Le Cattedrali per il Terzo millennio non possono che essere, per i Liberi Massoni, Cattedrali alla libertà, alla democrazia e alla difesa dell’essenza spirituale dell’essere umano, senza la quale non c’è l’Umanità e, tanto meno, il suo progresso, ma un transumanesimo illiberale e totalitario.

Per  costruire queste cattedrali è necessario fare i conti con ciò che la realtà ci pone di fronte in questo momento  storico di grande cambiamento.

Nel testo di Salvatore Farina, “Il Libro completo dei Riti massonici” (Gherardo Casini Editore) si legge che, nel Rituale di Apprendista, in apertura dei lavori nel Tempio, il Maestro Venerabile avverte che non è più permesso ad alcuno “di intrattenersi in questioni di politica e di religione”. Cosa significa? Ha ancora senso?

Ha ancora senso, in questo primo scorcio di terzo millennio, affermare che nelle Tornate nel Tempio non si deve parlare di politica e di religione? Non ha forse più senso chiarire il concetto, affermando che non si deve parlare di partiti, di politici, di fazioni elettorali e che è invece più che mai opportuno riprendere in mano il bandolo della matassa per ritessere la trama della politica sull’ordito dei principi e per riscoprirne il valore essenziale per il progresso dell’Umanità?

Non ha altrettanto senso chiarire, se si intende difendere l’essenza spirituale dell’essere umano, che è necessario parlare di religione, nell’accezione di accesso al sacro e alla ricerca del Fondamento, non di religioni, ossia di sistemi di credenze, più o meno strutturati, e del loro sviluppo sulla scena della storia?

E’ sufficiente fare un passo in avanti nella lettura dei Rituali della Massoneria per trovarci immersi nel tema dei principi relativi alle forme di governo e alla tentazione, tanto assurda, quanto ricorrente, di fare di un’eteria iniziatica un soggetto di governo.

Nel testo del Farina, infatti, in riferimento al secondo grado, si legge che durante la cerimonia di passaggio, all’Apprendista, che sta per diventare Compagno, sono fatti leggere alcuni cartelli e su uno di questi si trovano i nomi di Solone, di Licurgo e di Pitagora.

Il Maestro Venerabile spiega che Solone era uno dei sette saggi della Grecia, poeta e grande oratore, il quale diede ad Atene una costituzione democratica e partì per un volontario esilio quando vide i suoi concittadini accettare il giogo di Pisistrato. Riguardo a Licurgo, il Maestro Venerabile afferma che egli era nato a Sparta due secoli prima di Solone e che con le sue leggi fu l’artefice della grandezza di quella città dell’antica Grecia.

Pitagora, afferma il Maestro Venerabile, creò quella scuola filosofica italiana che diede così splendidi frutti.

La riforma di Solone, nota anche come riforma timocratica o censuaria consistette in una serie di provvedimenti volti al mantenimento dello status quo, ma al contempo votati a risollevare i ceti più bassi dalle condizioni in cui versavano e a garantire loro una, pur limitata e circoscritta, rappresentanza politica. L’ideale che Solone cercò di realizzare nelle sue riforme costituzionali fu quello dell’eunomìa, del buon ordinamento, cioè di un sistema di leggi che garantisse la giustizia, cercando di ridimensionare il potere e l’arbitrio indiscriminato degli aristocratici. Gli antichi attribuivano a Licurgo, personaggio di incerta storicità e datazione (variabile tra l’XI e il VII secolo a.C.) l’elaborazione della legge che fissava l’ordinamento politico di Sparta. Secondo la tradizione, tale legislazione, chiamata Grande Rhetra, sarebbe stata dettata a Licurgo dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo a Delfi, con l’obbligo di mantenerla immutata nei secoli a venire. L’ordinamento politico di Sparta prevedeva due re (diarchìa), appartenenti a due famiglie (gli Agiadi e gli Euripontidi), le quali si ritenevano discendenti di Eracle, l’eroe mitico fondatore di Sparta; avevano compiti militari (comando dell’esercito) e religiosi. Vi erano, inoltre, cinque èfori (in greco, «custodi», «sorveglianti»), eletti fra tutti i cittadini, che restavano in carica un anno e avevano poteri molto estesi, compreso quello di giudicare gli stessi re. La gherusìa (o gerusìa), un consiglio degli anziani composto da 28 spartiati sopra i 60 anni, più i due re, preparava le leggi da approvare in assemblea e giudicava i reati più gravi. I membri della gherusìa si chiamavano geronti.  L’assemblea, chiamata a Sparta apélla, comprendeva tutti gli spartiati (e solo loro) con più di 30 anni, si riuniva una sola volta al mese, eleggeva gli èfori e i geronti, decideva sulla pace e la guerra, non poteva discutere, ma solo approvare o respingere le proposte di legge.

Quanto al riferimento a Pitagora, questo ci porta a riflettere su una concezione del governo della polis che ha connotato di sé i secoli e che rappresenta la parte del deposito pitagorico più discutibile e controversa, nonostante il valore dei suoi insegnamenti filosofici.

Pitagora, infatti, ha dato avvio all’utopia di un’élite che comanda il “gregge” degli umani in virtù di una propria sedicente competenza e di una propria sedicente saggezza. Un’utopia che ha ben poco di moderno e risponde all’archetipo del “Patriarca” a capo di una tribù di nomadi pastori; è pertanto un’idea tribale antica che oggi si veste con i panni del Nuovo Ordine Mondiale il quale vuole non migliorare l’Umanità, ma costruire una Nuova Umanità, composta da uomini nuovi, senza storia e senza radici. Non una società aperta, ma una società senza identità, al servizio di pochi ricchi sedicenti eletti che, se anticamente erano i proprietari del gregge (pecus), oggi sono i proprietari della pecunia.

L’utopismo, secondo Popper, conduce alla tirannia e al totalitarismo, in quanto il piano di governo della società (educazione del cittadino, ecc.) conduce ad un’identificazione della società con lo Stato e l’esigenza di condurre a “buon fine” l’esperimento induce a tacitare dissensi e critiche, comprese le critiche ragionevoli e quindi al controllo delle menti.  “Ma questo tentativo di esercitare il potere sulle menti – scrive Popper – inevitabilmente distrugge l’ultima possibilità di scoprire che cosa pensi veramente la gente, ed è evidentemente incompatibile con il pensiero critico. In ultima analisi tale tentativo deve per forza distruggere la conoscenza; e quanto più aumenterà il potere, tanto maggiore sarà pure la perdita di conoscenza”.  [i]

La costituzione di un’élite di governo ripropone il concetto di società chiusa, ossia tribale, che è la notte della ragione e il trionfo della tracotanza. 

 Karl R. Popper, nel suo saggio “La società aperta e i suoi nemici”, sostiene il concetto, del tutto condivisibile, che “la democrazia fornisce una struttura istituzionale che permette non solo l’attuazione di riforme senza violenza, ma anche l’uso della ragione in campo politico”. [ii]

L’eteria pitagorica, con la sua pretesa di esercitare il potere delle élite, ha fatto da paradigma alle teorie platoniche e a quelle successive da queste derivanti, le quali si appoggiano sul concetto di “popolo eletto”, che emerge dalla forma tribale della vita sociale e dall’esempio di società antica, dalla quale Platone trasse il suo modello.  

L’ottimo Stato di Platone è uno Stato di casta, ove la classe dirigente governa il suo gregge o armento umano.

“Per quanto riguarda l’origine della classe dirigente – scrive Popper -, si può ricordare che Platone parla nel Politico di un’epoca anteriore anche a quella del suo stato ottimo, quando « la divinità stessa guidava [gli uomini] al pascolo e presiedeva loro, come fanno ora gli uomini, i quali ….guidano al pascolo altri generi di viventi di loro meno nobili…»”.  E aggiunge: “Non si tratta affatto di una similitudine del buon pastore; alla luce di ciò che Platone dice nelle Leggi, questo passo deve essere interpretato assolutamente alla lettera. Infatti si afferma che questa società primitiva, che è anteriore anche alla prima e ottima città, è quella dei pastori nomadi sotto un patriarca”. [iii]

“Queste tribù nomadi, egli dice – continua Popper a proposito di Platone – si insediarono nelle città del Peloponneso, specialmente a Sparta, sotto il nome di «Dori»”, artefici, come ben fa notare Popper “del soggiogamento di una popolazione sedentaria ad opera di un’orda guerriera conquistatrice”, che ha come paradigma del governante il pastore patriarcale e la cui “arte di governare è una specie di arte del mandriano”. [iv]

Oggi l’arte del mandriano è incarnata dal modello cinese, ultimo sopravvissuto dei totalitarismi del ‘900. Non a caso il modello cinese è guardato con simpatia dalle élite finanziarie che, proclamando la open society, di fatto vogliono realizzare una società governata da loro stesse.

La simulazione, il mascheramento è proprio di chi agisce occultando la natura del proprio gioco.

Il progetto platonico di città viene esposto in un lungo dialogo, la Repubblica. L’idea della Repubblica è quella di una polis fondata su un ordinamento tripartito: a capo i filosofi, che sanno agire in vista del bene comune; poi i guardiani, che si occupano di proteggere lo Stato; e infine il popolo. A ognuno di questi gruppi corrisponde una parte dell’anima: razionale, irascibile, concupiscibile; a ogni parte dell’anima corrisponde una virtù: sapienza, coraggio, temperanza. La virtù della giustizia consiste nell’equilibrio delle componenti della polis, così come la giustizia nella singola persona consiste nell’equilibrio delle componenti dell’anima .

La realizzazione dello Stato giusto o perfetto platonico richiedeva alcune condizioni che per l’epoca erano piuttosto insolite: identità di compiti e di educazione tra uomini e donne, compresi gli esercizi ginnici e i doveri militari; una comunanza, per i guardiani, di donne e di figli, con la conseguente abolizione della famiglia e la trasformazione dello Stato in una grande famiglia e l’affidamento del potere ai filosofi.

“Perciò le donne dei guardiani – afferma Platone – devono spogliarsi, dato che si vestiranno di virtù anziché di abiti; e cooperare alla guerra e negli altri compiti di guardia dello Stato, senza occuparsi di altro”. […]. “Queste donne di questi nostri uomini siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti privatamente con alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore”.

Queste linee guida del rapporto tra uomini e donne non significavano il libero amore, ma accoppiamenti programmati dallo Stato al fine di ottenere la prole migliore, allevamento dei figli in istituzioni pubbliche, organizzate in modo tale che tutti potessero sentirsi membri di un’unica famiglia.

Lo Stato, secondo Platone, deve essere governato dai filosofi, in quanto: “A meno che i filosofi non regnino negli Stati o coloro che oggi sono detti re o signori non facciano genuina e valida filosofia, e non si riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia”, non ci può essere “tregua di mali per gli Stati”.

Così prosegue Platone in vari passi della Repubblica: “Se, dissi io, o i filosofi non siano re nella loro città, o quelli che ora si dicon re e potentati non si diano onestamente e convenientemente a filosofare, e l’unica cosa e l’altra non coincidano nella stessa persona, (cioè) la potenza politica e la filosofia, e se quei molti che ora tendono separatamente all’una o all’altra cosa, non ne siano eliminati assolutamente, non ci sarà, caro Glaucone, riposo dai mali per lo Stato, e credo nenache per il genere umano, non che germogli nel (mondo del ) possibile e veda la luce del sole quell’ordinamento che ora nel discorso abbiamo descritto”.  […]. “Questo intanto sulle nature filosofiche sia per noi stabilito, chì esse sono amanti sempre della scienza che può chiarirli intorno a quella sostanza che sempre è e non varia mai per generazione o corruzione”. […]. “Il vero amante del sapere dovrebbe esser maturato in modo da tendere tutto verso l’essere, e che non si dovrebbe fernmare alla molteplicità delle singole cose che sono oggetto di opinione, ma andrebbe diritto e non lascerebbe rintuzzare e non cesserebbe del suo amore prima di raggiungere la natura dello stesso in ciascuna sua manifestazione….”.

La Repubblica di Platone non è solo un’asettica elaborazione filosofica, ma si pone come un manifesto politico, conseguente ad esperimenti reali e propedeutico alla loro continuazione.

In particolare, il riferimento è, come ben spiega Luciano Canfora, professore emerito all’Università di Bari, al governo utopico-sanguinario dei Trenta (404-403 a.C.), i cosiddetti «trenta tiranni», i quali, “pur dopo la sconfitta e il naufragio tragico del loro tentativo «palingenetico», hanno continuato a ritenere che si fosse trattato unicamente di un incidente di percorso, cioè di un esperimento da migliorare e riproporre”.[v]

Luciano Canfora ricorda come ci fossero esperimenti di governo pitagorico in corso in vari luoghi. “In Magna Grecia era in atto da tempo, con Archita, l’esperimento di governo pitagorico che, a sua volta, non era stato senza effetti come elemento ispiratore della costruzione platonica. Platone va in Sicilia a tentare la Kallipolis perché a Taranto c’è Archita che governa”.[vi]

Canfora ricorda le critiche del tempo all’opera di Platone, prima fra tutte quella di Aristofane.

Sotto tiro è il ruolo dei «guardiani», pronti a combattere non solo il nemico esterno, ma chi all’interno agisce male. Un ruolo ben interpretato da tutti i totalitarismi e da tutti i dittatori succedutisi nei secoli.

Canfora ricorda inoltre la “polarizzazione negativa che Platone ha suscitato contro di sé e contro il suo spregiudicato interventismo politico” e come un “poco letto Aristofonte compose un Platone nel cui unico frammento superstite dovuto, al solito, ad Ateneo (XII,552 E = fr.8K-A) qualcuno dice, forse rivolto a Platone medesimo: «così in pochi giorni ci farai tutti morti»!”. [vii]

Significativo l’attacco sferrato alla Kallipolis di Platone da Erodico di Seleucia, grammatico del II sec. a.C. (Contro il filosocrate). “I due punti più rilevanti su cui si concentra l’attacco – scrive Luciano Canfora – sono: la pretesa platonica di formare «l’uomo nuovo» come premessa fondante della Kallipolis e la deriva «tirannica» che immediatamente hanno preso coloro che, in varie città greche, dopo aver frequentato lui si sono impegnati in politica”.[viii] “In altri termini – sostiene ancora Canfora – l’Accademia non fu semplicemente un «pensatoio» (come non lo fu del resto la meno strutturata ma non meno efficace cerchia socratica). E’ evidente che volle essere anche una fucina di  potenziali «governanti» (…). Perciò, soprattutto perciò, dall’esterno è stata vista con sospetto: anche come un pericoloso luogo di formazione di aspiranti a governare in nome di allarmanti progetti”. [ix]

La teorizzazione iniziata dai pitagorici, proseguita nei secoli nella Repubblica di Platone, nella Città del Sole di Tommaso Campanella, nell’Utopia di Tommaso Moro, nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone ha ispirato totalitarismi e dittature.

La libertà, la democrazia e il welfare sono oggi in pericolo di estinzione.

E qui arriviamo ad uno dei punti centrali del nostro ragionamento: il pericolo che libertà, democrazia e conquiste sociali siano condotte verso l’estinzione.

“Mai la libertà, dacché è divenuta il diritto moderno, ha corso maggiori pericoli di quanti ne corra ora”.

Tale affermazione, contenuta nel Rituale del 30° del Rito Scozzese Antico e Accettato, così come ce lo propone il testo del Farina (Il libro completo dei Riti massonici), ha il sapore di una profezia riguardante la drammatica attualità.

Una pandemia devastante ha posto l’essere umano di fronte alla sua fragilità e ne ha messo a nudo i deliri di onnipotenza. Gli umani, braccati da un nemico forse sconosciuto, mentre tentano di frenarne la ferocia e di combatterne la potenza, si sono asserragliati nelle loro moderne grotte.

La pandemia ha messo a nudo un’idea di progresso falsa, in quanto basata sul potere di pochi e su un uso della tecnologia che, progressivamente e subdolamente, sta mettendo limiti sempre più stretti alla libertà individuale e di pensiero e sembra indirizzata ad un asservimento generale dell’Umanità, in un moderno Medioevo, dove pochissimi comandano, pochi eseguono le direttive di chi comanda e la gran massa degli esseri umani subisce ed ubbidisce.

Nel mondo odierno si confrontano sistemi democratici, alla cui costruzione la Massoneria ha dato un contributo determinante e sistemi totalitari, che la Massoneria ha combattuto e ha il dovere di combattere.

Oggi, a fronte del tentativo globalista di instaurare uno governo mondiale orwelliano, a chi chiama in causa la Massoneria va detto a chiare lettere che la Massoneria è universale, in quanto pratica la conoscenza guardando alle leggi dell’Universo, ma non è per nulla globalista, in quanto ritiene la Patria uno dei pilastri sui quali costruire un armonico dialogo tra gli esseri umani che nei secoli si sono associati in nazioni, stati, patrie (luoghi dei padri).

La Massoneria ama la libertà, così come è scritto nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, di chiara ispirazione massonica: “Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli Uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando un qualsiasi Sistema di Governo diventa distruttivo di questi fini, è Diritto del Popolo di alterarlo o di abolirlo e di istituire un nuovo Governo, ponendone il fondamento su questi princìpi ed organizzandone i poteri in una forma tale che gli sembri la più adeguata per garantire la propria sicurezza e la propria Felicità”.

In questo inizio del Terzo millennio è in discussione il concetto di fratellanza, che nei sistemi democratici ha assunto le vesti concrete del welfare, ossia di uno Stato che guarda alla salute psicofisica dei suoi cittadini, attuando presidi, come la scuola, il sistema sanitario, la difesa dei più deboli, la cura degli anziani.

La tragedia pandemica ha messo a nudo uno degli aspetti più crudeli della progressiva perdita del concetto di fratellanza: il rispetto e la cura degli anziani, che sono i nostri padri e che diventano i nostri Avi. Chi non ha cura dei propri Avi, chi non li onora, è un’anima velenosa e di questi tempi si sono sentite voci e si è assisto a pratiche nefande che considerano gli anziani scarti di produzione, pesi da eliminare, perché costosi per un’idea di progresso che è fatta di produttori e consumatori asserviti al mercato, assurto a nuovo dio al quale rendere omaggio.

La decimazione degli anziani e le carenze dei sistemi sanitari hanno messo a nudo la progressiva eliminazione del welfare che, in altri termini, si chiama fratellanza.

Il concetto di progresso dell’Umanità è stato contrabbandato per progresso economico, produttivo e tecnologico, sempre più affidato all’automatismo algido degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, che già si ipotizza sostituirà quella umana, in una logica disumanizzante e illiberale che può sfociare in uno Stato totalitario mondiale, già ipotizzato profeticamente da Orwell e ben descritto in un film famoso: Matrix, dai risvolti iniziatici.

Sta tornando, come non si era visto da tempo, la censura, accompagnata dall’idea che sia lo Stato a decider cosa sia vero e cosa non lo sia, con sistemi di controllo che evocano quelli degli Stati totalitari dello scorso secolo e della Santa Inquisizione. All’informazione si vuol sostituire la formazione, con intenti pedagogici tipici dei regimi illiberali.

La libertà di espressione è un diritto inalienabile del cittadino in uno Stato democratico.

Il concetto di uguaglianza, conquista della democrazia, intesa come parità di opportunità per tutti i cittadini, da corroborare con il merito e la verifica, è messo drasticamente a rischio con il declino del welfare. 

A questa deriva la Massoneria ha il dovere di opporsi, con idee, progetti, azioni, per costruire le cattedrali del Terzo millennio che, come le cattedrali del primo e del secondo dell’era volgare, devono essere un inno all’armonia e alle leggi della natura.

La libertà è il bene principale dell’essere umano, affermato sin dal momento nel quale un profano bussa alla porta del Tempio. Gli si chiede, infatti, se è un essere umano libero, perché la libertà è la qualità prima, imprescindibile, irrinunciabile di ogni Massone.

Ad affermarlo in modo chiaro e fuor da ogni dubbio sono i Rituali massonici dei primi tre gradi e, in forma dichiarativa esplicita ed impegnativa, in quelli  del Rito Scozzese Antico ed Accettato nelle formulazioni che ci offre il Farina.

Il massone, avvocato del debole e del popolo, è agente di riforma e di progresso.

Nel 9° grado, il Massone è “un agente di riforma e di progresso: è l’avvocato del debole e del popolo: odia il potere insolente, impudente, l’usurpatore: ha la missione di istruire gli ignoranti, di soccorrere i disgraziati, di rialzare tutti coloro che sono caduti in basso. Per raggiungere tal fine il Massone agisce, combina le sue azioni in maniera di riuscire, detesta la vana agitazione, il turbamento inutile e lo sforzo inane”.

“La Massoneria insegna che il potere è una delega avuta dal popolo: la delega cessa quando l’interesse del popolo lo richiede. Il contratto è rotto se il potere non osserva la sua missione: la resistenza al potere usurpato è un’obbligazione sorgente dall’obbligo di mantenere intatto il progresso raggiunto dallo spirito umano”.

Non solo: “È vergognoso soffrire volontariamente e mettere ai piedi di un tiranno l’indipendenza acquistata dalla coscienza dell’uomo”.

La Massoneria dice ai suoi Fratelli: «Se l’intelligenza o la fortuna vi chiameranno a delle posizioni elevate, ricordatevi che colà i vostri interessi e quelli della vostra famiglia cessano di aver diritto su di voi avendo voi alienato a profitto del pubblico il vostro riposo e la vostra personalità, non avendo voi conquistato il posto, ma avendo il posto conquistato voi, il vostro tempo e la vostra forza. Accetterete lealmente le conseguenze di tale alienazione che avete fatta volontariamente: la vostra coscienza soltanto dovrà dominare le vostre azioni e funzioni: sarete al servizio del vostro paese, ma non potrete servirlo che secondo la vostra ragione. Se occorrerà affrontare persone più potenti di voi, il vostro dovere sarà di lottare anche se avrete la certezza di soccombere: se il pubblico si ingannerà, il vostro dovere sarà quello di sacrificare e di rinunciare alla vostra popolarità, di cedere il posto a coloro che potranno accettare le sue decisioni con la sincerità delle loro proprie convinzioni”.

Infine: «Non nascondete mai la vostra opinione: commettereste un abuso di fiducia se non vi ritiraste dalla vita pubblica quando vi trovaste ad avere delle idee diverse da quelle dei vostri mandanti”.

Nel 18° Grado è contenuto un insegnamento impegnativo: l’idea della difesa del diritto anche, se necessario, per mezzo delle armi, vale a dire l’idea cavalleresca.

“Durante l’oscura epoca medioevale – è scritto – la Cavalleria rappresentava la rivendicazione del diritto individuale: la difesa del debole, il giusto orgoglio del buon diritto, la protesta contro l’arbitrio. Nei tempi in cui tanti pregiudizi regnavano come despoti, sembra che l’uomo abbia avuto bisogno di dividere il lavoro: ad alcuni incombe l’idea scientifica, ad altri l’addolcimento dei costumi, ad altri ancora la conservazione dell’energia. Occorsero queste tre cose, amore, coraggio e scienza, per aver ragione del nemico, per giungere alla risoluzione pacifica, quando potè esserlo, violenta, quando fu necessario. Al naturalista laborioso, al dolce apostolo della tolleranza, la Massoneria aggiunse il Cavaliere. Dei tre, essa fece il Massone Rosa Croce. Dopo averlo armato di scienza e di libertà, gli dette una spada”.

Al Massone Rosa Croce, conseguentemente, è detto: “Che il debole e l’oppresso trovino in te un difensore risoluto; se occorrerà, dovrai salvare la Patria dalla tirannide da qualunque parte venga, sia dall’alto, sia dal basso. Che la tua intelligenza penetri le leggi del mondo. Che la giustizia esalti l’animo tuo. Sii libero! Sii felice nelle tue azioni …”. 

La Massoneria segue la legge del lógos e contrasta assolutismo e tirannia.

Nel 30° Grado, il Massone riceve dalla tradizione templare il dovere di lottare contro l’assolutismo.

“Così – si legge nel testo del Farina – uscendo dalla tortura, il Procuratore Generale del Tempio, Pierre de Bononia, diceva: «Il più gran bene che è dato all’uomo di possedere è il libero arbitrio». Un tal bene, il più prezioso fra tutti, non lo vogliamo per noi soli, vogliamo concederlo anche agli altri, ma sopra tutto, noi intendiamo proteggerlo e difenderlo presso coloro ai quali sarà contestato, lo fosse anche dai nostri stessi amici”.

Nel Rituale del 4° Grado si legge: “Noi abbiamo giurato fedeltà al dovere, qualunque esso sia. Il dovere comprende l’obbedienza alla Legge e, di conseguenza, la lotta contro la tirannia, poiché ogni tirannia è la negazione della Legge”.

Di quale Legge si tratta? Lo spiega lo stesso Rituale laddove è scritto: “Al di sopra di ciò voi sentirete l’immutabile ed eterna «legge che rappresenta la Massoneria, la legge del lavoro, la legge della trasformazione, la legge del movimento».

Più esplicito il 30° Grado dove, dopo un accenno ad un “focolare misterioso”, è scritto, sempre nel testo offerto dal Farina: “Tale è probabilmente il miglior simbolo della Realtà assoluta della quale la logica proclama l’esistenza, quando a mezzo del pensiero si sopprimono tutti i limiti di durata e di spazio. Vi è là un’immagine che può egualmente venire accettata dalla religione e dalla scienza. Se tale Realtà non è riconoscibile, noi possiamo almeno definire il suo modo d’azione nel tempo e nello spazio; è ciò che noi chiamiamo Lógos; è ciò che nel linguaggio simbolico della filosofia contemporanea viene chiamato Energia. Anche qui noi siamo impotenti a scoprire la natura intima di questo primo fattore; tuttavia, ciò che più è importante, noi possiamo stabilire che l’Energia opera secondo delle leggi fisse, accessibili al nostro intelletto”.

E ancora: “Così l’Energia, a mezzo della quale si rivela la Realtà che serve di base all’universo, appare, tanto nel mondo morale che in quello fisico, come il Potere eterno che lavora per l’armonia”.

Il 30° Grado ci parla di Energia, la stessa della quale si parla nei testi antichi della sapienza egizia, alla quale si richiama la tradizione massonica.

Nei testi egizi antichi troviamo infatti, a questo proposito, due definizioni molto interessanti: “Sono il Dio grande venuto al mondo da solo. Chi è? L’energia. L’oceano di energia primordiale. Il padre degli dèi”. Tomba della regina Nefertari.

Nei testi attribuiti a Ermete Trismegisto (La rivelazione di Ermete Trismegisto, Lorenzo Valla) si legge: “Dio energia che tutto comprende (CHII). L’energia di Dio è costituita dall’intelletto e dall’anima (CHXI). Dio è tutte le forme (Trattati X).

Riguardo al Demiurgo, ossia all’Artefice, al Logos (azione dell’Arché) i testi egizi sono altrettanto interessanti: “Io sono l’Eterno, sono la luce divina che è uscita dall’energia primordiale con il nome di Divenire. La mia anima (Ba) è di natura divina. Sono colui che ha creato il verbo. Vengo alla luce da solo, ogni giorno la mia vita è l’eternità”. Testi dei Sarcofagi.

La religione del lógos è ricerca del fondamento

Da quanto sin qui esposto è chiaro che la Massoneria ricerca il fondamento, il “primo fattore” e identifica nel Lógos l’agente della manifestazione di tutto quello che chiamiamo realtà.

Non è senza un preciso motivo che sull’Ara, all’apertura dei lavori massonici, si trovi il Vangelo di Giovanni aperto al Prologo.

Quella della Massoneria non è un’opzione religiosa nel senso di adesione ad una credenza specifica, ma è la presa di coscienza che in un testo sapienziale è contenuta, in forma sintetica e mirabilmente scientifica, la spiegazione della dinamica con la quale il Principio (Arché) dà luogo alla molteplice realtà per mezzo del Lógos, che è la sua azione attuativa.

Soffermiamoci sul concetto di religione, che il latino ci consegna con religio, religionem che ha il significato di “considerazione” o “cura riguardosa” e deriverebbe da un supposto verbo religere, composto dalla particella re- che accenna a frequenza e legere, scegliere. In senso figurativo è cercare e guardare con attenzione.

In questo senso la Massoneria potrebbe essere considerata una religione: la religione del cercare e del guardare con attenzione; la religione della continua ricerca per risalire dal molteplice al Fondamento, per accedere al sacro, per conoscere l’essenza, a partire dall’essenza propria di ogni essere umano. 

L’Enciclopedia Treccani, a proposito del termine religione, ci avverte che “l’origine storica del concetto ha per lungo tempo impedito un’adeguata comprensione di quelle formazioni culturali che comunemente si chiamano religioni e che sono di origini particolari e diverse: non è necessario infatti che una religione implichi un concetto di Dio, abbia articoli di fede, comprenda azioni di culto, né forme di carattere morale; come massimo comune denominatore di ogni complesso chiamato religione si può ritenere il rapporto di un gruppo umano con ciò che esso ritiene ‘sacro’, tenendo tuttavia presente che anche quest’ultimo concetto è indefinibile e storicamente condizionato”.

“Il termine religione – scrive a sua volta Umberto Gorel Porciatti – deriva dal latino religio ed è di etimologia incerta. Secondo la più accreditata etimologia la radice comune è quella del verbo relegere che vale anche aggomitolar di nuovo, scorrere di nuovo, risolcare; come tale è data da Cicerone (De Nat. Deorum, II, 28)….L’etimologia da religare – rilegare, legar dietro, attaccare, aggiogare – è quella di Lattanzio (Instit. VI, 28)”. [x]

Tra le possibili etimologie preferisco quella che fa discendere il vocabolo religione dalla particella re, che significa frequenza, e dal verbo legere, che equivale a scegliere e, in senso figurato, a cercare, guardare con scrupolosa cura. Cercare è il modo essenziale per conoscere.

Per questo motivo un massone non può essere un libertino (colui che esercita il libero pensiero) irreligioso, in quanto il suo operare è costante ricerca, rilettura, osservazione scrupolosa, sulla via illimitata della Conoscenza.

Nulla a che fare, dunque, la sua religiosità con le “religioni”, ossia con i sistemi ideologici che si occupano, a vario titolo, del Divino. Tali sistemi ideologici, che hanno origine in pensieri frutto della mente umana eretti allo status di verità rivelate, assiomatiche, dogmatiche, elaborano in seguito scolastiche che costituiscono il tentativo di trovare ad essi vie d’accesso razionali.

La Massoneria, come già detto, postula l’esistenza di un Fondamento, ma ne ricerca la conoscenza seguendo la via della sua azione e della sua manifestazione, senza sentirsi limitata dall’idea della rivelazione.

Transumanesimo: il virtuale surrogato dell’anima e dello spirito

In questo scorcio di inizio del terzo millennio, l’essere umano è disorientato e rischia di essere costretto nello spazio tempo della sua vita terrena, schiavo di illusioni transumananti.

La Massoneria ha oggi il compito sacro di riportarlo all’Oriente, al suo oriente, ossia alla presa di coscienza della sua essenza.

E’ questo un compito immane, ma necessario, in quanto siamo in presenza di teorie come il cosmismo e il transumanesimo che rischiano di snaturare l’essere umano e, conseguentemente l’Umanità intera.

Il virtuale al posto dell’animico e dello spirituale apre le porte ad una religione cibernetica, perfettamente funzionale alla finanza, che è, a sua volta, la virtualità dell’economia reale. 

Il confronto in atto non è solo politico, geostrategico, finanziario; è di mutamento antropologico.

La cibernetica e la genetica stanno diventando sempre più invasive della sfera relativa all’essenza dell’essere umano.

Le applicazioni della cibernetica sono arrivate ad un punto cruciale.

Cibernetica deriva dal greco kybernḗtēs, dal significato di pilota di nave e, oggi, in discussione, da parte dell’avanzare della cibernetica, è proprio il pilota che, in altri termini, è il complesso conoscitivo, sensoriale e coscienziale dell’essere umano, a partire dal suo cervello.

Il vascello, ossia il corpo umano, nella sua complessità omeostatica, è oggi messo a dura prova dalla genetica che, se da un lato lo aiuta a risolvere molte malattie, dall’altro lo può modificare nella sostanza. La genetica, infatti, è arrivata al codice.

Un esempio eclatante viene dalla Cina, che starebbe conducendo esperimenti su esseri umani, nello specifico membri dell’Esercito Popolare di Liberazione, al fine di sviluppare soldati che possano vantare capacità biologiche che superino anche quelle del più addestrato soldato, qualcosa che, in fin dei conti, abbiamo visto solo in qualche film di fantascienza o di supereroi. Per ottenere questo scopo i cinesi starebbero utilizzando la tecnologia CRISPR, una delle tecnologie di manipolazione genetica tra le più avanzate, ma anche tra le più discusse. In campo medico la tecnologia CRISPR viene usata per modificare i genomi e, ad oggi, è uno degli strumenti genetici più importanti in assoluto. Lo strumento può essere utilizzato per alterare in maniera relativamente facile le sequenze di DNA e ciò ha portato a molte applicazioni, tra le quali la correzione di difetti genetici e il contrasto e la prevenzione di malattie che vedono proprio nei geni le loro cause principali. Le preoccupazioni riguardano soprattutto eventuali applicazioni che si possono fare di questa tecnologia per modificare i geni al fine di aumentare le prestazioni di una persona o modificare le sue caratteristiche genetiche per scopi non medici.

Semnotei, perchè l’etica sia compagna di genetica e di cibernetica.

La Massoneria, in questo contesto, ha di fronte a sé nuove prove, così come le ha avute nei secoli passati, e ha il compito di combattere la tendenza disumanante, riportando costantemente l’essere umano a conoscersi come tale. 

In questa nuova temperie la Massoneria deve mettere a guardia della cibernetica e della genetica l’etica, secondo le accezioni eraclitea e heideggeriana di “soggiorno”, di abitare alla presenza del divino. 

L’eracliteo «Ηθος Ανθρωπῳ Δαιμων», «Ethos anthropoi daimon» (frammento 119 Diels Kranz), tradotto solitamente con un riferimento al carattere., è apertura verso il daimon.
Anche nella versione heideggeriana, che introduce il concetto di etica come soggiorno, il rapporto essere umano-daimon si propone come apertura dell’essere umano incarnato alla presenza del daimon, cosicché l’etica, da non confondere con la morale, diviene la conoscenza di se stessi come daimones, angeli, scintille del fuoco sempre vivo, al che acquista significato preciso l’imperativo scritto sul frontone del Tempio di Delphi: “Conosci te stesso”.

Conoscere se stessi nelle accezioni eraclitea e heideggeriana significa essere semnotei.

Così erano definiti dai greci i druidi, i grandi saggi del mondo celtico.

I druidi erano in primo luogo filosofi, conoscitori delle leggi della natura e dell’etica. Erano inoltre medici, giuristi e giudici, astronomi, profeti, in quanto la loro conoscenza permetteva loro di prevedere il corso degli avvenimenti e veggenti, in quanto capaci di vedere chiaro e a fondo nella dinamica della realtà, nell’anima degli uomini, nelle grandi leggi che presiedono alla manifestazione dello Spirito.

Che fossero veggenti lo dice il loro stesso nome, dru-wid, molto vedenti, dove il vedere è strettamente connesso con la conoscenza della parte più intima della realtà, oltre l’apparenza. Erano anche considerati semnnotei e su questa loro caratteristica mi soffermo, in quanto attiene al tema dell’etica.

L’etimo di semnoteo conosce varie possibili definizioni. Sul prefisso sem non ci sono versioni diverse tra di loro: deriva da sim (quella particolare molteplicità che è l’unità), dalla radice indoeuropea *sem dal significato di uno o assieme o tutt’uno. Theós potrebbe riferirsi alla radice Thýo, sacrificare. Mircea Eliade (Storia delle credenze religiose) ne esclude l’appartenenza all’area dayus. “Esso – scrive – deriva dal radicale indicante l’anima, lo spirito del morto” e lo confronta con il lituano dwesiu, respirare, con lo slavo duch, respirazione, con dusa, anima. “Possiamo dunque supporre – afferma Mircea Eliade – che theós, dio, derivi dall’idea dei morti divinizzati”. V’è, tuttavia, un’interpretazione che maggiormente mi convince e che si riferisce alla radice thea, che significa vedere, contemplare, da cui theáomai: guardo, contemplo, sono spettatore. E’ un’interpretazione del significato di semnoteo che meglio si addice al druida e che collima con il suo praticare l’etica.

Il soggiornare presso l’Essere, questo farsi ospitare, è proprio del semnoteo, ossia del druida, nella sua tensione verso l’unità con l’Essere e nel suo essere osservatore, contemplatore dell’Essere. 

L’etica è, dunque, un soggiornare che implica una tensione conoscitiva verso l’unità che si esplica nell’osservazione e nella contemplazione, ossia in una costante apertura, disponibilità al darsi dell’Essere. L’etica è tensione verso la conoscenza della sapienza del divino, dell’infinito campo informativo dal quale scaturiscono le realtà dei mondi.

Se l’universo, come ipotizzano gli scienziati, è essenzialmente informazione e i frammenti fondamentali di informazione che generano l’universo vivono alla scala di Plank in forma di bit, il semnoteo modernamente inteso è colui che sa ricevere le informazioni che promanano dal campo informativo che chiamiamo l’Essere.

Praticare l’etica, come facevano i druidi, è praticare il soggiorno ed è rendersi disponibili alla conoscenza. L’essere umano etico è colui che segue la via della conoscenza, la quale presuppone libero pensiero, scevro da dogmi, verità rivelate, schemi mentali e pregiudizi.

L’etica non è una costellazione valoriale, derivante da un Superente, come ad esempio il Sommo Bene, ma tensione conoscitiva, un aprirsi alla conoscenza, un’accettazione del costante sopravvenire del nuovo.

Essere semnotei significa essere disponibili ad ascoltare l’Essere, la voce dell’Essere che nell’orizzonte dell’apparire dà all’uomo notizie degli enti.

Qui incontriamo la Natura, la Phýsis che, nel pensiero dei presocratici, è l’apparire dell’Essere. Quando “i primi filosofi pronunciano la parola phýsis, essi – scrive Emanuele Severino – non la sentono come indicante quella parte del Tutto che è il mondo diveniente. …..Phýsis è costruita dalla radice indoeuropea bhu, che significa essere e la radice bhu è strettamente legata (anche se non esclusivamente, ma innanzitutto) alla radice bha, che significa «luce» e sulla quale è appunto costruita la parola saphés”[xi], dove saphés significa chiaro, manifesto, evidente, vero.

“La vecchia parola phýsis significa «essere» e «luce» e cioè l’essere nel suo illuminarsi”.[xii] Vera Luce.

Phýsis è “il Tutto che si mostra”[xiii] come verità incontrovertibile.

Severino ci ricorda che kósmos deriva dalla radice indoeuropea kens. “Essa – scrive il filosofo bresciano – si ritrova anche nel latino censeo che, nel suo significato pregnante significa «annunzio con autorità»: l’annunziare qualcosa che non può essere smentito, il dire qualcosa che si impone. Ci si avvicina al significato originario di kósmos se si traduce questa parola con «ciò che annunziandosi si impone con autorità». Anche l’annunziarsi è un modo di rendersi luminoso. Nel suo linguaggio più antico, la filosofia indica con la parola kósmos quello che essa indica con la parola phýsis: il Tutto, che nel suo apparire è la verità innegabile e indubitabile”. [xiv] Kosmos non è mondo, ma “invisibile armonia sottesa al chaós”[xv] La Vera Luce è armonia sottesa al chaós.

La phýsis, dunque, è kósmos e l’antica Dea Madre Universale era kosmós, cosmica. 

Sempre Severino, alla cui chiarezza espositiva ci affidiamo, scrive che epistéme, comunemente tradotto con scienza, è “lo «stare» (stéme) che si impone «su» (epí) tutto ciò che pretende negare ciò che «sta»: lo «stare» che è proprio del sapere innegabile e indubitabile e che per sua innegabilità e indubitabilità si impone «su» ogni avversario che intenda negarlo o metterlo in dubbio. Il contenuto di ciò che la filosofia non tarda a chiamare epistéme è appunto ciò che i primi pensatori (ad esempio Pitagora ed Eraclito) chiamarono kósmos e phýsis.[xvi]

La vera scienza è comprensione della Phýsis: il tutto che si mostra.

La vera scienza è, dunque, la comprensione della  phýsis, della Natura, del Tutto che si mostra.

Phýsis è kósmos ed è epistéme e phýsis è il rendersi evidente, l’apparire dell’Essere che, tuttavia, rimane nascosto.

“Se il mondo è phýsis che «dischiudendosi si manifesta», l’uomo si lascia sorprendere dallo stupore proprio di chi si meraviglia di fronte allo spettacolo cosmico che si dispiega”. [xvii]

E’ questa la condizione del semnoteo, del druida, dell’iniziato.

Nel pensiero filosofico antico troviamo la parola arché, “dimensione da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano”,[xviii] ma anche “forza che determina il divenire del mondo”[xix], quindi anche legge che lo governa (in altre parole Ritam, Recht).

L’arché è, nel pensiero dei primi pensatori greci, “l’unità da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano”[xx]. Un’unità intesa come identità che ogni singolo ha con ogni altro.

Arché o àrchi, come árchein, dal significato di principio, di essere a capo, di essere il primo di una serie e primo nel tempo e dal tempo (archaîos=antico) derivano dalla radice *arh dal significato di valere, meritare, potere, esser degno, superiorità, eccellente, primeggiare, grado superlativo. Tutti significati attribuiti alla Dea che è Potnia (potente), eccelsa (Brighit) e che è la prima e il principio.

Se analizziamo ora la parola archetipo, notiamo come sia composta da arché e typos (immagine, impronta). Gli archetipi sono dunque le immagini, le impronte dell’Arché, ossia della dimensione da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano e la forza che determina il divenire del mondo.

Il massonico concetto di Architetto dell’Universo (archi-tékton, capo costruttore) è dunque traducibile nell’azione del Principio che costruisce l’esistente: il Lógos.

La phýsis è (Anassimando) apeiron, ossia infinito, illimitato, immenso, originaria unità degli opposti ed è non solo arché, ma anche stoichéion, elemento unificatore del molteplice.

“Anche in Eraclito – scrive Severino – la phýsis è sia stoichéion, sia arché: sia l’identità delle cose diverse e opposte (ossia la loro legge e il loro ordine), sia il luogo divino dove tutti gli opposti sono originariamente ed eternamente raccolti e dove la legge delle cose è il contenuto della suprema sapienza del Dio, da cui procede ed è governato il divenire cosmico”. [xxi]

Essendo la phýsis, come s’è visto, l’apparire dell’Essere, la phýsis rimane sul confine del Tutto. Questo apparire sul confine è un’immagine che ben si attaglia alla druidica Nona Onda, “estremo confine della Terra, al di là del quale – scrive Philip Carr Gomm – si estendono i mari neutrali”.

La Nona Onda è l’estremo confine del soggiorno: un confine non statico, ma estremamente diveniente, poiché le onde continuamente si creano e si infrangono, rappresentando esse stesse il trasformarsi dello spirito (soffio divino) in vibrazione energetica, che è anche materia. Oltre la Nona Onda (il 9 è anche il numero della Dea, della Virgo, dell’energia) si estendono i mari neutrali, l’Oceano primordiale, il Punto Zero, Ceugant, l’Essere, la infinita informazione.   

Navigare sulla Nona Onda è solcare le acque del soggiorno, le stesse dove è nata Afrodite, spuma del mare primordiale.

Analizziamo ora anche il vocabolo chaós. Il chaós, dalla radice indoeuropea cha o gha indica apertura, dischiudersi.

Il chaós, scrive Severino, è “l’immensità dello spazio originario, l’apertura immensa, cioè non misurabile, illimitata. Tutti gli dei e tutti i mondi si pensano al suo interno. Il chaós è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Ciò che gli manca, per possedere il significato filosofico del Tutto, è il motivo in base al quale poter escludere che qualcosa si trovi al di fuori di esso”. [xxii]

L’Essere non è chaós e non è l’Uno (identità di ogni singola cosa con le altre: arché e stoichéion). L’Essere è Tutto. E’ Ceugant, il cerchio vuoto che tutto comprende. E’ zero.

Essere, da  *es,  in sanscrito “asus” che significa vita, vivente, ciò che in sé e per sé sussiste (la radice indogermanica bhû-bhue, si ricollega al greco phýo, che significa schiudersi, imporsi, predominare, da cui phýsis e phýein).

“Fondamento dell’essere – scrive Umberto Galimberti – è il fondo abissale (Abground) che si dischiude”. [xxiii]

Phýsis (phýo, dischiudersi),  il rendersi evidente del Nascosto, se vogliamo usare un simbolo sacro del mondo druidico, è rappresentabile con un triskel, che appunto rappresenta il dischiudersi, lo sbocciare e il tenersi dell’essere nel suo sbocciare in una trinità dicibile con: Skiant, Nerz, Karantez, dove Skiant è la sapienza dell’Essere (informazione proiettata, progetto), Nerz è la sua  forza (energia) e Karantez è l’amore (a-mors= vita), energia che si fa materia.

Tradotto in chiave massonica: Minerva (sapienza che illumina), Ercole (forza che rende saldo, impronta e stabilizza) e Venere (natura, vita, che irradia e compie nella bellezza).

Possiamo dire, in altri termini, che phýsis è il rendersi manifesto dell’Essere con la Sapienza, la Forza e l’Amore (Vita).

SKIANT

Soggiornare presso l’Essere, essere semnotei, druidi, significa sapersi collegare al livello profondo da cui emana la consapevolezza, poiché il Tutto è intelligenza cosciente.  

In quest’ottica, in base a questo approccio, anche la Natura, intesa come la Grande Dea Madre Universale, assume un significato che ci riporta all’etica, ad una tensione conoscitiva che coglie i vari stati dell’Essere nella sua incessante manifestazione.  

La conoscenza iniziatica è theoría e epistéme

Un cammino iniziatico ha come obbiettivo la conoscenza, intesa come theoría e come epistéme (la Vera Luce, la luce sacra della somma sapienza) e la ricerca come progressivo avvicinamento alla verità del Fondamento.
Theoría è contemplazione del lógos e, essendo il lógos l’azione e il mostrarsi dell’archè, ossia del Fondamento, contestualmente e necessariamente, è la theoría dell’arché, della phýsis e, infine, dell’ólos, il Tutto

Riassumendo il contenuto di alcuni frammenti eraclitei, Miroslav Marcovich, scrive che “a livello logico il lógos è valido universalmente e opera in tutte le cose” (114 + 2 DK), che “a livello ontologico, il lógos è un sostrato al di sotto della pluralità sensoriale delle cose: è una unità sottostante a questo ordinamento del mondo”; che “a livello epistemologico, riconoscere il lógos, è condizione necessaria per una reale e corretta conoscenza dell’ordinamento del mondo” (30DK) e, infine, che “a livello etico di comportamento, il lógos, è una regola di corretta condotta di vita (…)“.[xxiv] Scrive Eraclito: “Le cose di cui c’è vista e udito e percezione queste in verità io preferisco” (fr.55DK) e aggiunge: “Gli occhi sono testimoni più fedeli degli orecchi” (Fr 101 a DK). Tuttavia Eraclito ci avverte che: “Cattivi testimoni sono occhi ed orecchi per gli uomini, se questi hanno anime che non ne comprendono il linguaggio” (fr.107 DK) e che: “L’apprendere molte cose non insegna l’intelligenza; altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo e Pitagora; e anche a Senofane e Ecateo”. “La percezione sensibile e l’esperienza – commenta Miroslav Marchovic – richiamano la condizione basilare per l’apprendimento del lógos onnipresente, ma questa non è la sola condizione: altre ne sono richieste, fra cui l’intelligenza, la facoltà di interpretare correttamente i dati dell’esperienza e l’intuizione. Senza tali condizioni l’uomo non può raggiungere il lógos, né ottenere la sapienza (nous), rimanendo ad uno stadio sterile”. [xxv]

La Verità secondo cui il Tutto si costituisce è Dike, la giustizia. Adikía è l’ingiustizia, il non avere timore di Dike, la Verità secondo cui il Tutto si costituisce.

Eschilo, nelle Eumenidi, afferma: “Chi potrà ancora, città o mortale, venerare la giustizia, se non nutre la mente nella luce”.
Eschilo nell’Agamennone afferma che nutrire la mente con questa luce è darle la potenza.

E la Vera Luce è la sapienza, che è epistéme.

“La vita della città e del mortale – afferma Severino – ha “potenza” solo se si sottomette all’archè della verità che salva” e questa vita è quella dove il deinón-arché [il timore dell’arché] sorveglia la mente e le dà la luce del sapere che salva (sōphroneîn)”. [xxvi]

La hýbris è la “volontà di ogni singola forza del mondo di imporsi alle altre forze, senza tener conto dell’Ordinamento eterno di Dike”.
Nel linguaggio di Eraclito, hýbris indica il raddoppiamento di adikía […] che «deve essere spento» (Fr.43)”.

Nella temperie odierna la hýbris è in azione in molteplici forme ed è compito del Massone opporre alla hýbris il cammino iniziatico che ha come obbiettivo la conoscenza, intesa come theoría e come epistéme (la vera luce, la luce sacra della somma sapienza) e la ricerca come progressivo avvicinamento alla verità del Fondamento.

E questo perché l’iniziato è conscio del fatto che la “vera potenza non è hýbris, la prevaricazione che si oppone all’Ordinamento divino del mondo, ma è la potenza che da tale Ordinamento è concessa all’uomo, così come nell’«Inno a Zeus» si dice che il sapere che salva è un «dono» (cháris, v.182) dei demoni che siedono sul vero trono di Dio”. [xxvii]

“In quanto organizzata e dominata da hýbris, la vita è «oppressa dal padrone» (bíos despotoúmenos)”. [xxviii]

L’agire secondo Dike e seguendo la Vera Luce ha una conseguenza soteriologica. Chi è «giusto» è un «essente» che «non verrà completamente annientato». “Questo significa, certamente, che il giusto, a differenza dell’ingiusto, può rimanere nel mondo sino ai limiti estremi del tempo che è concesso ai mortali. Ma il suo «non essere completamente annientato» significa anche che vi è qualcosa di lui, e non dell’ingiusto, che sfugge all’annientamento, e cioè appartiene all’Essere, eternamente salvo dal niente, in cui è custodita l’essenza di tutte le cose”. [xxix]

Chi non vede secondo l’occhio di Dike (o di Maat, se il concetto è declinato nell’antico linguaggio degli egizi) è soggetto all’empietà e all’annientamento. La hýbris (l’empietà) è, infatti, connessa con l’ingiustizia, cosicché “la radicalità dell’annientamento dei mortali” riguarda coloro i quali si sono “lasciati dominare da hýbris, “mentre chi è “«giusto» […] è un «essente» […] che «non verrà completamente annientato»”.

Il tema dell’annientamento e della salvezza è presente nel rito osiriaco, che è all’origine dei riti eleusini, dove il cuore del defunto, sede dell’intelligenza, posto sulla bilancia di Maat, la Giustizia (come Dike) deve essere più leggero (esente da ingiustizia e da hýbris) della piuma della stessa Maat. Se il cuore è più leggero, il defunto si trasmuta in un Osiride giustificato, immortale e con un corpo di luce; se, al contrario, il suo cuore è più pesante della piuma di Maat, il defunto è annientato e la sua essenza non è salva. Il cuore che viene pesato non è il cardio, ma JB (o AB), il cuore energetico, il cuore di luce, che per essere tale, e quindi più leggero di qualsiasi elemento materiale, si deve essere svestito di ogni attaccamento materiale. Attaccamento che è la conseguenza di ingiustizia e di hýbris, cosicchè chi crede di essere potente in base alla hýbris e all’ingiustizia è condannato a rimanere nella materialità alla quale si è così fortemente affezionato.

La virtualità, con la quale si vorrebbe sostituire la dimensione animica del “corpo di luce”, che avvolge l’essenza, non salva dall’estinzione e dall’annientamento.

I venerabili custodiscono il timore di dike

L’agire secondo Dike e seguendo la Vera Luce, nella consapevolezza della conseguenza soteriologica, è il dono che l’iniziato riceve dal suo percorso ed è anche l’imperativo categorico che egli acquisisce man mano procede sulla via.

Tanto più, questo imperativo categorico, che deriva dalla conoscenza di se stessi, è il viatico dei venerabili.

Infatti, il sébas, il venerabile, è anzitutto il deinón (il timore di Dike) e venerabili sono coloro che custodiscono il timore e sono pertanto dikastaí (giudici e giudici anzitutto di se stessi).

Il giuramento che i giudici sapienti rispettano è dunque la volontà di rimanere nella verità, di mantenersi stabilmente al culmine della sapienza e della vera potenza.

E rimanere nella via della Vera Luce non significa sempre andar bene a questo mondo, così come lo vuole il pensiero dominante.

“Essendo in questo mondo –  afferma Meng Tzu – ci si deve comportare in una maniera che piaccia a questo mondo. Fintanto che una persona è buona tutto va bene…Se si volesse biasimare una tal persona non si troverebbe niente a cui rifarsi…essa condivide con gli altri le pratiche quotidiane ed è in armonia con le meschinità del mondo…essa piace alla moltitudine ed è retta con se stessa. E’ impossibile imbarcarsi sulla via di Yao e Shun [due famosi saggi] con una persona del genere. Da qui il nome di “nemico della virtù”. Confucio disse: “…Non mi piace l’onest’uomo del villaggio, potrebbe essere confuso con il virtuoso”.

“Soltanto coloro che agiscono a partire da disposizioni che essi risultano avere da un lungo processo di coltivazione proprio nel momento dell’azione – commenta F.J.Varela – meritano, secondo Meng Tzu, l’appellativo di veramente virtuose. […] Il tratto più importante che distingue il vero e proprio comportamento etico è allora il fatto che esso non nasce da semplici modelli abituali di regole”. [xxx]

 Sin dai primi passi sulla via iniziatica proposta dalla Massoneria troviamo alcune indicazioni precise relative al percorso che colui che bussa alla porta del Tempio (il pro fanum) intraprenderà. Se tu tieni alle distinzioni umane, esci: qui non se ne conoscono.
Se tu temi di essere scoperto e corretto dei tuoi difetti, ti troverai male fra noi. Se la tua anima ha sentito lo spavento, non andare più oltre.
Se tu sei capace di simulazioni, trema: sarai scoperto.
Vigilanza e Perseveranza.
Se tu perseveri, sarai purificato; uscirai dall’abisso delle tenebre e vedrai la Luce. Se la curiosità ti ha condotto qui, vattene.
 Sin dal suo esordio sulla via, colui che vuole percorrere il sentiero iniziatico dovrà rispondere a tre domande:  “Che cosa dovete all’Umanità?
Che cosa dovete alla Patria?
Che cosa dovete a voi stesso?”.  

Non sono domande poste una volta per sempre. Ogni giorno della sua esistenza il Massone deve rispondere a queste tre domande e le risposte non possono essere solo concettuali, ma parole di potenza, ossia azione consapevole, pensiero che si fa verbo, lógos e che produce lavoro per le cattedrali del terzo millennio.

 

[i] Karl Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli

[ii] Karl. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Feltrinelli

[iii] Karl. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Feltrinelli

[iv] Karl. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Feltrinelli

[v] Luciano Canfora, La crisi dell’Utopia, Aristofane contro Platone, Laterza.

[vi] Luciano Canfora, La crisi dell’Utopia, Aristofane contro Platone, Laterza.

[vii] Luciano Canfora, La crisi dell’Utopia, Aristofane contro Platone, Laterza.

[viii] Luciano Canfora, La crisi dell’Utopia, Aristofane contro Platone, Laterza.

[ix] Luciano Canfora, La crisi dell’Utopia, Aristofane contro Platone, Laterza.

[x] Umberto Gabriel Porciatti, Simbologia massonica, Atanor

[xi] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xii] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xiii] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xiv] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xv] Umberto Galimberti, Tramonto dell’Occidente, Feltrinelli

[xvi] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xvii] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xviii] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xix] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xx] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xxi] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xxii] Emanuele Severino, La Filosofia antica, Rizzoli

[xxiii] Umberto Galimberti, Tramonto dell’Occidente, Feltrinelli

[xxiv] Miroslav Marcovich, In Eraclito, testimonianze, imitazioni, frammenti, Bompiani

[xxv] Miroslav Marcovich, In Eraclito, testimonianze, imitazioni, frammenti, Bompiani

[xxvi] Emanuele Severino, Il giogo, Adelphi

[xxvii] Emanuele Severino, Il giogo, Adelphi

[xxviii] Emanuele Severino, Il giogo, Adelphi

[xxix] Emanuele Severino, Il giogo, Adelphi

[xxx] F.J.Varela, Un known-how per l’etica, Laterza

 

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  • MAKBENAK, MACBETH, SHAKESPEARE E LA LINEA REALE CELTICA DELLA MASSONERIA

    Silvano Danesi

    Nel rituale di iniziazione al grado di Maestro, dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “La carne si stacca dalle ossa”, frase che in ebraico, ci spiega Salvatore Farina, suonerebbe: “Makbenak”. [1]

    Il primo Sorvegliante conferma che il cadavere si disfa. Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Hiram è risorto, ossia è di nuovo in piedi.

    Cosa si nasconde dietro alla parte centrale della cerimonia di iniziazione ad un grado introdotto nel ‘600 ad opera di Elias Ashmole, massone e appartenente al Druid Order?

    “Il rituale del grado di Maestro – scrive infatti Farina – fu inizialmente preparato da Elias Ashmole alla fine del 1648” [2] e Ashmole “è considerato, nella tradizione druidica del Druid Order, come colui che ha trasmesso ai primi massoni speculativi l’iniziazione corrispondente alle tre funzioni tradizionali del druidismo”. [3]

    La chiave di comprensione di questo passaggio decisivo nel Rituale, dalla morte apparente alla resurrezione, potrebbe esserci fornita da William Shakespeare nel suo Macbeth.

    Ma andiamo con ordine e approssimiamoci alla chiave seguendo quanto Guy Trévoux scrive in proposito: “Esiste un termine bizzarro nell’iniziazione massonica al grado di Maestro, Mac Benac o Mac Benah. E’ il grido che avrebbero emesso i compagni di Hiram, partiti alla ricerca del suo corpo, dopo che seppero che era stato ucciso, alla scoperta del suo cadavere. E’ evidente che le spiegazioni tradizionali “la carne abbandona le ossa” o “il Maestro è colpito” non sono accettabili. Si è proposto persino “figlio della putrefazione”, ma un Massone italiano di cui non ricordo il nome, traducendo le due parole con il “figlio della linfa”, si avvicina più di ogni altro alla tradizione degli alberi. Del resto, nel manoscritto Prichard esiste un’altra espressione che precede l’esclamazione Mac Benac ed è Muscus Dominus, il “Maestro del Muschio” o “Maestro Muschio” (G.H.Luquet, Grado di Maestro e leggenda di Hiram – Rivista Le symbolisme, maggio-giugno 1955), che si riallaccia al mito del sotterramento del chicco prima della sua resurrezione sotto forma di pianta nuova, che pare più autentico di Mac Benac. «L’opera al nero» degli alchimisti è l’equivalente della leggenda di Hiram; è un riferimento ai mesi invernali, durante i quali il sole scompare, ed è il ricordo dell’interramento del chicco nell’oscurità della terra e o il suo passaggio nel ventre della gallina nera”. Una tradizione ebraica riporta che il cadavere di Adamo sarebbe stato sepolto nella grotta di Mac Pelah. Mac Pelah sarebbe, dunque, con tutta probabilità, la forma originale dell’errato termine massonico Mac Benac”. [4]

    La gallina nera è Karidwenn, archetipo della trasformazione e della rinascita, la cui ritualità ci riporta ai Riti Eleusini e Osiriaci.

    Interessante il riferimento ad un possibile Maestro del Muschio o Maestro Muschio. Ricordiamo che:

    Né pianta né albero,

    né fusto né foglia;

    è Muschio che crea Magia. [5]

    Maestro del Muschio o Maestro Muschio può andare benissimo come significato del termine Mac Benac, perché il Muschio crea magia.

    Esiste, a mio parere, un’altra possibile interpretazione relativa a Mac Benac o Mac Benah ed è che i due nomi siano la corruzione di Bethac, capo mitico e avo dei Fir Bolg e dei Tuatha De Danann, il cui significato è betulla.

    La betulla, come scrive Mircea Eliade[6], simboleggia l’Albero del Mondo in molte tradizioni sciamaniche. Per lo sciamano altaico è l’Albero del Mondo. Per gli sciamani buriati la betulla che si trova all’interno della tenda serve ad arrampicarsi e ad uscire dal buco del fumo, che coincide con quello che nel cielo è formato dalla stella polare. Presso altri popoli è chiamata Pilastro del Cielo. La betulla, quindi, albero cosmico, si trova al centro del mondo. Non è improbabile che la tradizione sciamanica, acquisita dalla cultura druidica, sia poi confluita nelle tradizioni libero muratorie.

    Sin qui le varie ipotesi, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre. Tuttavia, e con molta probabilità, la chiave che ci fornisce William Shakespeare è quella più significativa, in quanto ci riporta al cuore della trasmissione iniziatica ininterrotta che passa attraverso la regalità celtica e che si trasferisce agli Stuart, re scozzesi di sangue reale celtico.

    Per secoli la regalità celtica ha conservato la tradizione, ma nell’epoca delle guerre di religione tra protestanti e cattolici, la trasmissione si è fatta faticosa a causa delle pressioni delle varie correnti protestanti e dei cattolici.

    Giacomo I, che tentò un difficile equilibrio tra le varie fazioni, represse con durezza vari attacchi della nobiltà, sia cattolica, sia protestante e asserì il diritto divino della monarchia (Deus meumque ius). Privo dell’abilità di governo della cugina Elisabetta, alla quale era succeduto con un passaggio dinastico dai Tudor agli Stuart, Giacomo cercò invano di mediare tra le richieste del partito cattolico e di quello protestante, ma di fatto la tensione interna si accrebbe. Per rispondere alle richieste di riforma religiosa dei puritani, autorizzò una nuova traduzione inglese della Bibbia, nota come versione di re Giacomo; appoggiò inoltre i vescovi della Chiesa anglicana contro i riformatori radicali protestanti, ma la sua difesa del diritto divino della monarchia gli attirò l’ostilità dei cattolici, che organizzarono contro di lui la Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, nel 1605.

    La tragedia shakespeariana Macbeth è stata presentata per la prima volta nel 1606, ossia l’anno successivo alla Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, alla corte di Giacomo I d’Inghilterra (VI di Scozia) figlio di Maria Stuart e nipote di Elisabetta I.

    La tragedia narra di Macbeth, usurpatore del regno, dopo aver ucciso il suo legittimo re su suggerimento delle streghe che gli sono apparse e che gli hanno predetto il suo futuro.

    La tragedia si ispira alla vita di un re di Scozia, Mac Bethad mac Findlaich (1005-1057), anche se ne stravolge del tutto la figura e la storia e sembra accondiscendere alle esigenze di Giacomo I, che in due suoi scritti tenta di giustificare la propria condotta: il Basilikon Doron e la Daemonologie.

    Nel Basilikon Doron Giacomo I critica cattolici e puritani, in linea con la sua filosofia di seguire un “via di mezzo”, che si riflette nella prefazione del 1611 della Bibbia di Re Giacomo.

    La Daemonologie, scritta dal re nel 1597, è una dissertazione filosofica sulla negromanzia contemporanea e le relazioni storiche tra i vari metodi di divinazione utilizzati dall’antica magia nera e si pone come un trattato contro le streghe.

    Questo libro si crede sia stato una delle fonti primarie utilizzate da William Shakespeare nella produzione di Macbeth.

    Shakespeare ha utilizzato molte citazioni e rituali presenti all’interno del libro delle streghe, ma ha inserito nella sua tragedia anche temi scozzesi relativi ai fatti nei quali Giacomo è stato coinvolto.

    Assieme ad Alfredo il Grande, Giacomo I è considerato uno dei più colti sovrani sia d’Inghilterra sia di Scozia. Durante il suo regno continuò la straordinaria fioritura culturale dell’Età elisabettiana nella letteratura, nelle arti e nelle scienze, ma la sua ascesa al trono fu il frutto di una serie di lotte intestine al Regno di Scozia.

    La situazione della Scozia alla nascita di Giacomo non era delle più tranquille: l’autorità di Maria Stuart era precaria e tanto lei quanto il marito, entrambi di fede cattolica, dovevano fronteggiare il malcontento e le ribellioni dei nobili scozzesi, per lo più calvinisti; inoltre, anche il matrimonio della coppia reale fu costellato di difficoltà, sia sul piano politico, sia privato. Mentre Maria era incinta, Enrico si alleò con i ribelli e arrivò a dare l’ordine di assassinare Davide Rizzio, segretario personale e amico intimo della regina, di origini piemontesi.

    Giacomo nacque il 19 giugno 1566 e fu battezzato in una cerimonia cattolica. Quando Giacomo aveva solo otto mesi suo padre Enrico fu assassinato a causa di intrighi di corte, probabilmente seguenti la morte di Davide Rizzio. Dopo la morte del marito, Maria decise di sposarsi una terza volta, con James Hepburn, conte di Bothwell, sospettato di essere l’artefice dell’assassinio di Lord Darnely, la qual cosa rese ancora più impopolare la già impopolare regina.

    Nel giugno 1567 alcuni ribelli protestanti arrestarono Maria, che venne imprigionata nel castello di Loch Leven, dove fu costretta ad abdicare al trono, il 24 giugno, in favore del figlio Giacomo, che aveva poco più di un anno; a sostituire il giovane re durante la sua minor età sarebbe stato lo zio Giacomo Stuart, conte di Moray.

    Pur riferendosi ad un personaggio storico dell’undicesimo secolo, il Macbeth di Shakespeare sembra anche riferirsi, in modo evidentemente criptico, alle vicende di Giacomo I, assecondandone gli scritti, in particolare il Demonologia.

    Giorgio Melchiori, nell’introduzione al testo del Machbet nell’edizione dei Meridiani, [7]scrive che la leggenda di Banquo, assassinato da Machbet, il cui figlio Fleance fuggì in Galles e ne sposò la figlia, è servita ad attestare le nobili origini degli Stuart, i quali, peraltro, non ne avevano bisogno, in quanto come ho critto nel mio: “Le radici scozzesi della Massoneria”, nel 1286 “la Loggia di Kilwinning ebbe come Gran Maestro un Lord Stewart di Scozia, ossia un Regio Stewart (maggiordomo di palazzo), carica, divenuta ereditaria, istituita da re David ed assegnata a Walter fitz Alan, di discendenza bretone celtica e scozzese, la cui linea di sangue risale a re Alpin e ai Siniscalchi di Dol. Quando la figlia di re Robert Bruce sposerà Walter lo Stewart, dai maggiordomi di palazzo di discendenza regale avrà inizio la dinastia Stuart”. [8]

    Sotto il velame delle apparenze, Shakespeare, propone al lettore e allo spettatore delle rappresentazioni teatrali, in controluce, l’attenzione ad un personaggio che è un grande eroe scozzese.

    Mac Bethad mac Findlaech, o in inglese Macbeth (1005 – 15 agosto 1057), è stato re di Scozia dal 1040 al 1057.

    Ben poche informazioni sono note in merito alle origini ed ai primi anni di vita di Macbeth: figlio di Findlaech, Mormaer o capo della provincia di Moray, era nipote del re Kenneth II di Scozia e quindi apparteneva alla più alta nobiltà scozzese, essendo cugino tanto di re Kenneth III, tanto di Duncan I (suo diretto predecessore al trono di Scozia); della madre, invece, non è noto il nome od il lignaggio.

    Quanto al nome, Mac Bethad (o, in gaelico moderno, MacBheatha), ha significato di “figlio della vita” oppure di “uomo giusto”; secondo alcuni studiosi, tuttavia, il suo nome sarebbe una forma corrotta di Macc-Bethad (“Uno tra gli eletti”)

    Alcuni anni dopo la morte del padre (collocata attorno al 1020), Macbeth divenne Mormaer di Moray e in seguito sposò Gruoch Ingen Boite, unica figlia di Boite mac Cináeda, a sua volta figlio del re Kenneth III di Scozia.

    Nel 1034, re Malcolm II di Scozia fu ucciso in circostanze non chiarite a Glamis e il 30 novembre dello stesso anno, senza opposizione, fu eletto re Donnchad Mac Crínáin. Il nuovo sovrano, nominato in base ai principi della Tanistry, era un cugino, per parte di madre, del predecessore ed aveva detenuto il titolo di re di Strathclyde.

    Dopo alcuni anni tranquilli, nel 1039, lo Strathclyde fu attaccato dagli inglesi della Northumbria e Duncan, deciso a vendicarsi, condusse personalmente un raid di rappresaglia contro la città di Durham: la battaglia, però, fu un disastro e solo a stento il re riuscì a fuggire; approfittando della debolezza del suo sovrano, Macbeth si ribellò e reclamò la corona.

    Duncan tentò di reagire guidando una spedizione contro Macbeth ma, il 14 agosto 1040, fu ucciso a Bothnagowan (nei pressi di Elgin) in uno scontro armato dagli uomini di Macbeth.

    Dopo la morte di Duncan, Macbeth, sostenuto da quella fazione della nobiltà che si opponeva ai legami con gli anglo-sassoni, ascese al trono ma in ogni caso dovette affrontare l’ostilità degli uomini appartenenti al clan del suo predecessore: solo nel 1045, con l’uccisione di Crínán di Dunkeld, padre di re Duncan, il regno fu definitivamente pacificato.

    “Nonostante si fosse impadronito del potere assassinando il giovane e inetto sovrano Duncan – scrive Giorgio Melchiori – (del resto l’assassinio del predecessore era un sistema quasi normale di successione nella Scozia del tempo), fu per molti anni sovrano saggio e buon amministratore, fino all’invasione del paese da parte delle forze inglesi al comando del cognato di Duncan, Siward, con il pretesto di difendere i diritti alla successione di Malcom Canmore, figlio giovinetto di Duncan”. [9]

    Nel 1052 Macbeth fu involontariamente coinvolto nelle lotte che in Inghilterra vedevano coinvolti Godwin del Wessex ed Edoardo il Confessore quando decise di ricevere a corte un certo numero di esiliati Normanni. Nel 1054 Siward, conte di Northumbria, vassallo ed alleato di Edoardo il Confessore re d’Inghilterra, al quale Macbeth aveva rifiutato di rendere omaggio, per conto di Malcolm Clanmore, figlio di Duncan I, invase la Scozia.

    A Dunsinane, presso Perth, si svolse una enorme battaglia che, secondo gli Annali dell’Ulster, vide la morte di 4.500 uomini, 3.000 scozzesi e 1.500 inglesi; dopo aver perso la parte meridionale del proprio regno, Macbeth si ritirò nelle regioni settentrionali a lui fedeli dove resistette per altri tre anni all’avanzata inglese.

    Nel 1057 Macbeth fu infine sconfitto e mortalmente ferito da Macolm Ceann-mor, figlio di Duncan, presso Lumphanan, nell’Aberdeenshire; morì pochi giorni dopo a Scone, ove fu seppellito.

    A differenza degli scrittori successivi, nessuna fonte contemporanea rimarca Macbeth come un tiranno: il Duan Albanach (Canzone degli Scoti), un poema in gaelico irlandese composto da 27 stanze, trovato insieme al Lebor Bretnach (una versione in gaelico della Historia Brittonum di Nennio, che presenta un vasto materiale aggiuntivo, soprattutto riguardo alla Scozia), lo cita come “Mach Bethad il Rinomato”, la Profezia di Berchán lo descrive come un re generoso e munifico.

    Scritto durante il regno di Mael Coluim III (metà dell’XI secolo), il Duan Albanach  si basa su una grande varietà di fonti irlandesi. La versione più comune proviene dai Libri di Lecan and Ui Maine degli inizi del XV secolo. La sua narrazione continua quella del Duan Eireannach, che narra la più antica storia mitologica dei gaelici.

    Il Macbeth storico, pertanto, è un eroe della resistenza gaelica agli anglosassoni ed è un re di sangue reale celtico, erede della Tradizione.

    Ora proviamo a riscrivere il Rituale di Maestro usando la chiave fornitaci da Shakespeare e probabilmente abilmente messa in modo criptato da Elias Ashmole nel cuore dell’iniziazione.

    Dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “E’ Mac Bethad”.

    Il primo Sorvegliante afferma che è cadavere.

    Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Mac Betadh è risorto, ossia è di nuovo in piedi. La tradizione non è morta; è di nuovo attiva.

    Cosa ci dice Ashmole in chiave shakespeariana? Ci dice che nonostante le guerre di religione e la confusione creatasi con gli ultimi Stuart, allorquando questi si sono fatti invischiare nelle guerre di religione, Mac Bethad o se si vuole Mac Beth, l’eroe, il re celtico è risorto, è in piedi, perché, grazie ai tre Maestri, la Tradizione continua, ininterrotta, nella ritualità massonica.

     

    [1] Salvatore Farina, il Libro completo dei Riti Massonici, Gherardo Casini Editore

    [2] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Edizioni Piccinelli, 1946

    [3] Michel Raoult, Les druides- Les socié tes initiatiques celtiques contemporaines – Edizion du Rocher

    [4] Guy Trévoux, Lettere, cifre, dèi – Ecig

    [5] Citazione in: Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario

    [6] Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi

    [7] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

    [8] Silvano Danesi, Le redici scozzesi della Massoneria, ilmiolibro.

    [9] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

  • MASSONERIA, CREDERE O CONOSCERE?

    di Silvano Danesi

    Tommaso D’Aquino (De fide), scrive che “l’assenso fideistico non è determinato dalla cogitazione, ma dalla volontà”. Agostino d’Ippona scrive che “La fede consiste nella volontà di chi crede” (De praedestinatione sanctorum).

    Si crede perché si vuole credere.

    Quanto affermano i due dottori della Chiesa può ben valere per chi crede, volendo credere, nella divinità di Gesù, ma mi riesce difficile applicare i concetti di Tommaso d’Aquino e di Agostino di Ippona ai Massoni in rapporto alla Massoneria, salvo che credere, poiché, come dice sempre l’Aquinate “imprigiona l’intelletto”, renda più comoda e rassicurante la via della credenza di quella della conoscenza.

    Il Rituale di 4° Grado “Maestro Segreto”, primo del Rito Scozzese Antico ed Accettato, prescrive a chi lo frequenta l’obbligo dello studio della Libera Massoneria, riguardo alla sua storia.

    Un Massone dovrebbe, pertanto, studiare la storia della Massoneria e non abbandonarsi alla credenza nelle favole, contrabbandate per verità storica, soprattutto quando queste sono facilmente smascherabili se si studia, anziché frequentare le Logge con atteggiamenti fideistici o di comodo acquietamento, contenti di non aver dovuto compiere alcuno sforzo.

    Capita così che si continui a scrivere che Federico II è stato il sovrano che ha firmato il documento fondante del Rito scozzese, quando è accertato che l’attribuzione al regnante illuminista e amico dei Gesuiti è un falso.

    Capita così che si accetti acriticamente la favola inglese hannoveriana che la Massoneria è nata nel 1717 quando in una taverna londinese si sono riunite quattro Logge.

    Il 1717 non è l’anno di nascita della Massoneria e nemmeno della Massoneria moderna, ossia di quella odierna, che ha radici ben più antiche, ma quello della Massoneria dei “Modern”, voluta dalla dinastia protestante degli Hannover, dopo che la dinastia cattolica degli Stuart era stata sconfitta ed esiliata.

    Il 24 giugno del 1717 è pertanto il giorno nel quale si è creata una frattura nella tradizione massonica, subito stigmatizzata dagli “Antient” e che ha portato, nel corso del XVIII secolo, al proliferare di varie associazioni sedicenti massoniche.

    In dissenso esplicito con la Gran Loggia del 1717, il 17 luglio del 1751 gli “Antient” diedero vita, nella taverna Turk’s Head, in Greek Street, nel Soho, inizialmente in forma di Comitato, alla “The Most Honourable Society of the Free and Accepted Masons according of the Old Institution”.

    Se la Gran Loggia del 1717 diede ad un pastore protestante l’incarico di scrivere le regole della Massoneria “Modern”, quelle dell’Istituzione degli “Antient” furono affidate al cattolico Laurence Dermott, che le rese pubbliche con il nome di Ahiman Rezon.

    Se la Gran Loggia del 1717 era formata e diretta da aristocratici e da ricchi borghesi in ansia di promozione sociale, quella degli “Antient” rivendicava una composizione sociale prevalentemente legata ai mestieri, ossia all’autentica tradizione massonica.

    Contemporaneamente a queste due Gran Logge, continuavano ad esistere, in modo del tutto indipendente, la Gran Loggia d’Irlanda e la Gran Loggia di Scozia.

    La Gran Loggia d’Inghilterra divenne “unita” solo nel 1813, ma nel frattempo, in ambito “Antient” in America era nato il Rito Scozzese.

    Quello che nel corso del Medio Evo e del Rinascimento era stato un fenomeno unitario, che si era alimentato mantenendo vive le radici con il passato originario della sapienza egizia, nei tre secoli successivi a quel 24 giugno del 1717 si è trasformato in un coacervo di istituzioni spesso in contrasto tra di loro e tutte proclamantesi vere eredi della tradizione massonica.

    La storia della Massoneria, pertanto, non ha inizio nel 1717, anno in cui gli Hannover, dopo aver loro espropriato la corona hanno tolto agli Stuart anche la radice massonica scozzese e nemmeno nel 1768, quando, secondo una leggenda, che tale è e tale rimane, Federico II di Prussia avrebbe emanato le Costituzioni del Rito Scozzese Antico ed Accettato, che non è la Massoneria, ma un percorso iniziatico che prosegue la riflessione partendo dai fondamentali, questi si autenticamente massonici, dei tre gradi simbolici: Apprendista, Compagno, Maestro. Su questi argomenti ho scritto e pubblicato testi ai quali rinvio chi volesse approfondire il mio pensiero in merito. (Vedi in proposito il mio: “Le radici scozzesi della Massoneria).

    Anche i landmarks sono riferimenti controversi e opinabili.

    La prima questione da chiarire riguarda i landmarks (punti di riferimento, pietre miliari, segni di confine).

    Al capitolo VII del suo celeberrimo ed opinabile testo sui Rituali, Salvatore Farina cita i landmarks, parola che appare per la prima volta nelle Ordinanze Generali approvate il giorno di San Giovanni Battista del 1721 a Londra. Dei landmarks, la cui origine risale al pastore protestante Anderson, che scrisse le regole della Massoneria hannoveriana, sono state redatte, in seguito, molte versioni, tra di loro diverse e spesso tra di loro discordanti.

    A proposito dei landmarks, un confine preciso e inequivocabile va tracciato tra questi e gli Old Charges.

    Gli Old Charges non possono infatti essere identificati con i landmarks e nemmeno con le Costituzioni del 1723 ” i cui autori – scrive René Guénon – si impegnarono, per quanto possibile, a far sparire proprio gli Old Charges, vale a dire i documenti dell’antica Massoneria operativa”. [1]

    Da una recensione della bibliografia internazionale, risulta possibile rintracciare numerosi elenchi di landmarks (in genere identificati con il nome di chi li ha stilati) pubblicati a partire dalla nascita della cosiddetta Massoneria cosiddetta speculativa e successivamente adottati, parzialmente o completamente, da numerose Grandi Logge o dai Grandi Orienti del mondo. I più noti sono quelli di:

    1) John W. Simons, con 1S Landmarks (1864);

    2) Luke A. Locwood, con 19 Landmarks (1867);

    3) H. B. Grand, con S4 Landmarks (1894);

    4) Albert J.G. Findel, con 9 Landmarks

    S) Alèxander S. Bacon, con 3 Landmarks (1918);

    6) Roscoe Pound, con 7 Landmarks (1921);

    7) Joseph D. Evans, con 10 Landmarks (1923);

    8) Harry Carr, con cinque Landmarks;

    9) Albert Mackey, con 2S landmarks (18S8);

    10) Rob Morris, con 17 Landmarks (18S6);

    11) Landmarks della Gran Loggia del Minnesota.

    Nei landmarks Dio e anima sono concetti controversi.

    Di alcuni di questi landmarks riporto le parti riguardanti Dio e l’anima.

    Landmarks di Harry Carr -Il massone deve professare la fede in Dio, Grande Architetto dell’Universo. Il Volume della Legge Sacra deve essere presente in loggia e accessibile a tutti. Il Massone crede nell’immortalità dell’anima.

    Landmarks di Rob Morris -La legge di Dio è la norma e il limite dalla Massoneria.

    Landmarks secondo Albert G. Mackey -Credenza nella esistenza di Dio quale Grande Architetto dell’Universo. Credenza di una resurrezione ad una vita futura.

    Landmarks secondo Roscoe Pound -Monoteismo, il solo dogma della Massoneria. Credenza nell’immortalità, la conclusiva lezione di filosofia della Massoneria. Il Volume della Legge Sacra, parte indispensabile dell’arredo della Loggia.

    Landmarks della Gran Loggia del Minnesota -Che una credenza nel Supremo Ente, il Grande Architetto dell’Universo, che punirà il vizio e premierà la virtù, è un indispensabile prerequisito per l’ammissione in Massoneria.

    Landmarks Albert J.G. Findel -Il candidato all’iniziazione deve confessare un culto universale, quello della legge morale, professato da tutti gli uomini indistintamente quali che siano le loro convinzioni religiose o le loro idee metafisiche particolari.

    Landmarks secondo i Fratelli Chalmers (citazione del Farina) – A proposito di Dio affermano: “il credere nell’esistenza di Dio, il credere nella resurrezione dei corpi e nella vita futura”.

    Pare del tutto evidente che siamo di fronte a tali differenze concettuali che i landmarks diventano un insieme di affermazioni assolutamente e totalmente inutili ad essere effettivamente dei landmarks, ossia delle pietre miliari, in quanto sono frutto di opinioni assai diverse e opinabili.

    Dio e anima nelle formule di conventi e conferenze

    Il Convento dei Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato di Losanna 1875 (6-22 settembre) affermò: “La Libera Muratoria proclama, come ha sempre proclamato fin dalla propria origine, l’esistenza di un principio creatore sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”. E aggiunge: “Non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a ognuno questa libertà che esige da tutti la tolleranza.  La Massoneria è, dunque, aperta agli uomini di ogni nazionalità, di ogni razza, di ogni credenza”.

    La formulazione fu contestata nella Conferenza Internazionale dei Supremi Consigli di R.S.A.A. del 1907 a Bruxelles e dalla Conferenza internazionale tenutasi a Baranquilla (Colombia) nel 1970, che rimandò ai regolamenti del 1762 (Parigi – Berlino) e alla Costituzione del 1786 (Federico II).

    Nelle Costituzioni di Bordeaux 1762 si legge: “Siccome la Religione è un culto necessariamente dovuto a Dio Onnipotente, nessuna persona sarà iniziata ai misteri sacri da questo eminente grado, se non soggiace ai doveri della religione della nazione in cui deve indispensabilmente aver ricevuto i venerabili principi; e che questo deve essere certificato da tre Cavalieri Principi Massoni;….”.

    E’ noto, inoltre che Albert Pike (riformatore americano del Rito scozzese) rifiutò le dichiarazioni di Losanna e diede del Rito Scozzese una propria interpretazione, riformandone i rituali.

    L’insieme delle diverse formulazioni, sia dei landmarks, sia delle varie conferenze e conventi internazionali del Rito scozzese, nonostante risentano dell’influenza giudaico-cristiana, propone alla riflessioni due questioni. L’immortalità dell’anima e il concetto del divino come Grande Architetto dell’Universo. Due questioni che meritano di essere al centro dei lavori massonici senza cadere nella tentazione di abbracciare questa o quella religione.

    Riguardo alla questione dell’anima, il convegno del 23 marzo 2019, dal titolo: “La scienza dell’anima” ha come intento l’approfondimento di una questione che riguarda da vicino ognuno di noi. Per quanto riguarda questa questione rimando agli articoli pubblicati su questo sito.

    Un approfondimento delle questioni dell’anima e del divino parrebbe necessario, anzi, direi, indispensabile, ma necessita dell’acquisizione del dato che Federico II non è stato il fondatore del rito e nemmeno colui che lo ha fornito delle sue Costituzioni. La questione di Federico II, simbolo del connubio tra un despota illuminato e i gesuiti, va consegnata alla leggenda, perché tale è e rimane.

    Riportare alla verità storica la questione di Federico II libera l’interpretazione dei Rituali scozzesi dall’influenza gesuitica che su di essi grava.

    Infatti, nonostante i tentativi di manipolazione per costringere il Rito scozzese in una cornice giudaico-cristiana, questo mantiene una sua indubbia validità se, sotto il velame di una prima e superficiale lettura, si cercano i significati nascosti. Compito che è dei Massoni, dei frequentatori del Rito, ma anche di chi abbia voglia di cimentarsi pur essendo estraneo sia alla Massoneria, sia al Rito scozzese.

    La questione dell’ateismo

    Una delle questioni che emerge dalle varie affermazioni dovute alle Conferenze internazionali del Rito, ma anche delle Costituzioni redatte dal pastore protestante Anderson, è l’ateismo

    Nella Dichiarazione dei Principi approvata dal Convento dei Supremi Consigli Confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875, alla quale il R.S.A.A. si riferisce, si legge (citazione del Farina): “La Massoneria proclama, come ha sempre proclamato sin dalla sua origine l’esistenza di un principio creatore, sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”.

    Nelle Costituzioni di Anderson è scritto: “Il massone è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai uno stupido ateo né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore e onestà, quali che siano le denominazioni che li possono distinguere; per questa ragione la Muratoria diviene il Centro di Unione, il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti”.

    Se analizziamo le Costituzioni di Anderson e le dichiarazioni del Convento dei Supremi Consigli Confederati di Losanna del 1875, ci troviamo necessariamente a confrontarci con l’affermazione che che un massone non sarà mai un ateo stupido.

    L’affermazione di Anderson consta di un sostantivo (ateo) e su un aggettivo (stupido). Non è lecito supporre che l’aggettivazione sia pleonastica e, pertanto, va analizzata con la necessaria attenzione.

    “Per i Greci – scrive in proposito Roberto Calasso -, átheos era innazitutto chi è abbandonato dagli dèi, non chi si rifiuta di credergli, come rivendicano fieramente i moderni”. [2] “I Greci – aggiunge Calasso -, sapevano chi erano e che cosa erano gli dèi. Più che credere agli dèi li incontravano”. [3]

    L’aggettivo stupido deriva dal latino stupere, sbalordire; dalla radice *(s)tup, da cui il greco týpto (io batto), il sanscrito tupami (colpisco). Stupidus, da stupeo, significa: stordito, attonito, senza senso.

    Essendo abbandonato dagli dèi, ossia dalle potenze dell’essere, che si mostrano come archetipi (il cui linguaggio è quello dei simboli), non essendo più capace di incontrarli, in quanto incapace di rapportarsi ad essi, avendo perduto la chiave del loro linguaggio, l’essere umano è attonito, stordito, sbalordito, senza senso ed essendo senza senso è disorientato.

    Ma cos’è il senso? E’ il Logos.

    Nel frammento 50, il pagano Eraclito, a proposito del Logos, afferma, nella traduzione di Diels: “Se non hanno inteso, non me, ma il senso, è saggio dire, secondo il senso (logoV) che tutto è uno”. [4] “Il movimento dell’intervento, che governa nella mobilità delle cose – commentano Heidegger e Fink –, accade in modo conforme al logoV”. [5]

    L’ateo stupido ha perso il senso; ha perso il Logos; ha perso la parola. Ecco la parola perduta: il Logos incompreso, la perdita del senso.

    Il massone, in quanto il percorso iniziatico lo mette continuamente a contatto e a colloquio con gli archetipi e con i simboli, non sarà mai uno stupido ateo; non è infatti abbandonato dagli dèi e rapportandosi ad essi incontra e ascolta e accoglie il Logos, azione dell’Arché.

    Gli dèi, potenze dell’Essere, sono archetipi, impronte, sigilli, marchi dell’Arché, ossia dell’Origine.

    “La ragione, il sapiente, il Logos e concetti affini non sono – scrive Eugen Fink – capacità soggettive, ma sono primariamente potenze che vigono attraverso il mondo, potenze cui l’uomo può prendere parte”. [6]

    Tuttavia, come spesso avviene quando si ha a che fare con documenti riguardanti il mondo iniziatico, non ci si può accontentare di una sola interpretazione.

    Se, infatti, l’interpretazione della frase relativa allo stupido ateo è che il massone deve credere in Dio, essa ci appare grossolana.

    Non ci possiamo accontentare nemmeno di quella che ci presenta il massone come conoscitore si simboli e di archetipi e, in quanto tale, in collegamento con il divino.

    La questione è, infatti, quella del Fondamento, ossia dell’Archè. Quell’Archè con la quale ogni qual volta si aprono i lavori di una Loggia massonica i massoni sono costretti a confrontarsi in quanto sull’Ara è presente nel Prologo del Vangelo di Giovanni nella sua fondante accezione di Principio, di Fondamento, di Origine della quale il Logos è azione improntante. Nel Vangelo di Giovanni è presente il binomio informazione-energia. E qui la questione del divino incontra non solo religioni, archetipi, miti, simboli, ma anche la scienza.

     

    [1] René Guénon, Etudes sur la Franc Maçconnerie et le Compagnonnage, Ed. Traditionelles, Paris, 1964

    [2] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [3] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [4] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [5] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [6] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donelli editore

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (3)

    di Silvano Danesi

    Il “Nome Indicibile”

    Nella leggenda del 13° grado, non è conservata la “Parola Indicibile”, ma il “Nome Indicibile” dell’Essere supremo, del quale è smarrita la chiave della pronuncia, incisa su una colonna di marmo.

    In questo caso è il marmo a darci un indizio. Il marmo, carbonato di calcio, è pietra e pertanto il “Nome indicibile” dell’Essere supremo è inciso nella pietra.

    La pietra è simbolicamente la Natura (vedi il mio: Tu sei Pietra”) e il “Nome ” dell’essere supremo, che nominandosi si fa ente ed evidente nella Natura, è la serie infinita delle infinite determinazioni dell’Essere negli enti.

    Come direbbe il taoista: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”. E ancora: “«Non-essere» è il nome che diamo all’origine del cielo e della terra, «essere» è il nome che diamo alla madre di tutte le creature…..Pur avendo nomi differenti, i due hanno origine comune. Ciò che hanno in comune, lo chiamano «oscuro», oscuro e ancora più oscuro, la porta di tutti i portenti”.

    In un quadro di Nicolas Poussin, I pastori in arcadia (1640 circa), ispirato dal gesuita Athanasius Kircher, su una tomba di marmo si legge: “Et in arcadia ego”.

    Ben oltre ogni fantasmagorica interpretazione, il significato è abbastanza chiaro. Il Logos determina, manifesta, il Nascosto nell’arcadia, ossia nella Natura.

    L’Arco Reale

    Interessante è anche la similitudine dei luoghi dove sono custoditi la “Parola indicibile” e il “Nome indicibile”: la prima nell’Arca e la seconda sotto un arco.

    L’Arca, radicale di Arc-Alc ha il significato di riposo, protezione (sanscrito Raksami) è indicativo di una linea curva, di un gomito.

    Arco e Arca ci introducono ai misteri dell’Arco Reale.

    La prima chiara menzione dell’Arco Reale è del 1744 (Massimo Graziani, Il rito di York, Bastogi) e, come scrive ancora Graziani, il “primo rituale che può essere ricondotto all’Arco Reale fino ad ora scoperto risale al 1760 circa ed è incluso in un manoscritto francese della collezione di Heaton-Card che si trova nella biblioteca della Freemasons’ Hall ed è scritto in francese. Nella parte relativa ad un originario cerimoniale, si parla di una camera sotterranea sostenuta da nove archi, che si raggiunge scendendo nove gradini e che viene aperta e chiusa bussando nove volte. Una luce indica il cammino verso la camera sotterranea. Nella spiegazione della tavola di tracciamento si dice che il sole è la vera luce che serviva a guidare i nove Fratelli che avevano scoperto grandi segreti; sulla tavola sono dipinti nove archi, la volta di una camera sotterranea e i nove gradini “che servivano a scendervi dentro”, una pietra con un anello che chiude la camera, una torcia spenta dal sole del simbolismo dell’A.R., un vassoio triangolare d’oro che reca il Nome Sacro”. [1]

    “Nei documenti anora rimasti anteriori al 1723 – scrive in proposito Laurence Gardner – anno dell’uscita della Costituzione massonica di Anderson, si precisa non meno di 23 volte che il Capitolo dell’Arco Reale altro non fa che perseguire l’Arte Reale, parole che sempre vengono scritte in evidenza, in carattere maiuscolo o corsivo. Sin dall’inizio, d’altra parte, si pone la domanda: «Da dove deriva la linea dell’arco?». Cui segue la risposta dell’affiliando: «Dall’arcobaleno». Vale a dire una risposta perfettamente allineata con il concetto di «luce ricurva»”. [2]

    Abbiamo dunque in evidenza il concetto di luce ricurva dell’arcobaleno, ponte tra il cielo e la terra.

    Qui giunti si rendono necessarie alcune precisazioni.

    La massoneria del Real Arco è confusa con il Rito di York, è “pervasa dal più intransigente puritanesimo” (Porciatti) e alla sua fortuna hanno “contribuito probabilmente i Gesuiti” (Porciatti).

    Il Rito dell’Arco Reale si è sviluppato in ambiente Antient, che ha rivendicato anche la paternità del Rito di York, ma il Rito di York originario evoca radici ben più antiche connesse con la presenza in Scozia dei Culdei.

    “I Culdei di York – scrive Leadbeater – erano fra i guardiani della tradizione massonica del Decimo secolo e gli Antichi Doveri ricordano un’assemblea di massoni che si tenne a York durante il regno di Athelstan in cui l’arte fu riorganizzata”. [3]

    “Una linea di tradizione degna di essere menzionata – aggiunge Leadbeater – connessa in certo modo con la massoneria di mestiere, ma ancor più con l’Ordine Reale di Scozia e il 18° grado si trovava tra i Culdei d’Irlanda, di Scozia e di York”. [4]

    I Culdei erano monaci cristiani di ascendenza druidica e tra gli iniziati dei riti culdei Iona, uno dei centri antichi del druidismo, era chiamata Heredom (denominazione alla quale si riferisce il Rito di Perfezione nato in Francia in ambito giacobita). L’isola di Iona, infatti, uno dei cuori della chiesa cristiano celtica, era chiamata dagli isolani Inis nan Druidhneah (l’isola dei Druidi), intendendo che prima della venuta di San Columba nel 563 d.C. eran un centro dell’antica devozione druidica.

    Il regno celtico di Dalriada è durato fino al tempo di Giacomo VI, erede di un Giacomo, Lord Stuart di Scozia, che fu Gran Maestro di una Loggia costituita a Kilwinning nel 1286 subito dopo la morte di Alessandro III (Leadbeater).

    E’ del tutto evidente che il Rito Scozzese è maturato nell’ambiente della corte stuardista in esilio in Francia e la linea stuardista conduce a York, alla tradizione culdea e al druidismo.

    Il riferimento all’Arco reale, confuso con il Rito di York in versione Antient, va pertanto rivisitato in un’altra chiave e questa può essere rinvenuta, come afferma Porciatti, “nell’austera veste” del Rito Scozzese.

    Fatte queste necessarie considerazioni, credo si possa andare oltre l’orizzonte giudaico-cristiano, non solo nella direzione culdeo druidica, ma anche, com’è giusto che sia, in quella di altre grandi tradizioni iniziatiche, come l’egizia.

    Ci si riferisce spesso all’Arco Reale del Tempio di Salomone, ma nella Bibbia non c’è traccia di questo arco, anche se Ezechiele nella sua visione del secondo tempio cita spesso gli archi che abbracciavano le colonne intorno ai vari cortili.

    “Invece di riferirsi alla loggia del Tempio salomonico di Hiram Abiff (come è nel conseguimento del terzo grado massonico), il rituale dell’Arco Reale – scrive Gardner – si focalizza su un evento ancora precedente; si collega a quella che è considerata la prima autentica loggia, la loggia «del Monte Horeb nel deserto del Sinai», presieduta da Mosè in persona, Abihu (uno dei figli di Aronne) e Bezaleel, l’artefice”. Gardner ipotizza che l’Arca dell’Alleanza fosse uno strumento che producendo un Arco Reale fosse in grado di creare la sacra pietra (manna) ricavata dalla polvere bianca ottenuta dall’oro. Una polvere superconduttiva denominata Ormus o Mfkzt. E Ormus è nome che è strettamente connesso con il Priorato di Sion e con i Templari (vedi in proposito il mio: Tu sei Pietra).

    A 800 metri di altezza, nella piana sabbiosa di Paran, c’è il monte Horeb, il monte di Mosè. Oggi la località è chiamata Serâbit el Khâdim. L’archeologo Petrie scoprì su una piattaforma di circa settanta metri, partendo da una vecchia grotta artificiale, le rovine di un vecchio tempio della IV dinastia attivo già al tempo del faraone Snefru, nel 2600 a.C. e rimasto attivo fino al XII secolo a.C. I reperti partono dalla IV dinastia e arrivano alla XVIII e ai Ramessidi della XIX. Il tempio era quindi ancora attivo al tempo di Akhenaton, da molti studiosi ormai messo in relazione diretta con il Faraone di Tel Amarna, propugnatore del monoteismo. Il tempio era dedicato ad Hator.

    La polvere MFKZT, trovata dall’archeologo Flinders Petrie sul monte Horeb, attualmente Serabit El Khadim, nel tempio di Hator, è stata fortunosamente ricavata recentemente. David Hudson, un coltivatore americano che voleva ammorbidire il suo terreno con dei componenti chimici, prima di effettuare l’operazione decise di far analizzare dei campioni. Durante le analisi si verificò uno strano fenomeno: il residuo secco esposto alla luce del sole e al calore generava un lampo di luce bianca, accecante e svaniva. Nel crogiolo, dove il campione era stato miscelato con del piombo, rimaneva un amalgama pesante, ma fragile, che si sbriciolava al colpo del martello. Analisi più specifiche, condotte presso l’Accademia sovietica delle scienze, evidenziarono la presenza di palladio, platino, rutenio, iridio: tutti elementi del gruppo del platino. Era la polvere MFKZT. Quando mutava il suo aspetto da scura a bianca sfolgorante, la sostanza si tramutava in polvere e il suo peso scendeva fino al 56% di quello iniziale. Dove finiva il 44%? Si comprese in seguito che levitava e trasferiva la sua leggerezza agli oggetti con cui veniva a contatto, che, in alcuni casi, levitavano anch’essi. La polvere si comportava come un superconduttore. Il campo magnetico terrestre è in grado di fornire energia a un superconduttore facendolo levitare e questo, quando levita, si comporta come un riflettore di luce. Inoltre, nel caso di due superconduttori attivi in collegamento, si verifica un altro fenomeno, detto “coerenza quantica”, durante il quale avviene il trasferimento di luce fra i due. E’ stata studiata la possibilità che con un superconduttore mono atomico, proprio come la polvere MFKZT, si possa costruire una batteria energetica che una volta attivata dura all’infinito. Altri studi hanno portato a prevedere la possibilità, con l’utilizzo della polvere monoatomica, di distorcere lo spazio tempo. La MFKZT risuona in una dimensione differente e in determinate circostanze diventa invisibile. Quando il peso del campione analizzato toccava lo zero, il campione svaniva materialmente per riapparire applicando il processo inverso. Distorcere lo spazio tempo vuol dire, ad esempio, che se ad un’astronave si espande lo spazio tempo nella sua parte posteriore e lo si contrae nella parte anteriore, questa può compiere enormi quantità di spazio in pochissimi millesimi di secondo. La distorsione dello spazio tempo veniva chiamata dagli antichi Egizi piano di Shar On o Campo di MFKZT. Si tratta del campo delle super stringhe, dove la materia entra e esce dal mondo che conosciamo. Non vediamo più la luce dell’oggetto, che diviene invisibile.

    Si è anche scoperto che i metalli del gruppo del platino monoatomico entrano in risonanza con il DNA e possono avere effetti curativi sul cancro, rettificando le cellule malate. Infine, quando la polvere ricavata dall’oro o dal gruppo del platino viene sottoposta a temperature particolari, si trasforma in vetro, colorato a seconda del metallo usato. Un vetro limpido trasparente senza la perdita di luce.

    L’Egitto ci riserva molte sorprese.

    “Una delle parole chiave simboliche trattate nell’Arco Reale – scrive Gardner – una parola che la tradizione dice essere stata scoperta nella grande cripta che stava sotto al primo Tempio, emersa nell’atto dell’erezione del secondo, quello voluto dal principe Zorobabale, è Jah-Bul-On. Trovata incisa su una placca dorata, la parola è una contrazione sintetica di una combinazione di parole che vogliono dire: «Io sono il Signore, il Padre di ogni cosa». Nella Massoneria questa definizione si riferisce al Grande Architetto dell’Universo. Scomponendola, scopriamo che Jah lo ritroviamo nel Salmo 68:4 (“Io sono”), Bul era un vocabolo canaanita (“Signore”) e On sta per “Casa del Sole”, che in traduzione suona come: «Io sono il Signore On». Ma, come sappiamo, il termine On (così come menzionato in Genesi 41:45 in riferimento alla città sacra di Heliopolis) aveva uno specifico legame con il concetto di Luce. Una versione completa e più accurata del nome è senz’altro: «Io sono il Signore della Luce»”.

    Heliopolis ci riporta alla IV e alla V dinastia e ai Testi delle Piramidi, che si vorrebbero trascritti dal faraone Unas sulla base di testi antichissimi.

    L’Arco Reale, se andiamo oltre il ristretto orizzonte giudaico cristiano nel quale è stato costretto da una cultura protestante hannoveriana e cattolico giacobita, ci conduce, pertanto, nel più profondo dei misteri d’Egitto e di quell’Arca che Manetone, sacerdote egizio, diceva essere strumento sacro sottratto dagli Ebrei in fuga (o meglio da Akhenaton, alias Mosè, mandato in esilio dal sacerdote Ay, retauratore del culto di Amon).

    “Nella più moderna Massoneria – scrive Andrew Sinclair – pochi alti gradi erano ambiti come quello del Santo Arco Reale di Gerusalemme, i cui misteri furono trasmessi dal Rito Scozzese Antico, portato in Francia dai Giacobiti all’inizio del XVIII secolo….”. [5]

    Siamo in presenza di indicazioni che invitano ad approfondimenti relativi ad una catena iniziatica e sapienziale che nell’Egitto del grande Thoth ha avuto uno dei suoi periodi di massimo splendore e che i Templari hanno con tutta probabilità recuperato in parte.

    [1] Marino Graziani, Il Rito di York, Bastogi

    [2] Laurence Gardner, I segreti della Massoneria, Newton Compton

    [3] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [4] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [5] Andrew Synclair, Rosslyn, la cappella del Graal, Ed. Età dell’Acquario

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (2)

    di Silvano Danesi

    Ark-ka, un canto pieno di gioia

    L’oscura origine è l’arché, la racchiusa, la tenebra e il canto è la sua parola, ossia il Logos, che è ark-ka (l’arca dell’alleanza, l’arc en ciel, il ponte). L’arco, l’arcobaleno, l’Arco reale, è la parola sapiente del dio.

    Dionigi Areopagita parla del divino come di colui che ha posto nelle tenebre il proprio nascondiglio, luogo ove “i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia”, ossia del parlare del divino, “sono svelati nella caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente”. [i]

    Bernardo Silvestre (Schola di Chartres), nel suo commento al “De Nuptiis” di Marziano Capella scrive. “In una certa traduzione della Genesi si legge che lo spirito del Signore covava le acque; e «acque» e «abisso» significano l’insieme degli elementi non ancora reso splendente dal suo ornato: e su di esso, come una chioccia sull’uovo rotondo, perché ne esca il pulcino, incombeva lo spirito di Dio, mentre preparava quella materia a produrre da sola i viventi”. [ii]

    La Genesi inizia con la parola Bereshit. Beit ha il significato di forma, di casa, di recipiente: è la prima lettera della Torà, la lettera della creazione. Reshit ha il significato di primazia, di principio di qualcosa (resh è testa, rosh è capo). Barà è creare, dividere.

    Bereshit, quindi, contiene in sé il concetto di un contenitore di un principio, di una casa di un principio. Bereshit è la potenza del pensiero contenuta in un contenitore. La seconda parola della Bibbia è il verbo barà, ossia dividere. Il puro pensiero si stacca dal suo contenitore.

    Il puro pensiero, anche in questo caso, reso con una parola che inizia con il suono R, è pensiero in movimento.

    La serie runica che precede Raidô rappresenta “il soffio non ancora modulato, non ancora divenuto parola”[iii] , la potenza del Caos non ancora ordinato dalla parola ordinante del Verbo, la “potenza racchiusa nella «pietra» che può essere ridestata e ordinata”[iv] e il soffio vitale, l’energia divina che anima il cosmo.

    Siamo, con tutta evidenza, di fronte al racconto sapienziale della manifestazione.

    Il tema della Parola come agente della manifestazione è stato, non a caso, introdotto, sia pure in epoca tarda, nei rituali massonici con l’utilizzo del Vangelo di Giovanni aperto al Prologo e che costituisce, alla luce di quanto sin qui detto, una chiave interpretativa dell’insieme dell’apparato archetipico e simbolico della Massoneria.

    Nel Vangelo di Giovanni, con il quale si aprono i lavori massonici, è scritto. “In principio era il Verbo (logos, ndr) e il Verbo (logos, ndr) era presso Dio [theon,ndr] e il Verbo (logos, ndr) era Dio [theos, ndr]”.

    Per i Druidi, scrive Jean Markale, la creazione è continua e perpetua e Dio non è, ma diviene. [v] Ed è così anche per Giovanni, visto che Théos, come s’è visto, deriva da theeîn, correre e theâsthai, vedere e dà, pertanto, l’idea di un procedere verso l’evidenza, di un continuo manifestarsi. In Théos è racchiuso il significato di un continuo muoversi verso la manifestazione.

    La Mason Word, dunque, si riferisce alle antiche tradizioni della parola creatrice e al segreto che è ad essa connesso.

    Ma davvero la Mason Word può dare la seconda vista? Cosa significa?

    Significa, probabilmente, in accordo con gli antichi Misteri, che il viaggio iniziatico porta l’iniziato all’epopteia, al “guardare sopra”, ossia all’acquisire un’altra visione della vita, del mondo, dell’origine, della manifestazione che avviene attraverso la Parola Indicibile. Nel viaggio l’iniziato scopre il suo Sé, si riappropria della sua essenza e dell’Essenza e così cambia il suo modo di vedere. La frequentazione di miti, simboli, archetipi, ha cambiato il suo punto di vista, la sua mentalità e allora non cerca più di “dire” la Parola Indicibile o di spiegarla, ma di “incontrarla”, laddove è possibile: “la incontra al suo oriente”. [vi] Il nuovo modo di pensare dell’iniziato è un “passare dal concetto alla metafora”, [vii] che è “la parola che porta fuori (meta-phorein) l’Ineffabile”. [viii]

    L’iniziato, andando incontro a se stesso, incontra il Logos, all’Oriente, in quanto il Logos orienta, dà senso al non senso, dà visibilità e senso all’abisso primordiale, estrae l’ordine dal chaos, differenzia l’indifferenziato, manifesta l’immanifesto (il Nun, l’abissale inconscio collettivo, l’oceano primordiale, la racchiusa Arché).

    La nuova vista vede, grazie alla Parola Indicibile, ciò che di volta in volta si rende evidente, ma è anche affamata di nuove visioni, poiché ha imparato a “guardar sopra”, inseguendo il fondo abissale dal quale emerge il manifesto.

    Eraclito scrive: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma”.

    La seconda vista è un “annusare”, un percepire, un “guardare oltre” ciò che la Parola Indicibile rende manifesto, perché la Parola Indicibile, il Logos orienta e orientando indica l’oltre: un viaggio infinito verso l’infinito.

    L’egizio Thoth (l’Ermete Trismegisto dell’ellenismo) era detto “naso”.

    Vedere è inseguire l’Oriente: orizzonte che si sposta mentre il cammino procede.

    Troppi cialtroni, sedicenti massoni e maestri, assetati solo di potere, schiavi di un Ego gonfio e tronfio, illudono degli assetati di conoscenza con la promessa di svelare segreti che solo loro posseggono, essendo giunti agli Alti Gradi, meglio ancora: al Vertice degli Alti Gradi e così vendono finte verità in cambio di sottomissione.

    La “Parola indicibile” è, dunque, il Verbo, il Logos e poiché, come insegna Giovanni: “In Arché era il Logos e il Logos era presso Theon e il Logos era Theos”, il Logos-Leone non è altro che l’Arché che, pronunciandosi, si rende evidente, ossia conoscibile (vid-vedere) come ente. E Giovanni ci guida alla Parola che diviene dicibile, pronunciabile, se noi diciamo di noi stessi: “Io sono la via, la verità e la vita”; se riconosciamo il Divino in noi.

    La parola è, dunque, azione creatrice.

    La Verità è un orizzonte che si sposta verso l’Oriente

    La Verità è come l’orizzonte: si sposta man mano cammini. Il viaggio presenta ad ogni passo scenari nuovi, ma ad ogni passo ne sopravviene un altro.

    Camminando sulla superficie della sfera del manifesto l’orizzonte è mutevole ed ogni verità è provvisoria. Accade allora che ci si rivolga al centro, ma ci rendiamo conto che quel centro è il nostro centro e la verità che vi troviamo è la nostra verità.

    Brian Josephson, premio Nobel per la Fisica nel 1973, ritiene che vi siano tre ordini di realtà fisica che possiamo descrivere come classico, quantistico e implicato (teoria di Bohm: ordine atemporale e aspaziale, definito Olomovimento).

    “La corrispondenza tra i vari ordini – chiarisce Odifreddi – non è soltanto metafisico, ma costituisce una vera e propria identità: in particolare la mente è l’esperienza del livello quantico della realtà, mentre la meditazione, o l’illuminazione, permette di sperimentare l’ordine implicato”. [ix] L’illuminazione dei Misteri è l’epopteia: la capacità di vedere sopra.

    L’incontrare la Parola Indicibile, l’andare incontro al nostro Sé, introduce il tema della salvezza.

    La salvezza

    La soteriologia (dal greco soteria= salvezza e logos=parola, ragionamento) è lo studio della salvezza nel senso di liberazione da uno stato o da una condizione non desiderata.

    Alcune soteriologie enfatizzano l’unione con Dio o con gli Dèi o la relazione con Dio o con gli Dèi, mentre altre enfatizzano più fortemente il coltivare la conoscenza o la virtù.

    Il primo approccio rimanda più propriamente al concetto di redenzione, laddove la liberazione è connessa con il concetto di riscatto e presuppone l’intervento esterno di un agente riscattante.

    Nel secondo approccio riscontriamo un evidente collegamento con il percorso massonico.

    Nel rituale, alla domanda: “A quale scopo ci riuniamo?”, il Primo Sorvegliante risponde: “Per edificare Templi alla virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio, lavorare al bene e al progresso della Patria e dell’Umanità”.

    L’intero percorso massonico è volto alla conoscenza e in particolare alla conoscenza di se stessi. Gli antichi Egizi dicevano che l’uomo è venuto al mondo per conoscere il proprio nome segreto (Ren) e conseguentemente seguire la retta via che, detto con parole di un’altra cultura, ottimizza il karma, ossia l’azione. Conoscere la retta via con la quale si manifesta il karma è conoscere il proprio destino ed essere capaci di realizzarlo al meglio.

    E’ interessante notare come il concetto di karma, particolarmente sviluppato nelle culture orientali (induismo, buddismo) possa, in ambito greco, essere fatto risalire al termine carmé, l’ardore bellico (connesso con kairo, karmene e, appunto, karma). Termine, quello di karmé, che in origine significava “gioia”, la gioia del guerriero di dare libero sfogo alla sua energia. In questo ambito semantico, possiamo attribuire al termine karma il significato di liberazione delle proprie energie, di manifestazione concreta di ciò che è racchiuso in noi. Il karma è pertanto la manifestazione del nostro nascosto progetto.

    Cos’è la virtù? Virtutem, accusativo di virtus, indica valentia, valore, forza (da vis). Al concetto di virtù è accostato quello del vizio, che alcuni vogliono derivante da evitare, schivare e altri da un tema viet, sanscrito vyath-ate dal significato di vacillare.

    Ancora una volta il rituale non ci consegna una lezione moralisteggiante, ma ci indica un metodo.

    Si raggiunge la salvezza allorquando, con la conoscenza di se stessi, del proprio nome segreto (Ren) e della Natura, frutto di valore, di valentia, di forza e di eccellente ricerca, si percorre la retta via del karma, ossia dell’azione che noi stessi ci siamo dati come compito da eseguire in questa vita per accrescere la Conoscenza complessiva nostra e dell’universo.

    Il vizio è il vacillare, lo schivare gli ostacoli, l’evitare le prove, l’abbandonare la retta via per perdersi per strade secondarie.

    La verità

    Il tema della salvezza è connesso con quello della verità.

    Quando noi cerchiamo, attraverso la realizzazione delle nostre energie interne nascoste e racchiuse nel nostro progetto di vita, seguendo la legge del karma, di conoscere la nostra verità, imitiamo il processo (via cammino) attraverso il quale l’Essere Nascosto si svela (a-letheia, verità) nella manifestazione.

    L’Essere o, in altri termini, l’Arché nascosta, la Tenebra, da cui emana la luce, infatti si svela, si presenta stando nascosta e nel Logos si dà, sottraendosi.

    L’Essere, come suggerisce in molte sue opere Umberto Galimberti, si presenta (a-letheia = verità), assentandosi (lantháno). Il Logos (tutto raccolto in ordine) abita nella verità.

    La verità è, dunque, la manifestazione stessa dell’Arché, la Natura, il cosmo che esce dal caos del nascondimento e che nel Logos trova il suo ordine.

    La verità, in quanto manifestazione, implica il segreto, ossia la non presenza della verità, il suo nascondimento e pertanto, avere consapevolezza del segreto è avere consapevolezza dell’Essere.

    Nel nostro procedere sulla via del karma, lo svelarsi del nostro progetto nelle nostre azioni, ci rinvia al nostro segreto.

    La verità è stata declinata in molti modi. Nel mondo induista, come dharma, è la consapevolezza del percorso, della retta via, del compito che ogni essere si è dato per fare esperienza di sé nel manifestato.

    Nel mondo occidentale, come suggerisce ancora Galimberti, la verità ha abbandonato il suo essere a-letheia, per affermarsi come orthótes, ossia come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdos).

    L’Occidente ha così perso il segreto, ossia la consapevolezza del Nascosto, della Nascosta Arché, la Tenebra, che si svela e che nel Logos ha la sua dinamica manifestativa. E il nascosto è il sacro.

    In Occidente l’uomo ha contemporaneamente perso il senso del proprio segreto, che nell’azione si svela e si manifesta, in quanto interpreta le proprie azioni, il proprio karma, come a-letheia, verità, liberazione della propria energia nascosta. L’uomo occidentale colloca le proprie azioni in ambiti valutativi esterni (efficienza, progresso, richiesta di legittimazione, ecc.). La conoscenza di sé è alienata. Il karma è delegato.

    Giovanni, nel suo Vangelo (14,6) alla domanda di Tommaso: “Chi sei?”, fa rispondere a Gesù: “Io sono la via , la verità e la vita”.

    Nel testo greco, ódòs è via, cammino e implica il camminare, il procedere, il muoversi verso. Verità è a-letheia, ossia non-nascondimento. Infine, vita nel testo greco è zoé, vita naturale universale, ossia Natura.

    Gesù dice di sé di essere un cammino, ossia un procedere verso, di essere manifestazione, non-nascondimento e Natura.

    Siamo in presenza di una dinamis che manifesta il Nascosto nella Natura e questa dinamizzazione del Nascosto è il Logos.

    L’azione (Verbo, Parola, Relazione, Logos) svela l’Essere e ne manifesta l’energia trattenuta.

    La Parola perduta è la perdita del Logos come Parola che parla della relazione tra il Nascosto e il Manifesto e che parlando del Nascosto, o meglio la Nascosta, la Vergine (racchiusa in se stessa), ne manifesta l’energia trattenuta, ossia genera mondi.

    “Tutto intorno a noi – scrive Maurice Cotterel (Cronache celtiche, Corbaccio) – è una manifestazione di Dio, in forma fisica o energetica. Il fiore non è un fiore, ha solo l’aspetto di un fiore, in realtà è Dio mascherato”.

    Lo spirito incarnandosi ha preso forma ed è divenuto materia.

    Lo spirito non ha un corpo; è corpo. E’ il nostro corpo animato che ogni giorno svela nelle nostre azioni (pensieri, parole, opere)il nostro progetto di vita.

    La salvezza, indagando se stessi (nella completezza del proprio essere e del proprio esistere come corporeità animata) e la Natura, è ritrovare la Parola perduta: il Logos nella sua potenzialità relazionale e generatrice, che rinvia al segreto della consapevolezza del Nascosto e il nostro Logos, che ci parla di noi e ci realizza. Possiamo così anche noi dire: “Io sono la via, la verità e la vita”, usando non il termine greco zoé, ma bios, vita particolare, individuale.

    segue

    [i] Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi

    [ii] Bernardo Silvestre, in Il divino e il megacosmo – Testi filosofici e scientifici della scuola di Chartres, Rusconi

    [iii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [iv] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [v] Jean Markale, Il Druidismo, Mediterranee

    [vi] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [vii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [viii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [ix] Piergiorgio Odfreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Einaudi