritto che dapprima ci furono Tartaro e Notte, e per terzo Aere”.

Fanes, scrive Giorgio Colli, [i]è “il dio dell’apparenza, in generale, ma di un’apparenza ambigua: da un lato come unica realtà possibile, che gode del suo splendore e della sua visibilità in quanto forma di un’esistenza totale; dall’altro lato come una figura che esprime, manifesta qualcosa che apparenza non è, l’emergere in altra forma, con un sussulto di una realtà abissale”.

In questo “sussulto” di una realtà abissale risiede l’aspetto forse più significativo del rapporto tra la luce e le tenebre, intese come abisso, poiché il concetto di abisso chiama in causa l’arché.

Vediamo, dunque, come concepivano l’arché i filosofi della Grecia antica.

L’arché in Parmenide è l’Essere e il fondamento di tutte le cose. In Aristotele l’arché consiste nell’essere origine e fondamento per l’Essere, il divenire e il conoscere.

Anassimandro chiama l’arché apeiron, l’illimitato, l’imperituro, l’indistruttibile, l’inesauribile e la definisce anche theion, divino. L’apeiron di Anassimandro, scrive Eugen Fink è “il theion inteso come phýsis, la natura onnipresente, sempre assente, inesauribile, che racchiude in sé morte e vita, che genera e annienta….”.[ii]

L’apeiron di Anassimandro è l’abisso che fa uscire tutte le cose.

Arché, femminile in greco, deriva dalla radice indoeuropea *ark, che ha il significato di contenere, trattenere. *Ark è scrigno, arca. Arca dell’alleanza.

Arché è, dunque, un illimitato abisso, chiuso e silenzioso, fondamento di tutte le cose (ta panta) ed è phýsis che, secondo Aristotele, è l’uno originario, che è sempre, che permane e che è imperituro. La phýsis è l’arché di tutte le cose, divina, creatrice.

In Anassimandro, come spiega Eugen Fink, la phýsis “è il fondamento non cosale di tutte le cose percepibili nel pensiero, fondamento che permane imperituro in tutto il loro trapassare. La phýsis stessa non appare; è l’ente ad apparire, ma tutto ciò che appare viene fuori dal grembo della phýsis e in esso ritorna”. [iii]

La phýsis, in Eraclito, è l’eterna madre immutabile, il fondamento materno del mondo da cui erompe la luce che assegna alle cose (ta panta) la visibilità; è il grembo che tutto partorisce, è la Dea Madre.

La phýsis è l’Essere come origine. La Phýsis è l’inapparente, il velato, la profondità dell’Essere chiuso in sé. “La natura – scrive Eraclito – ama velarsi”.

L’arché è dunque phýsis, fondamento, abisso, grembo partoriente da cui erompe la luce come sophon, l’uno sapiente, la ragione del mondo di cui scrive Eraclito.

Il sophon è l’aperto, “il chiarore della comprensione in cui unità, totalità ed Essere appaiono diradati nel loro rapporto reciproco”. [iv]

Il sophon è l’aletheia dell’Essere e in Eraclito è il saphes, il chiarore della luce: fuoco semprevivente. Fuoco cosmico, che assegna alle cose la visibilità del loro aspetto; è il fulmine che nel frammento 64 Eraclito indica come la potenza che governa tutte le cose nel loro insieme (ta panta).

E l’ordine simbolico del fuoco è quello cosmologico del logos, ossia del sophon: ragione che attraversa il cosmo e custodisce la vicenda dell’apparire.

Il logos in Eraclito “è l’articolazione ontologica che attraversa l’aperto, il principio strutturale del sophon…; è la forza improntante e disponente”[v], che impronta e dispone le cose.

Il Prologo del Vangelo di Giovanni, che rientra nell’attuale ritualità massonica, evidenzia il reciproco rapporto tra l’origine (archè, phýsis) e il logos come luce che evidenzia tutte le cose che sono nell’origine e le impronta, le ordina, dà loro visibilità.

L’origine, arché, phýsis, è un principio creatore del quale il sophon è l’aspetto ordinante e, in quanto logos, improntante e custodente in un continuo avvicendarsi di krisis, separazione, e di krasis, mescolanza (la mescolanza di cui parla Aristofane a proposito di Eros): due vocaboli la cui radice *kr è anche quella di creare, ossia di fare.

Nel Prologo leggiamo che tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, ossia che l’attività creatrice dell’origine è propria del logos, che è nell’origine presso se stesso, così come Fanes, che risiede nel santuario della Notte (Ermia).

Qui si inserisce una riflessione sul concetto di cosa, che può essere phýsei onta o techne onta, dove nel primo caso le cose sono tali da partire dalla natura per opera del logos, che si propone come Grande Architetto dell’Universo, Archi-tecton, realizzatore dell’arché e, nel secondo caso, come derivanti dalla techne, per opera degli archi-tecton umani, che assumono il ruolo di collaboratori del logos e di custodi della phýsis.

Il Prologo continua poi affermando che nel logos era la vita e la vita era la luce degli uomini. Il vocabolo usato è zoé, ossia vita universale generale e, in quanto tale, luce degli uomini, ossia capace di trarre gli esseri umani all’esistenza (come l’Eros di Aristofane), assegnando loro la visibilità del loro aspetto e della loro identità, così come il fuoco semprevivente assegna la visibilità del loro aspetto a tutte le cose (ta panta).

Rimane, infine, il rapporto tra luce e tenebre.

Scrive l’evangelista che la luce risplende tra le tenebre o nelle tenebre e questa affermazione è coerente con quanto sin qui detto riguardo al logos come fulmine, che è nelle tenebre e le squarcia, dando visibilità a tutte le cose.

Meno chiaro è il rapporto tra luce e tenebra quando l’evangelista usa il vocabolo catalaben che nella traduzione dà luogo a: “ma le tenebre non l’anno ricevuta” o “accolta”.

Il vocabolo catalaben deriva da kata, dal significato di “in giù”, “che intensifica” e da lambano, dal significato di aggressivamente, prendere correttamente, afferrare esattamente, afferrare qualcosa con forza.

Si potrebbe, pertanto, tradurre come afferrare in modo forte in giù, ossia riportare nell’abisso, nel chiuso dell’archè.

La parola greca scotia è tradotta con tenebra, il cui significato deriva dalle radici *ten, trattenere, racchiudere e *br, espandere.

La tenebra, come l’arché e la phýsis, è dunque un abisso racchiuso capace di espandersi, di diradarsi, dando spazio alla luce, che ne squarcia il velo dando visibilità alle cose. Il fulmine, il baleno, non viene riafferrato e tanto meno lo è la luce nel suo significato di Helios, un fuoco non perpetuo, ma sufficientemente permanente per essere un orologio cosmico.

Qui Eraclito ci sovviene rinviandoci alla luce che splende nelle tenebre. Afferma Eraclito nel frammento 99: “Se il sole non ci fosse, per quanto è delle altre stelle sarebbe notte”.

“La luce – commenta Fink – fa luce nelle tenebre. Ciò significa che la cerchia della luce è circondata dalla notte. Le stelle e la luna mostrano la possibilità dell’essere coricate e adagiate, delle luci, nell’oscurità della notte”. [vi]

La potenza di Helios, al contrario, non si adagia, perché Helios è il simbolo del logos.

Il fulmine lascia apparire in un colpo come un colpo di frusta. Il sole lascia apparire con sufficiente permanenza. Il “fuoco semprevivente” del frammento 30 di Eraclito lascia vedere ogni cosa nel suo contorno definito in modo costante.

Scotia, la tenebra, dunque, non può sopraffare il “fuoco semprevivente”, ossia il logos, che è una potenza dell’arché, improntante, governante, custodente, che è “l’uno sapiente”, il sophon: luce della ragione che rischiara il mondo, aletheia dell’Essere e Uno-Tutto (frammento 10 «da tutte le cose uno e da uno tutte le cose»).

Qui ritroviamo anche il significato della prossimità e identità del Dio e del Logos che leggiamo nel Prologo di Giovanni.

Nel frammento 32 Eraclito scrive: “L’uno, che solo è sapiente, non vuole e nondimeno vuole essere chiamato Zeus”.

L’Uno, sophon, logos è chiamato theos.

Per ora rimaniamo con l’attenzione all’arché.

L’arché, la phýsis, l’oscurità da cui prorompe la luce che rende evidente la finitezza di questo mondo, dei mondi è la Grande Madre. La Phýsis è il theion (Anassimandro): il divino illimitato, ingenerato ed eterno (apeiron – Anassimandro), da cui emerge un tempo finito.

L’Essere, ossia il perdurare dell’identico nel differente, non ha fondamento in quanto il suo fondamento è il fondo abissale che si dischiude; è il nascosto “sottosuolo” in cui l’Essere si raccoglie quando si sottrae all’apparire.

Il fondamento è il fondo abissale, la Tenebra.

La Tenebra è anche l’arché nel suo essere nascosta; è phýsis pronta a sbocciare dall’abisso del suo trattenimento.

Il modo di manifestarsi dell’Essere è simile al modo di manifestarsi della luce (pháos, da cui Fanes) che non manifesta se stessa, ma le cose che sottrae all’oscurità per portarle, appunto, alla luce. L’Essere (phýsis), come la luce (pháos) è ciò che porta alla presenza l’ente, ciò che dimorando presso l’ente (pres-ente) lo fa essere e apparire”.[vii]

Oscurità e luce sono simbolicamente rappresentate nel nero e nel bianco del pavimento del Tempio massonico in un ordinato alternarsi che induce a meditare sul kosmos, ossia sulla totalità ordinata degli enti.

Phýsis è Regola che con il Logos si fa regola. La phýsis è l’Essere. Ed è anche arché, “in quanto kinesis. La motilità che la caratterizza non è da riferire allo spazio-tempo, ma a quel venire dall’occultamento (a-létheia) in cui è custodita la verità”. [viii]

“La filologia – scrive Galimberti – riconosce alla parole «essere» tre radici. La più antica è es, in sanscrito asus che significa: vita, vivente, ciò che è in sé e per sé ha vita. L’altra radice indogermanica suona bhûe bhue. A essa si ricollega il greco phýo, che significa schiudersi, aprirsi, germogliare, donde phýsis, phýein che, anche nella traduzione latina che li rende con natura e con nascere, ancora conservano il senso originario di ciò che nasce sbocciando e così, dispiegandosi, germoglia e si manifesta. A questa seconda radice si rifà il latino fui e il tedesco bin (sono) e bist (sei). La terza radice wes che significa risiedere, restare, trattenersi sta alla base del tedesco gewesen (stato), war (era) es west (esiste), wesen (essere) War-sein (essenza) e del latino sens, di prae-sens e ab-sens. «Essere» allora significa nascere, vivere, presentarsi nelle varie forme di vita”. [ix]

Interessante notare come nella lingua etrusca Ais sia il dio e aiser, plurale di Ais significhi gli dèi e come nella cultura druidica Esus sia il divino primordiale.

La luce è Fanes ed è il logos e Fanes, meglio: Phanés è in altri termini Bacco, ossia Dioniso, dio solare, creatore della vita universale sulla terra e forza generatrice dell’Universo; è l’Osiride egizio.

Fanete è uno dei nomi della creatura originaria del sistema mistico orfico, ossia pitagorico e Bacco-Dioniso, in quanto divinità mistico-filosofica celebrata nei Misteri orfici, era chiamato Fanete, al quale erano dedicate le feste chiamate Farai.

Bacco è il verbo ed è stato il primo che ha brillato, all’inizio, nel cuore delle tenebre. [x]

Bacco è dio anacto, ossia Signore; è liberatore, rendentore e iniziatore e come tutte le divinità iniziatrici, ossia che danno avvio all’inizio, è dilaniato e messo a morte.

Bacco è il sole della notte, il corego, colui che allestisce il coro e dirige le stelle; è il sole dei morti, come Osiride; è il sole che a mezzanotte incontrano i massoni nel Tempio la cui volta è il cielo stellato.

Dioniso è strettamente connesso con Apollo, figlio, come la gemella Artemide, di Leto, la Notte e il cui carattere originario è ctonio.

Secondo Carolina Lanzani[xi] il carattere originario di Apollo deve essere collegato con le tenebre e quindi egli è da considerarsi piuttosto come una divinità ctonia, che come una divinità solare. In seguito gli furono attribuite tutte le proprietà del dio sole tanto che fu possibile identificare Apollo con l’Helios-Zeus dei pitagorici (Zeus-Ouranos/Varuna, ossia volta celeste).

Come divinità solare Apollo rappresenta il sole immutabile, eterno, indifferenziabile, principio attivo, causa prima, sole nel cielo. Come divinità ctonica è strettamente connesso con Dioniso, definito da Aristofane (Rane): “Stella splendente dell’iniziazione notturna”.

Non possiamo qui andare oltre nell’approfondimento delle caratteristiche di Dioniso-Apollo e possiamo concludere asserendo che il riferimento a Pitagora nei documenti della massoneria operativa, oltre a condurci nel mondo della matematica, della geometria, dell’armonia e delle bellezza naturale, indica un collegamento radicale con la ritualità orfico-pitagorica e, conseguentemente, con i riti eleusini e di Samotracia che, a loro volta, sono debitori dei riti isiaci e osiriaci.

Va, a questo punto, ricordato che Ermete è un’altra delle forme di Dioniso e Ermete ci introduce ad un altro dei riferimenti essenziali della massoneria operativa.

“Ogni volta che sull’Egitto sorgeva il sole – scrive Tobias Churton – si celebrava la vittoria della luce: l’oscurità scompariva per lasciare spazio alla vita visibile. Per Ermes non faceva alcuna differenza: egli era dio della notte come del giorno, ugualmente a suo agio con la luna e i poteri dell’invisibile, così come con i commerci e le messi del mattino grondanti di sole”. [xii]

“Il culto di Ermes – ci ricorda Churton – era già diffuso prima che Alessandro Magno conquistasse l’Egitto e fondasse Alessandria (331 a.C.). Un secolo più tardi, i coloni greci di questa città iniziarono a chiamare Ermes megistos kai megistos, theos megas (più o meno «grande e grande il grande dio Ermes»)”.[xiii]

In seguito, tra il I secolo a.C. e la fine del II d.C., compaiono gli scritti che sono attribuiti a Ermete Trismegisto e che costituiscono il paradigma dell’ermetismo, comprendente l’astrologia e l’alchimia. Le scuole ermetiche, che sembrano siano state presenti sin dalla fine del I secolo d.C. , conducevano gli allievi a un’esperienza diretta di gnosi. La conoscenza era accompagnata da mondi percepibili dall’occhio illuminato del nous, che in greco significa sia mente, sia spirito.

L’insegnamento principale dell’ermetismo era, ed è: “Conosci te stesso” e guarda al cosmo come ad un continuo miracolo da riprodurre sulla terra.

“Non lo sai, Asclepio, che l’Egitto è l’immagine del cielo? Inoltre è la dimora del cielo e di tutte le forze che stanno in cielo. Se è giusto che diciamo la verità, la nostra terra è il tempio del mondo”.

E’ questa anche l’idea dei massoni operativi: fare della terra il tempio del cielo.

La gnosi, la conoscenza, è volta a conoscere un dio incorporeo, che contiene tutte le cose dentro di sé e che si manifesta attraverso le cose.

“E tu dici: «Dio è invisibile?». Non parlare così. Chi è più manifesto di Dio? Proprio per questo motivo egli ha creato tutte le cose, in modo che tu lo veda attraverso le cose. Questa è la bontà di Dio, che egli si manifesta attraverso tutte le cose. Nulla è invisibile, nemmeno una luce incorporea; il nous viene visto nel proprio pensiero, e Dio nel proprio lavoro”.

L’ermetismo presenta una visione positiva del mondo, che non è altro che il divino manifestato nella natura, e una visione positiva del cosmo, del quale la terra è il tempio.

Veniamo a Euclide (365-300 a.C.), le cui opere in Alessandria furono raccolte da Theon, padre della matematica e fisica Ipazia e custode della biblioteca alessandrina.

Scrive in proposito Barrow: “La geometria non era considerata come una semplice approssimazione alla vera natura delle cose; era parte della verità assoluta circa l’universo. Quasi fossero frammenti di una qualche sacra scrittura, i grandi teoremi di Euclide furono studiati per millenni nella loro lingua originale: erano veri, né più né meno, e consentivano agli esseri umani di dare uno sguardo alle verità assolute. Dio era molte cose, ma indubbiamente era anche un geometra. … La geometria euclidea non era soltanto un gioco di matematici, né una grossolana approssimazione alle cose e neppure un capitolo di matematica pura privo di un contatto con la realtà. Era il modo in cui era fatto il mondo”. [xiv]

La massoneria operativa, in sintesi, incardina il proprio pensiero in quello della Grecia classica e, anche quando guarda all’ellenismo, prende come riferimento un’idea del divino che si manifesta nel mondo, essendo nel mondo, in modo armonico, cosicché l’essere umano è inserito in un ordine cosmico con il quale può collaborare. Gli architetti della massoneria operativa riproducono sulla terra l’ordine celeste, fanno della terra un tempio e sono collaboratori del Grande Arché Tecton.

Diverso è l’orizzonte che ci si presenta quando prendiamo in considerazione la massoneria cosiddetta speculativa, la quale comprende molteplici correnti di pensiero, alcune delle quali conducono ad una vera e propria controiniziazione.

E’ il caso dello gnosticismo, combattuto da Plotino e dai neoplatonici, che concepisce il mondo come una prigione dello spirito, creata da un Demiurgo e dai suoi collaboratori (angeli, arconti, ecc. ) e il corpo come la sua tomba.

L’heimarméne (fato universale), che per gli Stoici era l’aspetto pratico dell’armonia, per gli gnostici diventa la concreta costrizione dell’uomo nel suo essere prigioniero del mondo, che è tenebra.

La luce di un dio nascosto e inaccessibile non viene accolta dalla tenebra del mondo, cui fanno da scudo le sette sfere celesti. Il cosmo è la gabbia che imprigiona lo spirito e il regno del divino inizia dove finisce il cosmo, ossia all’ottava sfera.

L’identità spirituale viene conquistata attraverso una rottura con il mondo, conseguibile o con l’astensione da esso (ascetismo, come quello che ritroveremo nei Catari e nelle correnti mistiche) o con il libertinismo, come quello di Carpocrate e dei Cainiti.

Il disprezzo del mondo, che è tenebra e tiene prigioniero lo spirito, consente, nella interpretazione del libertinismo gnostico, l’utilizzo indiscriminato del mondo, anche nei modi più crudeli.

Nella divisione degli esseri umani tra ilici (corporei), psichici (mentali) e pneumatici (spirituali), l’interpretazione estremistica assegna agli pneumatici la condizione di esseri salvati per la loro stessa natura. “La conseguenza pratica di ciò – scrive Hans Jonas, il maggior studioso dello gnosticismo – è la massima dissolutezza, che permette al pneumatico l’uso indiscriminato del regno naturale”. [xv]

“Secondo i loro scritti – scrive degli gnostici Ireneo -, le anime prima di partire del corpo devono aver provato ogni modo di vita e non devono aver lasciato residuo di sorte da compiere….”. [xvi]

Da qui anche l’idea che nel peccare si conduce a termine una specie di programma.

Si ha così “il peccato come via di salvezza” – commenta Jonas – è “l’inversione teologica di peccato stesso: uno degli antecedenti del satanismo medievale, e, anche, un archetipo del mito di Faust”. [xvii]

Così come Pitagora, Euclide, Hermes il filosofo sono “cosmici”, ossia concepiscono il cosmo come ordine e armonia, gli gnostici sono “a-cosmici”, perché il cosmo per loro è di per se stesso demoniaco. (Per approfondimenti dello gnosticismo rinvio allo studio di Hans Jonas).

Vorrei, avviandomi alla conclusione di questa riflessione, ricordare come la frase del Vangelo di Giovanni: “ma le tenebre non l’hanno ricevuta”, riferita alla luce, potrebbe, nell’ottica gnostica, acquistare un significato ben diverso da quello che, a mio modesto parere, ha, in coerenza con il testo precedente.

Traendo le somme da quanto sin qui detto, credo si possa affermare: 1) che il tema della luce e delle tenebre costituisca uno spartiacque tra il pensiero cosmico al quale si riferivano i liberi muratori operativi e quello a-cosmico al quale si riferiscono correnti di pensiero che sono presenti nella cosiddetta massoneria speculativa; 2) che la massoneria operativa rappresenti la radice limpida della tradizione latomistica; 3) che le correnti di pensiero che innervano la massoneria cosiddetta speculativa vanno frequentate “cum grano salis”, per non dire con sospettoso spirito critico.

Infatti, e per concludere davvero, l’estremismo gnostico libertino può condurre all’idea che una “fratellanza” di sedicenti pneumatici, nel più totale disprezzo del mondo in quanto ritenuto tenebra prigione e convinti che del mondo, così come del corpo, si possa fare strazio, stenda sul mondo la tracotante violenza dei controiniziati, che l’umanità, purtroppo, ha già conosciuto nei secoli e continua a conoscere.

Non va dimenticato che allo gnosticismo radicale si accompagnano le teorie apocalittiche, con la conseguente idea della battaglia finale tra il bene e il male. E in questo orizzonte apocalittico i controiniziati sanno ben cammuffarsi da “guerrieri delle luce”.

Torniamo, pertanto, alle cattedrali, alle grandi strutture megalitiche, alle piramidi, al tempio del cosmo sulla terra, all’armonia del divino nel mondo e ad essere collaboratori dell’Arché Tecton. Torniamo alla massoneria operativa e ai suoi limpidi paradigmi iniziatici.

 

[i] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi.

[ii] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donzelli editore

[iii] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza

[iv] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza

[v] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza

[vi] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza

[vii] U.Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli

[viii] Umberto Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli

[ix] Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli

[x] Vedi Paul Vulliaud, Il pensiero esoterico di Leonardo, Mediterranee

[xi] Carolina Lanzani, Religione dionisiaca, Melita

[xii] Tobias Churton, Le origini esoteriche della massoneria, Fabbri

[xiii] Tobias Churton, Le origini esoteriche della massoneria, Fabbri

[xiv] John D.Barrow, Da zero a infinito, Mondadori

[xv] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei

[xvi] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei

[xvii] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei

Ultimi articoli

  • MAKBENAK, MACBETH, SHAKESPEARE E LA LINEA REALE CELTICA DELLA MASSONERIA

    Silvano Danesi

    Nel rituale di iniziazione al grado di Maestro, dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “La carne si stacca dalle ossa”, frase che in ebraico, ci spiega Salvatore Farina, suonerebbe: “Makbenak”. [1]

    Il primo Sorvegliante conferma che il cadavere si disfa. Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Hiram è risorto, ossia è di nuovo in piedi.

    Cosa si nasconde dietro alla parte centrale della cerimonia di iniziazione ad un grado introdotto nel ‘600 ad opera di Elias Ashmole, massone e appartenente al Druid Order?

    “Il rituale del grado di Maestro – scrive infatti Farina – fu inizialmente preparato da Elias Ashmole alla fine del 1648” [2] e Ashmole “è considerato, nella tradizione druidica del Druid Order, come colui che ha trasmesso ai primi massoni speculativi l’iniziazione corrispondente alle tre funzioni tradizionali del druidismo”. [3]

    La chiave di comprensione di questo passaggio decisivo nel Rituale, dalla morte apparente alla resurrezione, potrebbe esserci fornita da William Shakespeare nel suo Macbeth.

    Ma andiamo con ordine e approssimiamoci alla chiave seguendo quanto Guy Trévoux scrive in proposito: “Esiste un termine bizzarro nell’iniziazione massonica al grado di Maestro, Mac Benac o Mac Benah. E’ il grido che avrebbero emesso i compagni di Hiram, partiti alla ricerca del suo corpo, dopo che seppero che era stato ucciso, alla scoperta del suo cadavere. E’ evidente che le spiegazioni tradizionali “la carne abbandona le ossa” o “il Maestro è colpito” non sono accettabili. Si è proposto persino “figlio della putrefazione”, ma un Massone italiano di cui non ricordo il nome, traducendo le due parole con il “figlio della linfa”, si avvicina più di ogni altro alla tradizione degli alberi. Del resto, nel manoscritto Prichard esiste un’altra espressione che precede l’esclamazione Mac Benac ed è Muscus Dominus, il “Maestro del Muschio” o “Maestro Muschio” (G.H.Luquet, Grado di Maestro e leggenda di Hiram – Rivista Le symbolisme, maggio-giugno 1955), che si riallaccia al mito del sotterramento del chicco prima della sua resurrezione sotto forma di pianta nuova, che pare più autentico di Mac Benac. «L’opera al nero» degli alchimisti è l’equivalente della leggenda di Hiram; è un riferimento ai mesi invernali, durante i quali il sole scompare, ed è il ricordo dell’interramento del chicco nell’oscurità della terra e o il suo passaggio nel ventre della gallina nera”. Una tradizione ebraica riporta che il cadavere di Adamo sarebbe stato sepolto nella grotta di Mac Pelah. Mac Pelah sarebbe, dunque, con tutta probabilità, la forma originale dell’errato termine massonico Mac Benac”. [4]

    La gallina nera è Karidwenn, archetipo della trasformazione e della rinascita, la cui ritualità ci riporta ai Riti Eleusini e Osiriaci.

    Interessante il riferimento ad un possibile Maestro del Muschio o Maestro Muschio. Ricordiamo che:

    Né pianta né albero,

    né fusto né foglia;

    è Muschio che crea Magia. [5]

    Maestro del Muschio o Maestro Muschio può andare benissimo come significato del termine Mac Benac, perché il Muschio crea magia.

    Esiste, a mio parere, un’altra possibile interpretazione relativa a Mac Benac o Mac Benah ed è che i due nomi siano la corruzione di Bethac, capo mitico e avo dei Fir Bolg e dei Tuatha De Danann, il cui significato è betulla.

    La betulla, come scrive Mircea Eliade[6], simboleggia l’Albero del Mondo in molte tradizioni sciamaniche. Per lo sciamano altaico è l’Albero del Mondo. Per gli sciamani buriati la betulla che si trova all’interno della tenda serve ad arrampicarsi e ad uscire dal buco del fumo, che coincide con quello che nel cielo è formato dalla stella polare. Presso altri popoli è chiamata Pilastro del Cielo. La betulla, quindi, albero cosmico, si trova al centro del mondo. Non è improbabile che la tradizione sciamanica, acquisita dalla cultura druidica, sia poi confluita nelle tradizioni libero muratorie.

    Sin qui le varie ipotesi, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre. Tuttavia, e con molta probabilità, la chiave che ci fornisce William Shakespeare è quella più significativa, in quanto ci riporta al cuore della trasmissione iniziatica ininterrotta che passa attraverso la regalità celtica e che si trasferisce agli Stuart, re scozzesi di sangue reale celtico.

    Per secoli la regalità celtica ha conservato la tradizione, ma nell’epoca delle guerre di religione tra protestanti e cattolici, la trasmissione si è fatta faticosa a causa delle pressioni delle varie correnti protestanti e dei cattolici.

    Giacomo I, che tentò un difficile equilibrio tra le varie fazioni, represse con durezza vari attacchi della nobiltà, sia cattolica, sia protestante e asserì il diritto divino della monarchia (Deus meumque ius). Privo dell’abilità di governo della cugina Elisabetta, alla quale era succeduto con un passaggio dinastico dai Tudor agli Stuart, Giacomo cercò invano di mediare tra le richieste del partito cattolico e di quello protestante, ma di fatto la tensione interna si accrebbe. Per rispondere alle richieste di riforma religiosa dei puritani, autorizzò una nuova traduzione inglese della Bibbia, nota come versione di re Giacomo; appoggiò inoltre i vescovi della Chiesa anglicana contro i riformatori radicali protestanti, ma la sua difesa del diritto divino della monarchia gli attirò l’ostilità dei cattolici, che organizzarono contro di lui la Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, nel 1605.

    La tragedia shakespeariana Macbeth è stata presentata per la prima volta nel 1606, ossia l’anno successivo alla Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, alla corte di Giacomo I d’Inghilterra (VI di Scozia) figlio di Maria Stuart e nipote di Elisabetta I.

    La tragedia narra di Macbeth, usurpatore del regno, dopo aver ucciso il suo legittimo re su suggerimento delle streghe che gli sono apparse e che gli hanno predetto il suo futuro.

    La tragedia si ispira alla vita di un re di Scozia, Mac Bethad mac Findlaich (1005-1057), anche se ne stravolge del tutto la figura e la storia e sembra accondiscendere alle esigenze di Giacomo I, che in due suoi scritti tenta di giustificare la propria condotta: il Basilikon Doron e la Daemonologie.

    Nel Basilikon Doron Giacomo I critica cattolici e puritani, in linea con la sua filosofia di seguire un “via di mezzo”, che si riflette nella prefazione del 1611 della Bibbia di Re Giacomo.

    La Daemonologie, scritta dal re nel 1597, è una dissertazione filosofica sulla negromanzia contemporanea e le relazioni storiche tra i vari metodi di divinazione utilizzati dall’antica magia nera e si pone come un trattato contro le streghe.

    Questo libro si crede sia stato una delle fonti primarie utilizzate da William Shakespeare nella produzione di Macbeth.

    Shakespeare ha utilizzato molte citazioni e rituali presenti all’interno del libro delle streghe, ma ha inserito nella sua tragedia anche temi scozzesi relativi ai fatti nei quali Giacomo è stato coinvolto.

    Assieme ad Alfredo il Grande, Giacomo I è considerato uno dei più colti sovrani sia d’Inghilterra sia di Scozia. Durante il suo regno continuò la straordinaria fioritura culturale dell’Età elisabettiana nella letteratura, nelle arti e nelle scienze, ma la sua ascesa al trono fu il frutto di una serie di lotte intestine al Regno di Scozia.

    La situazione della Scozia alla nascita di Giacomo non era delle più tranquille: l’autorità di Maria Stuart era precaria e tanto lei quanto il marito, entrambi di fede cattolica, dovevano fronteggiare il malcontento e le ribellioni dei nobili scozzesi, per lo più calvinisti; inoltre, anche il matrimonio della coppia reale fu costellato di difficoltà, sia sul piano politico, sia privato. Mentre Maria era incinta, Enrico si alleò con i ribelli e arrivò a dare l’ordine di assassinare Davide Rizzio, segretario personale e amico intimo della regina, di origini piemontesi.

    Giacomo nacque il 19 giugno 1566 e fu battezzato in una cerimonia cattolica. Quando Giacomo aveva solo otto mesi suo padre Enrico fu assassinato a causa di intrighi di corte, probabilmente seguenti la morte di Davide Rizzio. Dopo la morte del marito, Maria decise di sposarsi una terza volta, con James Hepburn, conte di Bothwell, sospettato di essere l’artefice dell’assassinio di Lord Darnely, la qual cosa rese ancora più impopolare la già impopolare regina.

    Nel giugno 1567 alcuni ribelli protestanti arrestarono Maria, che venne imprigionata nel castello di Loch Leven, dove fu costretta ad abdicare al trono, il 24 giugno, in favore del figlio Giacomo, che aveva poco più di un anno; a sostituire il giovane re durante la sua minor età sarebbe stato lo zio Giacomo Stuart, conte di Moray.

    Pur riferendosi ad un personaggio storico dell’undicesimo secolo, il Macbeth di Shakespeare sembra anche riferirsi, in modo evidentemente criptico, alle vicende di Giacomo I, assecondandone gli scritti, in particolare il Demonologia.

    Giorgio Melchiori, nell’introduzione al testo del Machbet nell’edizione dei Meridiani, [7]scrive che la leggenda di Banquo, assassinato da Machbet, il cui figlio Fleance fuggì in Galles e ne sposò la figlia, è servita ad attestare le nobili origini degli Stuart, i quali, peraltro, non ne avevano bisogno, in quanto come ho critto nel mio: “Le radici scozzesi della Massoneria”, nel 1286 “la Loggia di Kilwinning ebbe come Gran Maestro un Lord Stewart di Scozia, ossia un Regio Stewart (maggiordomo di palazzo), carica, divenuta ereditaria, istituita da re David ed assegnata a Walter fitz Alan, di discendenza bretone celtica e scozzese, la cui linea di sangue risale a re Alpin e ai Siniscalchi di Dol. Quando la figlia di re Robert Bruce sposerà Walter lo Stewart, dai maggiordomi di palazzo di discendenza regale avrà inizio la dinastia Stuart”. [8]

    Sotto il velame delle apparenze, Shakespeare, propone al lettore e allo spettatore delle rappresentazioni teatrali, in controluce, l’attenzione ad un personaggio che è un grande eroe scozzese.

    Mac Bethad mac Findlaech, o in inglese Macbeth (1005 – 15 agosto 1057), è stato re di Scozia dal 1040 al 1057.

    Ben poche informazioni sono note in merito alle origini ed ai primi anni di vita di Macbeth: figlio di Findlaech, Mormaer o capo della provincia di Moray, era nipote del re Kenneth II di Scozia e quindi apparteneva alla più alta nobiltà scozzese, essendo cugino tanto di re Kenneth III, tanto di Duncan I (suo diretto predecessore al trono di Scozia); della madre, invece, non è noto il nome od il lignaggio.

    Quanto al nome, Mac Bethad (o, in gaelico moderno, MacBheatha), ha significato di “figlio della vita” oppure di “uomo giusto”; secondo alcuni studiosi, tuttavia, il suo nome sarebbe una forma corrotta di Macc-Bethad (“Uno tra gli eletti”)

    Alcuni anni dopo la morte del padre (collocata attorno al 1020), Macbeth divenne Mormaer di Moray e in seguito sposò Gruoch Ingen Boite, unica figlia di Boite mac Cináeda, a sua volta figlio del re Kenneth III di Scozia.

    Nel 1034, re Malcolm II di Scozia fu ucciso in circostanze non chiarite a Glamis e il 30 novembre dello stesso anno, senza opposizione, fu eletto re Donnchad Mac Crínáin. Il nuovo sovrano, nominato in base ai principi della Tanistry, era un cugino, per parte di madre, del predecessore ed aveva detenuto il titolo di re di Strathclyde.

    Dopo alcuni anni tranquilli, nel 1039, lo Strathclyde fu attaccato dagli inglesi della Northumbria e Duncan, deciso a vendicarsi, condusse personalmente un raid di rappresaglia contro la città di Durham: la battaglia, però, fu un disastro e solo a stento il re riuscì a fuggire; approfittando della debolezza del suo sovrano, Macbeth si ribellò e reclamò la corona.

    Duncan tentò di reagire guidando una spedizione contro Macbeth ma, il 14 agosto 1040, fu ucciso a Bothnagowan (nei pressi di Elgin) in uno scontro armato dagli uomini di Macbeth.

    Dopo la morte di Duncan, Macbeth, sostenuto da quella fazione della nobiltà che si opponeva ai legami con gli anglo-sassoni, ascese al trono ma in ogni caso dovette affrontare l’ostilità degli uomini appartenenti al clan del suo predecessore: solo nel 1045, con l’uccisione di Crínán di Dunkeld, padre di re Duncan, il regno fu definitivamente pacificato.

    “Nonostante si fosse impadronito del potere assassinando il giovane e inetto sovrano Duncan – scrive Giorgio Melchiori – (del resto l’assassinio del predecessore era un sistema quasi normale di successione nella Scozia del tempo), fu per molti anni sovrano saggio e buon amministratore, fino all’invasione del paese da parte delle forze inglesi al comando del cognato di Duncan, Siward, con il pretesto di difendere i diritti alla successione di Malcom Canmore, figlio giovinetto di Duncan”. [9]

    Nel 1052 Macbeth fu involontariamente coinvolto nelle lotte che in Inghilterra vedevano coinvolti Godwin del Wessex ed Edoardo il Confessore quando decise di ricevere a corte un certo numero di esiliati Normanni. Nel 1054 Siward, conte di Northumbria, vassallo ed alleato di Edoardo il Confessore re d’Inghilterra, al quale Macbeth aveva rifiutato di rendere omaggio, per conto di Malcolm Clanmore, figlio di Duncan I, invase la Scozia.

    A Dunsinane, presso Perth, si svolse una enorme battaglia che, secondo gli Annali dell’Ulster, vide la morte di 4.500 uomini, 3.000 scozzesi e 1.500 inglesi; dopo aver perso la parte meridionale del proprio regno, Macbeth si ritirò nelle regioni settentrionali a lui fedeli dove resistette per altri tre anni all’avanzata inglese.

    Nel 1057 Macbeth fu infine sconfitto e mortalmente ferito da Macolm Ceann-mor, figlio di Duncan, presso Lumphanan, nell’Aberdeenshire; morì pochi giorni dopo a Scone, ove fu seppellito.

    A differenza degli scrittori successivi, nessuna fonte contemporanea rimarca Macbeth come un tiranno: il Duan Albanach (Canzone degli Scoti), un poema in gaelico irlandese composto da 27 stanze, trovato insieme al Lebor Bretnach (una versione in gaelico della Historia Brittonum di Nennio, che presenta un vasto materiale aggiuntivo, soprattutto riguardo alla Scozia), lo cita come “Mach Bethad il Rinomato”, la Profezia di Berchán lo descrive come un re generoso e munifico.

    Scritto durante il regno di Mael Coluim III (metà dell’XI secolo), il Duan Albanach  si basa su una grande varietà di fonti irlandesi. La versione più comune proviene dai Libri di Lecan and Ui Maine degli inizi del XV secolo. La sua narrazione continua quella del Duan Eireannach, che narra la più antica storia mitologica dei gaelici.

    Il Macbeth storico, pertanto, è un eroe della resistenza gaelica agli anglosassoni ed è un re di sangue reale celtico, erede della Tradizione.

    Ora proviamo a riscrivere il Rituale di Maestro usando la chiave fornitaci da Shakespeare e probabilmente abilmente messa in modo criptato da Elias Ashmole nel cuore dell’iniziazione.

    Dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “E’ Mac Bethad”.

    Il primo Sorvegliante afferma che è cadavere.

    Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Mac Betadh è risorto, ossia è di nuovo in piedi. La tradizione non è morta; è di nuovo attiva.

    Cosa ci dice Ashmole in chiave shakespeariana? Ci dice che nonostante le guerre di religione e la confusione creatasi con gli ultimi Stuart, allorquando questi si sono fatti invischiare nelle guerre di religione, Mac Bethad o se si vuole Mac Beth, l’eroe, il re celtico è risorto, è in piedi, perché, grazie ai tre Maestri, la Tradizione continua, ininterrotta, nella ritualità massonica.

     

    [1] Salvatore Farina, il Libro completo dei Riti Massonici, Gherardo Casini Editore

    [2] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Edizioni Piccinelli, 1946

    [3] Michel Raoult, Les druides- Les socié tes initiatiques celtiques contemporaines – Edizion du Rocher

    [4] Guy Trévoux, Lettere, cifre, dèi – Ecig

    [5] Citazione in: Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario

    [6] Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi

    [7] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

    [8] Silvano Danesi, Le redici scozzesi della Massoneria, ilmiolibro.

    [9] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

  • MASSONERIA, CREDERE O CONOSCERE?

    di Silvano Danesi

    Tommaso D’Aquino (De fide), scrive che “l’assenso fideistico non è determinato dalla cogitazione, ma dalla volontà”. Agostino d’Ippona scrive che “La fede consiste nella volontà di chi crede” (De praedestinatione sanctorum).

    Si crede perché si vuole credere.

    Quanto affermano i due dottori della Chiesa può ben valere per chi crede, volendo credere, nella divinità di Gesù, ma mi riesce difficile applicare i concetti di Tommaso d’Aquino e di Agostino di Ippona ai Massoni in rapporto alla Massoneria, salvo che credere, poiché, come dice sempre l’Aquinate “imprigiona l’intelletto”, renda più comoda e rassicurante la via della credenza di quella della conoscenza.

    Il Rituale di 4° Grado “Maestro Segreto”, primo del Rito Scozzese Antico ed Accettato, prescrive a chi lo frequenta l’obbligo dello studio della Libera Massoneria, riguardo alla sua storia.

    Un Massone dovrebbe, pertanto, studiare la storia della Massoneria e non abbandonarsi alla credenza nelle favole, contrabbandate per verità storica, soprattutto quando queste sono facilmente smascherabili se si studia, anziché frequentare le Logge con atteggiamenti fideistici o di comodo acquietamento, contenti di non aver dovuto compiere alcuno sforzo.

    Capita così che si continui a scrivere che Federico II è stato il sovrano che ha firmato il documento fondante del Rito scozzese, quando è accertato che l’attribuzione al regnante illuminista e amico dei Gesuiti è un falso.

    Capita così che si accetti acriticamente la favola inglese hannoveriana che la Massoneria è nata nel 1717 quando in una taverna londinese si sono riunite quattro Logge.

    Il 1717 non è l’anno di nascita della Massoneria e nemmeno della Massoneria moderna, ossia di quella odierna, che ha radici ben più antiche, ma quello della Massoneria dei “Modern”, voluta dalla dinastia protestante degli Hannover, dopo che la dinastia cattolica degli Stuart era stata sconfitta ed esiliata.

    Il 24 giugno del 1717 è pertanto il giorno nel quale si è creata una frattura nella tradizione massonica, subito stigmatizzata dagli “Antient” e che ha portato, nel corso del XVIII secolo, al proliferare di varie associazioni sedicenti massoniche.

    In dissenso esplicito con la Gran Loggia del 1717, il 17 luglio del 1751 gli “Antient” diedero vita, nella taverna Turk’s Head, in Greek Street, nel Soho, inizialmente in forma di Comitato, alla “The Most Honourable Society of the Free and Accepted Masons according of the Old Institution”.

    Se la Gran Loggia del 1717 diede ad un pastore protestante l’incarico di scrivere le regole della Massoneria “Modern”, quelle dell’Istituzione degli “Antient” furono affidate al cattolico Laurence Dermott, che le rese pubbliche con il nome di Ahiman Rezon.

    Se la Gran Loggia del 1717 era formata e diretta da aristocratici e da ricchi borghesi in ansia di promozione sociale, quella degli “Antient” rivendicava una composizione sociale prevalentemente legata ai mestieri, ossia all’autentica tradizione massonica.

    Contemporaneamente a queste due Gran Logge, continuavano ad esistere, in modo del tutto indipendente, la Gran Loggia d’Irlanda e la Gran Loggia di Scozia.

    La Gran Loggia d’Inghilterra divenne “unita” solo nel 1813, ma nel frattempo, in ambito “Antient” in America era nato il Rito Scozzese.

    Quello che nel corso del Medio Evo e del Rinascimento era stato un fenomeno unitario, che si era alimentato mantenendo vive le radici con il passato originario della sapienza egizia, nei tre secoli successivi a quel 24 giugno del 1717 si è trasformato in un coacervo di istituzioni spesso in contrasto tra di loro e tutte proclamantesi vere eredi della tradizione massonica.

    La storia della Massoneria, pertanto, non ha inizio nel 1717, anno in cui gli Hannover, dopo aver loro espropriato la corona hanno tolto agli Stuart anche la radice massonica scozzese e nemmeno nel 1768, quando, secondo una leggenda, che tale è e tale rimane, Federico II di Prussia avrebbe emanato le Costituzioni del Rito Scozzese Antico ed Accettato, che non è la Massoneria, ma un percorso iniziatico che prosegue la riflessione partendo dai fondamentali, questi si autenticamente massonici, dei tre gradi simbolici: Apprendista, Compagno, Maestro. Su questi argomenti ho scritto e pubblicato testi ai quali rinvio chi volesse approfondire il mio pensiero in merito. (Vedi in proposito il mio: “Le radici scozzesi della Massoneria).

    Anche i landmarks sono riferimenti controversi e opinabili.

    La prima questione da chiarire riguarda i landmarks (punti di riferimento, pietre miliari, segni di confine).

    Al capitolo VII del suo celeberrimo ed opinabile testo sui Rituali, Salvatore Farina cita i landmarks, parola che appare per la prima volta nelle Ordinanze Generali approvate il giorno di San Giovanni Battista del 1721 a Londra. Dei landmarks, la cui origine risale al pastore protestante Anderson, che scrisse le regole della Massoneria hannoveriana, sono state redatte, in seguito, molte versioni, tra di loro diverse e spesso tra di loro discordanti.

    A proposito dei landmarks, un confine preciso e inequivocabile va tracciato tra questi e gli Old Charges.

    Gli Old Charges non possono infatti essere identificati con i landmarks e nemmeno con le Costituzioni del 1723 ” i cui autori – scrive René Guénon – si impegnarono, per quanto possibile, a far sparire proprio gli Old Charges, vale a dire i documenti dell’antica Massoneria operativa”. [1]

    Da una recensione della bibliografia internazionale, risulta possibile rintracciare numerosi elenchi di landmarks (in genere identificati con il nome di chi li ha stilati) pubblicati a partire dalla nascita della cosiddetta Massoneria cosiddetta speculativa e successivamente adottati, parzialmente o completamente, da numerose Grandi Logge o dai Grandi Orienti del mondo. I più noti sono quelli di:

    1) John W. Simons, con 1S Landmarks (1864);

    2) Luke A. Locwood, con 19 Landmarks (1867);

    3) H. B. Grand, con S4 Landmarks (1894);

    4) Albert J.G. Findel, con 9 Landmarks

    S) Alèxander S. Bacon, con 3 Landmarks (1918);

    6) Roscoe Pound, con 7 Landmarks (1921);

    7) Joseph D. Evans, con 10 Landmarks (1923);

    8) Harry Carr, con cinque Landmarks;

    9) Albert Mackey, con 2S landmarks (18S8);

    10) Rob Morris, con 17 Landmarks (18S6);

    11) Landmarks della Gran Loggia del Minnesota.

    Nei landmarks Dio e anima sono concetti controversi.

    Di alcuni di questi landmarks riporto le parti riguardanti Dio e l’anima.

    Landmarks di Harry Carr -Il massone deve professare la fede in Dio, Grande Architetto dell’Universo. Il Volume della Legge Sacra deve essere presente in loggia e accessibile a tutti. Il Massone crede nell’immortalità dell’anima.

    Landmarks di Rob Morris -La legge di Dio è la norma e il limite dalla Massoneria.

    Landmarks secondo Albert G. Mackey -Credenza nella esistenza di Dio quale Grande Architetto dell’Universo. Credenza di una resurrezione ad una vita futura.

    Landmarks secondo Roscoe Pound -Monoteismo, il solo dogma della Massoneria. Credenza nell’immortalità, la conclusiva lezione di filosofia della Massoneria. Il Volume della Legge Sacra, parte indispensabile dell’arredo della Loggia.

    Landmarks della Gran Loggia del Minnesota -Che una credenza nel Supremo Ente, il Grande Architetto dell’Universo, che punirà il vizio e premierà la virtù, è un indispensabile prerequisito per l’ammissione in Massoneria.

    Landmarks Albert J.G. Findel -Il candidato all’iniziazione deve confessare un culto universale, quello della legge morale, professato da tutti gli uomini indistintamente quali che siano le loro convinzioni religiose o le loro idee metafisiche particolari.

    Landmarks secondo i Fratelli Chalmers (citazione del Farina) – A proposito di Dio affermano: “il credere nell’esistenza di Dio, il credere nella resurrezione dei corpi e nella vita futura”.

    Pare del tutto evidente che siamo di fronte a tali differenze concettuali che i landmarks diventano un insieme di affermazioni assolutamente e totalmente inutili ad essere effettivamente dei landmarks, ossia delle pietre miliari, in quanto sono frutto di opinioni assai diverse e opinabili.

    Dio e anima nelle formule di conventi e conferenze

    Il Convento dei Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato di Losanna 1875 (6-22 settembre) affermò: “La Libera Muratoria proclama, come ha sempre proclamato fin dalla propria origine, l’esistenza di un principio creatore sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”. E aggiunge: “Non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a ognuno questa libertà che esige da tutti la tolleranza.  La Massoneria è, dunque, aperta agli uomini di ogni nazionalità, di ogni razza, di ogni credenza”.

    La formulazione fu contestata nella Conferenza Internazionale dei Supremi Consigli di R.S.A.A. del 1907 a Bruxelles e dalla Conferenza internazionale tenutasi a Baranquilla (Colombia) nel 1970, che rimandò ai regolamenti del 1762 (Parigi – Berlino) e alla Costituzione del 1786 (Federico II).

    Nelle Costituzioni di Bordeaux 1762 si legge: “Siccome la Religione è un culto necessariamente dovuto a Dio Onnipotente, nessuna persona sarà iniziata ai misteri sacri da questo eminente grado, se non soggiace ai doveri della religione della nazione in cui deve indispensabilmente aver ricevuto i venerabili principi; e che questo deve essere certificato da tre Cavalieri Principi Massoni;….”.

    E’ noto, inoltre che Albert Pike (riformatore americano del Rito scozzese) rifiutò le dichiarazioni di Losanna e diede del Rito Scozzese una propria interpretazione, riformandone i rituali.

    L’insieme delle diverse formulazioni, sia dei landmarks, sia delle varie conferenze e conventi internazionali del Rito scozzese, nonostante risentano dell’influenza giudaico-cristiana, propone alla riflessioni due questioni. L’immortalità dell’anima e il concetto del divino come Grande Architetto dell’Universo. Due questioni che meritano di essere al centro dei lavori massonici senza cadere nella tentazione di abbracciare questa o quella religione.

    Riguardo alla questione dell’anima, il convegno del 23 marzo 2019, dal titolo: “La scienza dell’anima” ha come intento l’approfondimento di una questione che riguarda da vicino ognuno di noi. Per quanto riguarda questa questione rimando agli articoli pubblicati su questo sito.

    Un approfondimento delle questioni dell’anima e del divino parrebbe necessario, anzi, direi, indispensabile, ma necessita dell’acquisizione del dato che Federico II non è stato il fondatore del rito e nemmeno colui che lo ha fornito delle sue Costituzioni. La questione di Federico II, simbolo del connubio tra un despota illuminato e i gesuiti, va consegnata alla leggenda, perché tale è e rimane.

    Riportare alla verità storica la questione di Federico II libera l’interpretazione dei Rituali scozzesi dall’influenza gesuitica che su di essi grava.

    Infatti, nonostante i tentativi di manipolazione per costringere il Rito scozzese in una cornice giudaico-cristiana, questo mantiene una sua indubbia validità se, sotto il velame di una prima e superficiale lettura, si cercano i significati nascosti. Compito che è dei Massoni, dei frequentatori del Rito, ma anche di chi abbia voglia di cimentarsi pur essendo estraneo sia alla Massoneria, sia al Rito scozzese.

    La questione dell’ateismo

    Una delle questioni che emerge dalle varie affermazioni dovute alle Conferenze internazionali del Rito, ma anche delle Costituzioni redatte dal pastore protestante Anderson, è l’ateismo

    Nella Dichiarazione dei Principi approvata dal Convento dei Supremi Consigli Confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875, alla quale il R.S.A.A. si riferisce, si legge (citazione del Farina): “La Massoneria proclama, come ha sempre proclamato sin dalla sua origine l’esistenza di un principio creatore, sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”.

    Nelle Costituzioni di Anderson è scritto: “Il massone è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai uno stupido ateo né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore e onestà, quali che siano le denominazioni che li possono distinguere; per questa ragione la Muratoria diviene il Centro di Unione, il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti”.

    Se analizziamo le Costituzioni di Anderson e le dichiarazioni del Convento dei Supremi Consigli Confederati di Losanna del 1875, ci troviamo necessariamente a confrontarci con l’affermazione che che un massone non sarà mai un ateo stupido.

    L’affermazione di Anderson consta di un sostantivo (ateo) e su un aggettivo (stupido). Non è lecito supporre che l’aggettivazione sia pleonastica e, pertanto, va analizzata con la necessaria attenzione.

    “Per i Greci – scrive in proposito Roberto Calasso -, átheos era innazitutto chi è abbandonato dagli dèi, non chi si rifiuta di credergli, come rivendicano fieramente i moderni”. [2] “I Greci – aggiunge Calasso -, sapevano chi erano e che cosa erano gli dèi. Più che credere agli dèi li incontravano”. [3]

    L’aggettivo stupido deriva dal latino stupere, sbalordire; dalla radice *(s)tup, da cui il greco týpto (io batto), il sanscrito tupami (colpisco). Stupidus, da stupeo, significa: stordito, attonito, senza senso.

    Essendo abbandonato dagli dèi, ossia dalle potenze dell’essere, che si mostrano come archetipi (il cui linguaggio è quello dei simboli), non essendo più capace di incontrarli, in quanto incapace di rapportarsi ad essi, avendo perduto la chiave del loro linguaggio, l’essere umano è attonito, stordito, sbalordito, senza senso ed essendo senza senso è disorientato.

    Ma cos’è il senso? E’ il Logos.

    Nel frammento 50, il pagano Eraclito, a proposito del Logos, afferma, nella traduzione di Diels: “Se non hanno inteso, non me, ma il senso, è saggio dire, secondo il senso (logoV) che tutto è uno”. [4] “Il movimento dell’intervento, che governa nella mobilità delle cose – commentano Heidegger e Fink –, accade in modo conforme al logoV”. [5]

    L’ateo stupido ha perso il senso; ha perso il Logos; ha perso la parola. Ecco la parola perduta: il Logos incompreso, la perdita del senso.

    Il massone, in quanto il percorso iniziatico lo mette continuamente a contatto e a colloquio con gli archetipi e con i simboli, non sarà mai uno stupido ateo; non è infatti abbandonato dagli dèi e rapportandosi ad essi incontra e ascolta e accoglie il Logos, azione dell’Arché.

    Gli dèi, potenze dell’Essere, sono archetipi, impronte, sigilli, marchi dell’Arché, ossia dell’Origine.

    “La ragione, il sapiente, il Logos e concetti affini non sono – scrive Eugen Fink – capacità soggettive, ma sono primariamente potenze che vigono attraverso il mondo, potenze cui l’uomo può prendere parte”. [6]

    Tuttavia, come spesso avviene quando si ha a che fare con documenti riguardanti il mondo iniziatico, non ci si può accontentare di una sola interpretazione.

    Se, infatti, l’interpretazione della frase relativa allo stupido ateo è che il massone deve credere in Dio, essa ci appare grossolana.

    Non ci possiamo accontentare nemmeno di quella che ci presenta il massone come conoscitore si simboli e di archetipi e, in quanto tale, in collegamento con il divino.

    La questione è, infatti, quella del Fondamento, ossia dell’Archè. Quell’Archè con la quale ogni qual volta si aprono i lavori di una Loggia massonica i massoni sono costretti a confrontarsi in quanto sull’Ara è presente nel Prologo del Vangelo di Giovanni nella sua fondante accezione di Principio, di Fondamento, di Origine della quale il Logos è azione improntante. Nel Vangelo di Giovanni è presente il binomio informazione-energia. E qui la questione del divino incontra non solo religioni, archetipi, miti, simboli, ma anche la scienza.

     

    [1] René Guénon, Etudes sur la Franc Maçconnerie et le Compagnonnage, Ed. Traditionelles, Paris, 1964

    [2] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [3] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [4] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [5] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [6] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donelli editore

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (3)

    di Silvano Danesi

    Il “Nome Indicibile”

    Nella leggenda del 13° grado, non è conservata la “Parola Indicibile”, ma il “Nome Indicibile” dell’Essere supremo, del quale è smarrita la chiave della pronuncia, incisa su una colonna di marmo.

    In questo caso è il marmo a darci un indizio. Il marmo, carbonato di calcio, è pietra e pertanto il “Nome indicibile” dell’Essere supremo è inciso nella pietra.

    La pietra è simbolicamente la Natura (vedi il mio: Tu sei Pietra”) e il “Nome ” dell’essere supremo, che nominandosi si fa ente ed evidente nella Natura, è la serie infinita delle infinite determinazioni dell’Essere negli enti.

    Come direbbe il taoista: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”. E ancora: “«Non-essere» è il nome che diamo all’origine del cielo e della terra, «essere» è il nome che diamo alla madre di tutte le creature…..Pur avendo nomi differenti, i due hanno origine comune. Ciò che hanno in comune, lo chiamano «oscuro», oscuro e ancora più oscuro, la porta di tutti i portenti”.

    In un quadro di Nicolas Poussin, I pastori in arcadia (1640 circa), ispirato dal gesuita Athanasius Kircher, su una tomba di marmo si legge: “Et in arcadia ego”.

    Ben oltre ogni fantasmagorica interpretazione, il significato è abbastanza chiaro. Il Logos determina, manifesta, il Nascosto nell’arcadia, ossia nella Natura.

    L’Arco Reale

    Interessante è anche la similitudine dei luoghi dove sono custoditi la “Parola indicibile” e il “Nome indicibile”: la prima nell’Arca e la seconda sotto un arco.

    L’Arca, radicale di Arc-Alc ha il significato di riposo, protezione (sanscrito Raksami) è indicativo di una linea curva, di un gomito.

    Arco e Arca ci introducono ai misteri dell’Arco Reale.

    La prima chiara menzione dell’Arco Reale è del 1744 (Massimo Graziani, Il rito di York, Bastogi) e, come scrive ancora Graziani, il “primo rituale che può essere ricondotto all’Arco Reale fino ad ora scoperto risale al 1760 circa ed è incluso in un manoscritto francese della collezione di Heaton-Card che si trova nella biblioteca della Freemasons’ Hall ed è scritto in francese. Nella parte relativa ad un originario cerimoniale, si parla di una camera sotterranea sostenuta da nove archi, che si raggiunge scendendo nove gradini e che viene aperta e chiusa bussando nove volte. Una luce indica il cammino verso la camera sotterranea. Nella spiegazione della tavola di tracciamento si dice che il sole è la vera luce che serviva a guidare i nove Fratelli che avevano scoperto grandi segreti; sulla tavola sono dipinti nove archi, la volta di una camera sotterranea e i nove gradini “che servivano a scendervi dentro”, una pietra con un anello che chiude la camera, una torcia spenta dal sole del simbolismo dell’A.R., un vassoio triangolare d’oro che reca il Nome Sacro”. [1]

    “Nei documenti anora rimasti anteriori al 1723 – scrive in proposito Laurence Gardner – anno dell’uscita della Costituzione massonica di Anderson, si precisa non meno di 23 volte che il Capitolo dell’Arco Reale altro non fa che perseguire l’Arte Reale, parole che sempre vengono scritte in evidenza, in carattere maiuscolo o corsivo. Sin dall’inizio, d’altra parte, si pone la domanda: «Da dove deriva la linea dell’arco?». Cui segue la risposta dell’affiliando: «Dall’arcobaleno». Vale a dire una risposta perfettamente allineata con il concetto di «luce ricurva»”. [2]

    Abbiamo dunque in evidenza il concetto di luce ricurva dell’arcobaleno, ponte tra il cielo e la terra.

    Qui giunti si rendono necessarie alcune precisazioni.

    La massoneria del Real Arco è confusa con il Rito di York, è “pervasa dal più intransigente puritanesimo” (Porciatti) e alla sua fortuna hanno “contribuito probabilmente i Gesuiti” (Porciatti).

    Il Rito dell’Arco Reale si è sviluppato in ambiente Antient, che ha rivendicato anche la paternità del Rito di York, ma il Rito di York originario evoca radici ben più antiche connesse con la presenza in Scozia dei Culdei.

    “I Culdei di York – scrive Leadbeater – erano fra i guardiani della tradizione massonica del Decimo secolo e gli Antichi Doveri ricordano un’assemblea di massoni che si tenne a York durante il regno di Athelstan in cui l’arte fu riorganizzata”. [3]

    “Una linea di tradizione degna di essere menzionata – aggiunge Leadbeater – connessa in certo modo con la massoneria di mestiere, ma ancor più con l’Ordine Reale di Scozia e il 18° grado si trovava tra i Culdei d’Irlanda, di Scozia e di York”. [4]

    I Culdei erano monaci cristiani di ascendenza druidica e tra gli iniziati dei riti culdei Iona, uno dei centri antichi del druidismo, era chiamata Heredom (denominazione alla quale si riferisce il Rito di Perfezione nato in Francia in ambito giacobita). L’isola di Iona, infatti, uno dei cuori della chiesa cristiano celtica, era chiamata dagli isolani Inis nan Druidhneah (l’isola dei Druidi), intendendo che prima della venuta di San Columba nel 563 d.C. eran un centro dell’antica devozione druidica.

    Il regno celtico di Dalriada è durato fino al tempo di Giacomo VI, erede di un Giacomo, Lord Stuart di Scozia, che fu Gran Maestro di una Loggia costituita a Kilwinning nel 1286 subito dopo la morte di Alessandro III (Leadbeater).

    E’ del tutto evidente che il Rito Scozzese è maturato nell’ambiente della corte stuardista in esilio in Francia e la linea stuardista conduce a York, alla tradizione culdea e al druidismo.

    Il riferimento all’Arco reale, confuso con il Rito di York in versione Antient, va pertanto rivisitato in un’altra chiave e questa può essere rinvenuta, come afferma Porciatti, “nell’austera veste” del Rito Scozzese.

    Fatte queste necessarie considerazioni, credo si possa andare oltre l’orizzonte giudaico-cristiano, non solo nella direzione culdeo druidica, ma anche, com’è giusto che sia, in quella di altre grandi tradizioni iniziatiche, come l’egizia.

    Ci si riferisce spesso all’Arco Reale del Tempio di Salomone, ma nella Bibbia non c’è traccia di questo arco, anche se Ezechiele nella sua visione del secondo tempio cita spesso gli archi che abbracciavano le colonne intorno ai vari cortili.

    “Invece di riferirsi alla loggia del Tempio salomonico di Hiram Abiff (come è nel conseguimento del terzo grado massonico), il rituale dell’Arco Reale – scrive Gardner – si focalizza su un evento ancora precedente; si collega a quella che è considerata la prima autentica loggia, la loggia «del Monte Horeb nel deserto del Sinai», presieduta da Mosè in persona, Abihu (uno dei figli di Aronne) e Bezaleel, l’artefice”. Gardner ipotizza che l’Arca dell’Alleanza fosse uno strumento che producendo un Arco Reale fosse in grado di creare la sacra pietra (manna) ricavata dalla polvere bianca ottenuta dall’oro. Una polvere superconduttiva denominata Ormus o Mfkzt. E Ormus è nome che è strettamente connesso con il Priorato di Sion e con i Templari (vedi in proposito il mio: Tu sei Pietra).

    A 800 metri di altezza, nella piana sabbiosa di Paran, c’è il monte Horeb, il monte di Mosè. Oggi la località è chiamata Serâbit el Khâdim. L’archeologo Petrie scoprì su una piattaforma di circa settanta metri, partendo da una vecchia grotta artificiale, le rovine di un vecchio tempio della IV dinastia attivo già al tempo del faraone Snefru, nel 2600 a.C. e rimasto attivo fino al XII secolo a.C. I reperti partono dalla IV dinastia e arrivano alla XVIII e ai Ramessidi della XIX. Il tempio era quindi ancora attivo al tempo di Akhenaton, da molti studiosi ormai messo in relazione diretta con il Faraone di Tel Amarna, propugnatore del monoteismo. Il tempio era dedicato ad Hator.

    La polvere MFKZT, trovata dall’archeologo Flinders Petrie sul monte Horeb, attualmente Serabit El Khadim, nel tempio di Hator, è stata fortunosamente ricavata recentemente. David Hudson, un coltivatore americano che voleva ammorbidire il suo terreno con dei componenti chimici, prima di effettuare l’operazione decise di far analizzare dei campioni. Durante le analisi si verificò uno strano fenomeno: il residuo secco esposto alla luce del sole e al calore generava un lampo di luce bianca, accecante e svaniva. Nel crogiolo, dove il campione era stato miscelato con del piombo, rimaneva un amalgama pesante, ma fragile, che si sbriciolava al colpo del martello. Analisi più specifiche, condotte presso l’Accademia sovietica delle scienze, evidenziarono la presenza di palladio, platino, rutenio, iridio: tutti elementi del gruppo del platino. Era la polvere MFKZT. Quando mutava il suo aspetto da scura a bianca sfolgorante, la sostanza si tramutava in polvere e il suo peso scendeva fino al 56% di quello iniziale. Dove finiva il 44%? Si comprese in seguito che levitava e trasferiva la sua leggerezza agli oggetti con cui veniva a contatto, che, in alcuni casi, levitavano anch’essi. La polvere si comportava come un superconduttore. Il campo magnetico terrestre è in grado di fornire energia a un superconduttore facendolo levitare e questo, quando levita, si comporta come un riflettore di luce. Inoltre, nel caso di due superconduttori attivi in collegamento, si verifica un altro fenomeno, detto “coerenza quantica”, durante il quale avviene il trasferimento di luce fra i due. E’ stata studiata la possibilità che con un superconduttore mono atomico, proprio come la polvere MFKZT, si possa costruire una batteria energetica che una volta attivata dura all’infinito. Altri studi hanno portato a prevedere la possibilità, con l’utilizzo della polvere monoatomica, di distorcere lo spazio tempo. La MFKZT risuona in una dimensione differente e in determinate circostanze diventa invisibile. Quando il peso del campione analizzato toccava lo zero, il campione svaniva materialmente per riapparire applicando il processo inverso. Distorcere lo spazio tempo vuol dire, ad esempio, che se ad un’astronave si espande lo spazio tempo nella sua parte posteriore e lo si contrae nella parte anteriore, questa può compiere enormi quantità di spazio in pochissimi millesimi di secondo. La distorsione dello spazio tempo veniva chiamata dagli antichi Egizi piano di Shar On o Campo di MFKZT. Si tratta del campo delle super stringhe, dove la materia entra e esce dal mondo che conosciamo. Non vediamo più la luce dell’oggetto, che diviene invisibile.

    Si è anche scoperto che i metalli del gruppo del platino monoatomico entrano in risonanza con il DNA e possono avere effetti curativi sul cancro, rettificando le cellule malate. Infine, quando la polvere ricavata dall’oro o dal gruppo del platino viene sottoposta a temperature particolari, si trasforma in vetro, colorato a seconda del metallo usato. Un vetro limpido trasparente senza la perdita di luce.

    L’Egitto ci riserva molte sorprese.

    “Una delle parole chiave simboliche trattate nell’Arco Reale – scrive Gardner – una parola che la tradizione dice essere stata scoperta nella grande cripta che stava sotto al primo Tempio, emersa nell’atto dell’erezione del secondo, quello voluto dal principe Zorobabale, è Jah-Bul-On. Trovata incisa su una placca dorata, la parola è una contrazione sintetica di una combinazione di parole che vogliono dire: «Io sono il Signore, il Padre di ogni cosa». Nella Massoneria questa definizione si riferisce al Grande Architetto dell’Universo. Scomponendola, scopriamo che Jah lo ritroviamo nel Salmo 68:4 (“Io sono”), Bul era un vocabolo canaanita (“Signore”) e On sta per “Casa del Sole”, che in traduzione suona come: «Io sono il Signore On». Ma, come sappiamo, il termine On (così come menzionato in Genesi 41:45 in riferimento alla città sacra di Heliopolis) aveva uno specifico legame con il concetto di Luce. Una versione completa e più accurata del nome è senz’altro: «Io sono il Signore della Luce»”.

    Heliopolis ci riporta alla IV e alla V dinastia e ai Testi delle Piramidi, che si vorrebbero trascritti dal faraone Unas sulla base di testi antichissimi.

    L’Arco Reale, se andiamo oltre il ristretto orizzonte giudaico cristiano nel quale è stato costretto da una cultura protestante hannoveriana e cattolico giacobita, ci conduce, pertanto, nel più profondo dei misteri d’Egitto e di quell’Arca che Manetone, sacerdote egizio, diceva essere strumento sacro sottratto dagli Ebrei in fuga (o meglio da Akhenaton, alias Mosè, mandato in esilio dal sacerdote Ay, retauratore del culto di Amon).

    “Nella più moderna Massoneria – scrive Andrew Sinclair – pochi alti gradi erano ambiti come quello del Santo Arco Reale di Gerusalemme, i cui misteri furono trasmessi dal Rito Scozzese Antico, portato in Francia dai Giacobiti all’inizio del XVIII secolo….”. [5]

    Siamo in presenza di indicazioni che invitano ad approfondimenti relativi ad una catena iniziatica e sapienziale che nell’Egitto del grande Thoth ha avuto uno dei suoi periodi di massimo splendore e che i Templari hanno con tutta probabilità recuperato in parte.

    [1] Marino Graziani, Il Rito di York, Bastogi

    [2] Laurence Gardner, I segreti della Massoneria, Newton Compton

    [3] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [4] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [5] Andrew Synclair, Rosslyn, la cappella del Graal, Ed. Età dell’Acquario

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (2)

    di Silvano Danesi

    Ark-ka, un canto pieno di gioia

    L’oscura origine è l’arché, la racchiusa, la tenebra e il canto è la sua parola, ossia il Logos, che è ark-ka (l’arca dell’alleanza, l’arc en ciel, il ponte). L’arco, l’arcobaleno, l’Arco reale, è la parola sapiente del dio.

    Dionigi Areopagita parla del divino come di colui che ha posto nelle tenebre il proprio nascondiglio, luogo ove “i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia”, ossia del parlare del divino, “sono svelati nella caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente”. [i]

    Bernardo Silvestre (Schola di Chartres), nel suo commento al “De Nuptiis” di Marziano Capella scrive. “In una certa traduzione della Genesi si legge che lo spirito del Signore covava le acque; e «acque» e «abisso» significano l’insieme degli elementi non ancora reso splendente dal suo ornato: e su di esso, come una chioccia sull’uovo rotondo, perché ne esca il pulcino, incombeva lo spirito di Dio, mentre preparava quella materia a produrre da sola i viventi”. [ii]

    La Genesi inizia con la parola Bereshit. Beit ha il significato di forma, di casa, di recipiente: è la prima lettera della Torà, la lettera della creazione. Reshit ha il significato di primazia, di principio di qualcosa (resh è testa, rosh è capo). Barà è creare, dividere.

    Bereshit, quindi, contiene in sé il concetto di un contenitore di un principio, di una casa di un principio. Bereshit è la potenza del pensiero contenuta in un contenitore. La seconda parola della Bibbia è il verbo barà, ossia dividere. Il puro pensiero si stacca dal suo contenitore.

    Il puro pensiero, anche in questo caso, reso con una parola che inizia con il suono R, è pensiero in movimento.

    La serie runica che precede Raidô rappresenta “il soffio non ancora modulato, non ancora divenuto parola”[iii] , la potenza del Caos non ancora ordinato dalla parola ordinante del Verbo, la “potenza racchiusa nella «pietra» che può essere ridestata e ordinata”[iv] e il soffio vitale, l’energia divina che anima il cosmo.

    Siamo, con tutta evidenza, di fronte al racconto sapienziale della manifestazione.

    Il tema della Parola come agente della manifestazione è stato, non a caso, introdotto, sia pure in epoca tarda, nei rituali massonici con l’utilizzo del Vangelo di Giovanni aperto al Prologo e che costituisce, alla luce di quanto sin qui detto, una chiave interpretativa dell’insieme dell’apparato archetipico e simbolico della Massoneria.

    Nel Vangelo di Giovanni, con il quale si aprono i lavori massonici, è scritto. “In principio era il Verbo (logos, ndr) e il Verbo (logos, ndr) era presso Dio [theon,ndr] e il Verbo (logos, ndr) era Dio [theos, ndr]”.

    Per i Druidi, scrive Jean Markale, la creazione è continua e perpetua e Dio non è, ma diviene. [v] Ed è così anche per Giovanni, visto che Théos, come s’è visto, deriva da theeîn, correre e theâsthai, vedere e dà, pertanto, l’idea di un procedere verso l’evidenza, di un continuo manifestarsi. In Théos è racchiuso il significato di un continuo muoversi verso la manifestazione.

    La Mason Word, dunque, si riferisce alle antiche tradizioni della parola creatrice e al segreto che è ad essa connesso.

    Ma davvero la Mason Word può dare la seconda vista? Cosa significa?

    Significa, probabilmente, in accordo con gli antichi Misteri, che il viaggio iniziatico porta l’iniziato all’epopteia, al “guardare sopra”, ossia all’acquisire un’altra visione della vita, del mondo, dell’origine, della manifestazione che avviene attraverso la Parola Indicibile. Nel viaggio l’iniziato scopre il suo Sé, si riappropria della sua essenza e dell’Essenza e così cambia il suo modo di vedere. La frequentazione di miti, simboli, archetipi, ha cambiato il suo punto di vista, la sua mentalità e allora non cerca più di “dire” la Parola Indicibile o di spiegarla, ma di “incontrarla”, laddove è possibile: “la incontra al suo oriente”. [vi] Il nuovo modo di pensare dell’iniziato è un “passare dal concetto alla metafora”, [vii] che è “la parola che porta fuori (meta-phorein) l’Ineffabile”. [viii]

    L’iniziato, andando incontro a se stesso, incontra il Logos, all’Oriente, in quanto il Logos orienta, dà senso al non senso, dà visibilità e senso all’abisso primordiale, estrae l’ordine dal chaos, differenzia l’indifferenziato, manifesta l’immanifesto (il Nun, l’abissale inconscio collettivo, l’oceano primordiale, la racchiusa Arché).

    La nuova vista vede, grazie alla Parola Indicibile, ciò che di volta in volta si rende evidente, ma è anche affamata di nuove visioni, poiché ha imparato a “guardar sopra”, inseguendo il fondo abissale dal quale emerge il manifesto.

    Eraclito scrive: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma”.

    La seconda vista è un “annusare”, un percepire, un “guardare oltre” ciò che la Parola Indicibile rende manifesto, perché la Parola Indicibile, il Logos orienta e orientando indica l’oltre: un viaggio infinito verso l’infinito.

    L’egizio Thoth (l’Ermete Trismegisto dell’ellenismo) era detto “naso”.

    Vedere è inseguire l’Oriente: orizzonte che si sposta mentre il cammino procede.

    Troppi cialtroni, sedicenti massoni e maestri, assetati solo di potere, schiavi di un Ego gonfio e tronfio, illudono degli assetati di conoscenza con la promessa di svelare segreti che solo loro posseggono, essendo giunti agli Alti Gradi, meglio ancora: al Vertice degli Alti Gradi e così vendono finte verità in cambio di sottomissione.

    La “Parola indicibile” è, dunque, il Verbo, il Logos e poiché, come insegna Giovanni: “In Arché era il Logos e il Logos era presso Theon e il Logos era Theos”, il Logos-Leone non è altro che l’Arché che, pronunciandosi, si rende evidente, ossia conoscibile (vid-vedere) come ente. E Giovanni ci guida alla Parola che diviene dicibile, pronunciabile, se noi diciamo di noi stessi: “Io sono la via, la verità e la vita”; se riconosciamo il Divino in noi.

    La parola è, dunque, azione creatrice.

    La Verità è un orizzonte che si sposta verso l’Oriente

    La Verità è come l’orizzonte: si sposta man mano cammini. Il viaggio presenta ad ogni passo scenari nuovi, ma ad ogni passo ne sopravviene un altro.

    Camminando sulla superficie della sfera del manifesto l’orizzonte è mutevole ed ogni verità è provvisoria. Accade allora che ci si rivolga al centro, ma ci rendiamo conto che quel centro è il nostro centro e la verità che vi troviamo è la nostra verità.

    Brian Josephson, premio Nobel per la Fisica nel 1973, ritiene che vi siano tre ordini di realtà fisica che possiamo descrivere come classico, quantistico e implicato (teoria di Bohm: ordine atemporale e aspaziale, definito Olomovimento).

    “La corrispondenza tra i vari ordini – chiarisce Odifreddi – non è soltanto metafisico, ma costituisce una vera e propria identità: in particolare la mente è l’esperienza del livello quantico della realtà, mentre la meditazione, o l’illuminazione, permette di sperimentare l’ordine implicato”. [ix] L’illuminazione dei Misteri è l’epopteia: la capacità di vedere sopra.

    L’incontrare la Parola Indicibile, l’andare incontro al nostro Sé, introduce il tema della salvezza.

    La salvezza

    La soteriologia (dal greco soteria= salvezza e logos=parola, ragionamento) è lo studio della salvezza nel senso di liberazione da uno stato o da una condizione non desiderata.

    Alcune soteriologie enfatizzano l’unione con Dio o con gli Dèi o la relazione con Dio o con gli Dèi, mentre altre enfatizzano più fortemente il coltivare la conoscenza o la virtù.

    Il primo approccio rimanda più propriamente al concetto di redenzione, laddove la liberazione è connessa con il concetto di riscatto e presuppone l’intervento esterno di un agente riscattante.

    Nel secondo approccio riscontriamo un evidente collegamento con il percorso massonico.

    Nel rituale, alla domanda: “A quale scopo ci riuniamo?”, il Primo Sorvegliante risponde: “Per edificare Templi alla virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio, lavorare al bene e al progresso della Patria e dell’Umanità”.

    L’intero percorso massonico è volto alla conoscenza e in particolare alla conoscenza di se stessi. Gli antichi Egizi dicevano che l’uomo è venuto al mondo per conoscere il proprio nome segreto (Ren) e conseguentemente seguire la retta via che, detto con parole di un’altra cultura, ottimizza il karma, ossia l’azione. Conoscere la retta via con la quale si manifesta il karma è conoscere il proprio destino ed essere capaci di realizzarlo al meglio.

    E’ interessante notare come il concetto di karma, particolarmente sviluppato nelle culture orientali (induismo, buddismo) possa, in ambito greco, essere fatto risalire al termine carmé, l’ardore bellico (connesso con kairo, karmene e, appunto, karma). Termine, quello di karmé, che in origine significava “gioia”, la gioia del guerriero di dare libero sfogo alla sua energia. In questo ambito semantico, possiamo attribuire al termine karma il significato di liberazione delle proprie energie, di manifestazione concreta di ciò che è racchiuso in noi. Il karma è pertanto la manifestazione del nostro nascosto progetto.

    Cos’è la virtù? Virtutem, accusativo di virtus, indica valentia, valore, forza (da vis). Al concetto di virtù è accostato quello del vizio, che alcuni vogliono derivante da evitare, schivare e altri da un tema viet, sanscrito vyath-ate dal significato di vacillare.

    Ancora una volta il rituale non ci consegna una lezione moralisteggiante, ma ci indica un metodo.

    Si raggiunge la salvezza allorquando, con la conoscenza di se stessi, del proprio nome segreto (Ren) e della Natura, frutto di valore, di valentia, di forza e di eccellente ricerca, si percorre la retta via del karma, ossia dell’azione che noi stessi ci siamo dati come compito da eseguire in questa vita per accrescere la Conoscenza complessiva nostra e dell’universo.

    Il vizio è il vacillare, lo schivare gli ostacoli, l’evitare le prove, l’abbandonare la retta via per perdersi per strade secondarie.

    La verità

    Il tema della salvezza è connesso con quello della verità.

    Quando noi cerchiamo, attraverso la realizzazione delle nostre energie interne nascoste e racchiuse nel nostro progetto di vita, seguendo la legge del karma, di conoscere la nostra verità, imitiamo il processo (via cammino) attraverso il quale l’Essere Nascosto si svela (a-letheia, verità) nella manifestazione.

    L’Essere o, in altri termini, l’Arché nascosta, la Tenebra, da cui emana la luce, infatti si svela, si presenta stando nascosta e nel Logos si dà, sottraendosi.

    L’Essere, come suggerisce in molte sue opere Umberto Galimberti, si presenta (a-letheia = verità), assentandosi (lantháno). Il Logos (tutto raccolto in ordine) abita nella verità.

    La verità è, dunque, la manifestazione stessa dell’Arché, la Natura, il cosmo che esce dal caos del nascondimento e che nel Logos trova il suo ordine.

    La verità, in quanto manifestazione, implica il segreto, ossia la non presenza della verità, il suo nascondimento e pertanto, avere consapevolezza del segreto è avere consapevolezza dell’Essere.

    Nel nostro procedere sulla via del karma, lo svelarsi del nostro progetto nelle nostre azioni, ci rinvia al nostro segreto.

    La verità è stata declinata in molti modi. Nel mondo induista, come dharma, è la consapevolezza del percorso, della retta via, del compito che ogni essere si è dato per fare esperienza di sé nel manifestato.

    Nel mondo occidentale, come suggerisce ancora Galimberti, la verità ha abbandonato il suo essere a-letheia, per affermarsi come orthótes, ossia come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdos).

    L’Occidente ha così perso il segreto, ossia la consapevolezza del Nascosto, della Nascosta Arché, la Tenebra, che si svela e che nel Logos ha la sua dinamica manifestativa. E il nascosto è il sacro.

    In Occidente l’uomo ha contemporaneamente perso il senso del proprio segreto, che nell’azione si svela e si manifesta, in quanto interpreta le proprie azioni, il proprio karma, come a-letheia, verità, liberazione della propria energia nascosta. L’uomo occidentale colloca le proprie azioni in ambiti valutativi esterni (efficienza, progresso, richiesta di legittimazione, ecc.). La conoscenza di sé è alienata. Il karma è delegato.

    Giovanni, nel suo Vangelo (14,6) alla domanda di Tommaso: “Chi sei?”, fa rispondere a Gesù: “Io sono la via , la verità e la vita”.

    Nel testo greco, ódòs è via, cammino e implica il camminare, il procedere, il muoversi verso. Verità è a-letheia, ossia non-nascondimento. Infine, vita nel testo greco è zoé, vita naturale universale, ossia Natura.

    Gesù dice di sé di essere un cammino, ossia un procedere verso, di essere manifestazione, non-nascondimento e Natura.

    Siamo in presenza di una dinamis che manifesta il Nascosto nella Natura e questa dinamizzazione del Nascosto è il Logos.

    L’azione (Verbo, Parola, Relazione, Logos) svela l’Essere e ne manifesta l’energia trattenuta.

    La Parola perduta è la perdita del Logos come Parola che parla della relazione tra il Nascosto e il Manifesto e che parlando del Nascosto, o meglio la Nascosta, la Vergine (racchiusa in se stessa), ne manifesta l’energia trattenuta, ossia genera mondi.

    “Tutto intorno a noi – scrive Maurice Cotterel (Cronache celtiche, Corbaccio) – è una manifestazione di Dio, in forma fisica o energetica. Il fiore non è un fiore, ha solo l’aspetto di un fiore, in realtà è Dio mascherato”.

    Lo spirito incarnandosi ha preso forma ed è divenuto materia.

    Lo spirito non ha un corpo; è corpo. E’ il nostro corpo animato che ogni giorno svela nelle nostre azioni (pensieri, parole, opere)il nostro progetto di vita.

    La salvezza, indagando se stessi (nella completezza del proprio essere e del proprio esistere come corporeità animata) e la Natura, è ritrovare la Parola perduta: il Logos nella sua potenzialità relazionale e generatrice, che rinvia al segreto della consapevolezza del Nascosto e il nostro Logos, che ci parla di noi e ci realizza. Possiamo così anche noi dire: “Io sono la via, la verità e la vita”, usando non il termine greco zoé, ma bios, vita particolare, individuale.

    segue

    [i] Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi

    [ii] Bernardo Silvestre, in Il divino e il megacosmo – Testi filosofici e scientifici della scuola di Chartres, Rusconi

    [iii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [iv] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [v] Jean Markale, Il Druidismo, Mediterranee

    [vi] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [vii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [viii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [ix] Piergiorgio Odfreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Einaudi