di Silvano Danesi

La leggenda templare e i Saggi del Nord

“Secondo la leggenda del 30° grado [del Rito Scozzese Antico ed Accettato, ndr], l’Ordine dei Cavalieri del Tempio comprendeva pure un collegio di “Santi” (in ebraico Kadosch) che professavano una dottrina segreta, appresa in Oriente. Dopo la dispersione dell’Ordine, questo collegio si perpetuò, per via di iniziazione, sia fra i Cavalieri di sant’Andrea di Scozia [vedi 29° grado], sia come organismo indipendente”. [i]

Le conoscenze dei Cavalieri del Tempio e dei “Santi”, secondo varie tradizioni massoniche, sarebbe poi passata alla Massoneria e il 30° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato sarebbe pertanto la continuazione della catena iniziatica.

Rintracciare gli anelli della catena è compito arduo, ma non impossibile. Vediamo, dunque, alcuni elementi che ci possono essere utili.

“Una volta, in tempi così antichi che l’umanità ne ha quasi perso il ricordo – scrive Christian Jacq -, degli esseri eccezionali abitavano una regione meravigliosa che offriva tutte le ricchezze della vita. Eccezionali, perché avevano affrontato vittoriosamente molte difficili prove prima di raggiungere quell’Eden e perché avevano saputo trovare la strada che conduceva in quel luogo paradisiaco dove il sole dolce e benefico non tramontava mai. Ebbene, questa confraternita non è un’istituzione del tutto scomparsa. Ancora oggi esiste un collegio iniziatico che tramanda l’antica saggezza e la rende attuale attraverso vari livelli delle nostre società”.[ii] “La misteriosa confraternita – si chiede Jacq – faceva quindi parte della «catena» simbolica che, partendo dal Vicino Oriente, e più precisamente dall’Egitto, attraversò il mondo greco-romano, assunse molteplici volti dell’ellenismo, della gnosi, e conobbe il suo apogeo nel medioevo delle cattedrali?”.

“Nella civiltà greca, Apollo – scrive ancora Jacq – si afferma come Maestro spirituale dei Saggi del Nord. Ebbene, Latona, madre di Apollo, apparteneva alla prima generazione degli dèi ed era nata nel paradiso nordico”.

Latona, la Notte, la Grande Tenebra, era madre di Apollo e di Artemide.

Un mito narra che Apollo ritorna nel paradiso nordico, in Iperborea, ogni diciannove anni.

“Apollo – aggiunge ancora Jacq – prototipo dell’iniziato ai misteri del sole nascosto, ci trasmette altri messaggi. Uno degli epiteti del dio, Loxias, è particolarmente importante, perché ci ricorda che Apollo fu cresciuto da Loxo, sacerdotessa della comunità femminile che aveva trovato rifugio nel paradiso nordico”.

“Tra gli autori dei vecchi racconti mitologici, Ecateo e qualche altro – scrive Diodoro Siculo – dicono in effetti che nelle regioni che si trovano di fronte alla Celtica, vi è un’isola che non è meno importante della Sicilia. Essa è situata al nord ed abitata da quelli che vengono chiamati Iperborei perché sono al di là del soffio del Boreo; quest’isola ha un suolo fertile che permette ogni tipo di produzione ed il clima considerevole produce due raccolti per anno. Secondo i mitologi, è là che Leto venne al mondo; anche Apollo è onorato presso di loro, più che gli altri dei. Vi sono per così dire dei preti di Apollo perché questo dio è onorato quotidianamente senza sosta con dei canti e onorato in modo notevole. Nell’isola si trova anche uno splendido santuario di Apollo ed un tempio considerevole ornato di numerose offerte e che ha forma di una sfera. Si trova anche una città consacrata a questo dio e la maggior parte dei suoi abitanti sono citaristi, essi suonano continuamente la cetra nei templi, indirizzando degli inni al dio per glorificare le sue imprese. Gli Iperborei possiedono una lingua particolare… (…) Si dice anche che dopo quest’isola la luna sembra molto poco distante dalla terra e che si possono vedere le gibbosità del terreno sulla sua superficie. Si dice anche che il dio si reca nell’isola ogni diciannove anni, tempo nel quale gli astri portano a termine il loro ciclo… (…) [E’ il ciclo di Metone, ndr]. Al momento della sua apparizione, il dio suona la cetra e balla senza sosta ogni notte, dall’equinozio di primavera al sorgere delle Pleiadi, affascinato dai suoi successi. I re di questa città ed i reggitori dei santuari sono coloro chiamati i Boreadi, essendo discendenti di Boreo, e si trasmettono il loro poteri continuamente di generazione in generazione.” – Diodoro Siculo, Biblioteca storica, II,XLVII, 1-7

 

Paolo Diacono, nella sua famosa Historia Langobardorum, parla di sette saggi che dormono in una caverna a nord del mondo. “Nell’estremo lembo della Germania, a tramontana e proprio sulle rive dell’oceano, si può vedere un antro sovrastato da una rupe, e lì, non si sa da quanto tempo, sette uomini dormono immersi in un lungo sonno: così integri non solo nei corpi, ma anche nelle vesti, e da si lungo volgere d’anni, da essere diventati oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare”.[iii]

I Templari e la spiritualità celtica

 La letteratura relativa ai Templari ci ricorda che nel 1070 un gruppo di monaci provenienti dalla Calabria, capeggiati da un certo Ursus, un nome che nei documenti del Priorato di Sion è spesso associato alla stirpe merovingia, aveva raggiunto la foresta delle Ardenne, proprietà di Goffredo di Buglione e luogo dove si narra sia esistita una società segreta di iniziati, probabilmente in rapporto con i culti della Dea Arduina (Ardwinna, l’Orsa Bianca, da art = orsa e win = bianca, la Dea Bianca), che nella mitologia celtica è la Dea delle foreste, rappresentata come una cacciatrice a cavallo di un cinghiale (Il suo culto ebbe origine, appunto, nelle Ardenne e in seguito Arduina venne assimilata alla romana Diana).

I monaci calabresi ottennero la protezione di Matilde, Duchessa di Toscana e madre adottiva di Goffredo, che donò loro un vasto appezzamento di terreno in Orval, nei pressi di Stenay, il luogo in cui era stato assassinato Dagoberto II, l’ultimo dei merovingi. Sul terreno i monaci costruirono un’abbazia, ma non vi restarono a lungo, poiché già nel 1108 erano tutti misteriosamente scomparsi verso destinazione ignota. Nel 1131 l’abbazia di Orval venne definitivamente assegnata a Bernardo di Chiaravalle. E qui notiamo una prima importante coincidenza: Bernardo è colui che predispone la regole dei Cavalieri del Tempio e che è ufficialmente l’ispiratore delle loro azioni.

Nel 1114 i Cavalieri Templari risultano già attivi come braccio armato dell’Ordine di Sion, ma la loro costituzione viene esaminata solo nel 1117, per essere poi approvata nel 1118 su istanza di Hughes de Payns ed Andrea di Montbard, lo zio materno di Bernardo.

L’ordine monastico nel quale era entrato Bernardo di Chiaravalle aveva seri problemi finanziari e fu allora che una svolta improvvisa cambiò i destini dei Cistercensi, che dalla miseria cui erano ridotti, proprio grazie all’ingresso di Bernardo e dei suoi parenti, si ritrovarono ad essere una delle istituzioni religiose eminenti, ricche ed influenti d’Europa.

Il 13 gennaio 1129 durante il Concilio di Troyes viene redatto e approvato il regolamento dei Templari.

Nello stesso periodo è attiva la Scuola di Chartres, Parigi è divenuto il punto di riferimento del fermento innovativo che contraddistingue il XII secolo e non passeranno molti anni per vedere Chrétien de Troyes scrivere Le Conte du Graal (1174-1175?) e Wolfram il Parzival (1210). Abelardo nel 1123 fonda a Nogent sur Seine, nei pressi di Troyes, un piccolo monastero scuola, il Paracleto. Nel 1128 diventa abate di Saint Gildas, mentre Eloisa diventa abbadessa del Paracleto (1129). Alla morte di Abelardo il suo corpo è trasportato al Paracleto, convento guidato da Eloisa e divenuto influente, che diverrà il luogo di studio dell’opera abelardiana e manterrà questa impronta nei secoli.

La Champagne si pone come centro di grande interesse per il suo ruolo antico in relazione al mondo druidico.

Jean Louis Brunaux[iv], nell’ambito di uno studio teso ad analizzare i rapporti intensi tra Celti e Greci e, in particolare, tra druidi e filosofi (essendo anche i druidi riconosciuti dai Greci come tali) analizza il fenomeno dell’improvvisa scomparsa, nel 500 a.C., dei principi halstattiani, dovuta, secondo alcuni, allo spostarsi delle vie commerciali greche ed etrusche a causa delle difficoltà della colonia greca di Marsiglia. “Gli Etruschi – scrive Brunaux – avrebbero allora beneficiato delle difficoltà della colonia e avrebbero sviluppato delle relazioni più strette con i territori periferici del “cerchio halstattiano occidentale”, la Champagne, il Berry, l’Hunsrück Eiffel”.[v] Questo spostamento, fa notare Brunaux, a fronte del declino rapido del “principi” halstattiani, scomparsi in pochissimo tempo, come mostra la fine delle sontuose sepolture, non ha causato negli aristocratici della Champagne un innalzamento a “principi” del loro status e i costumi sono rimasti quelli di una società comunitaria, la cui aristocrazia non si considera costituita da uomini di un’altra essenza. Brunaux ritiene pertanto che la rapida scomparsa dei “principi” halstattiani sia dovuta al fatto che la loro perdita di potere economico ha consentito il sopravvento di un fenomeno culturale “che ha potuto conoscere molto rapidamente una traduzione politica, ma la cui origine era soprattutto di natura spirituale. Prima del loro ruolo economico e politico è lo sfruttamento della loro stessa immagine che è stato negato ai principi e ai grandi aristocratici. Si è loro rifiutato il privilegio di mettersi al di sopra dei comuni mortali. … Certamente, dai tempi più antichi, quelli della loro origine, esisteva presso i Celti una spiritualità arcaica e severa, che non lasciò che un flebile spazio alle diverse forme di materialità. La cultura di Halstatt, tutta impregnata di influenze venete ed etrusche, aveva permesso a delle nuove forme di espressione di liberarsi di una tale costrizione. Ma lo ha fatto con degli eccessi e con precipitazione: i principi halstattiani non avevano inscritto la loro dismisura, come i faraoni d’Egitto, in una lunga tradizione che la rese se non accettabile a tutti , quantomeno consuetudinaria. Essa non lo era soprattutto agli occhi degli altri aristocratici, più illuminati, più coscienti del danno che degli eccessi facevano correre alla comunità”. [vi]

La Champagne, dunque, si propone, nello studio di Brunaux, come un centro tradizionale di un’arcaica e severa spiritualità celtica. Una spiritualità che si collega alle Ardenne, ovvero ad Arduinna, la Dea Orsa Bianca, nel cui nome troviamo il simbolo dell’orso, ovvero della regalità (Artù)? Ad una Dea Arduinna, Signora della Natura, che cavalca un cinghiale (simbolo della sacerdotalità)? Ma c’è di più. Analizzando il rapporto tra druidi e pitagorici, Brunaux ne riscontra la concordanza di alcune concezioni metafisiche e la comune idea che la divinità non deve essere rappresentata antropomorficamente o zoomorficamente, lasciando ai numeri e alle forme geometriche di mostrare, dietro alla materia, luoghi inaccessibili ad altro che allo spirito. “Dalla metà del V secolo – scrive Brunaux – in Gallia e nelle regioni limitrofe appaiono numerosi pezzi decorati che testimoniano di un lavoro preliminare di disegno sbalorditivo, generalmente eseguito con l’aiuto del compasso. Su dei pezzi di bardature in bronzo (falere, placche di bardatura, ecc.) di qualche centimetro di diametro, ci sono decine di cerchi che sono stati tracciati al fine di delimitare le zone da ritagliare per creare motivi a rilievo. L’analisi di questi decori dove la complessità della costruzione geometrica non ha uguali nell’abilità dell’artigiano che l’ha messa in opera, necessita oggi dell’utilizzo di strumenti informatici. All’evidenza, questi pezzi sono il prodotto di una stretta collaborazione tra esperti in geometria e dei veri orefici. Essi rispondevano a un bisogno specifico, che giustificava un tale dispendio d’energia, che non aveva nulla a che fare con una semplice moda. Apparsi all’inizio nel “foyer champenois”, questi decori si diffusero in effetti largamente nel mondo celtico, dal quale non sparirono più, come se lo stile plastico del III secolo e quello, realista, del II e I secolo non avessero alcuna presa su di loro”. [vii]

La Champagne si evidenzia come luogo ove operano uomini che coltivano antiche e severe tradizioni e che, al contempo, sanno utilizzare i numeri e la geometria in modo sorprendentemente complesso.

“Passando in rassegna il nostro lavoro – scrivono Alan Butler e Stephen De Foe – Henry Lincoln ha riconosciuto l’attendibilità storica dell’idea che, persino nel XII secolo, in alcune aree dell’attuale Francia esistessero dei gruppi di possidenti che mantenevano ancora un legame diretto e ininterrotto con la cultura megalitica. Sviluppatesi lungo un arco che tagliava la Penisola Scandinava, la Gran Bretagna e alcune regioni della Francia, tali comunità si estendevano fin alla Spagna sudorientale e nelle isole del Mediterraneo. Per quanto riguarda le popolazioni della Borgogna e della Champagne, le radici megalitiche erano piuttosto semplici da rilevare….”. [viii] I Burgundi erano, secondo Butler e De Foe, con tutta probabilità i depositari di forme di religione molto antiche e le famiglie burgunde avrebbero dato vita ad una classe sacerdotale nella quale sono confluiti i monaci culdei.

Xavier Guichard, citato da Butler e De Foe, riferisce di lunghe linee diritte, le Salt lines, che percorrono il territorio per chilometri e a volte partono da un nucleo centrale per irradiarsi in insediamenti contraddistinti dalla componente «al», dal greco hal, sale, nel loro nome: Alaise, Calaise, Falaisc e, ovviamente Halstatt, la città del sale. Altre linee, secondo Guichard, sarebbero molto simili alle moderne linee indicanti la latitudine e la longitudine, distanziate di 111 kilometri sulla latitudine e a 59’ di arco sulla longitudine.

Proviamo ora a porre mente ad un altro fenomeno interessante. Con il crollo dell’Impero romano, anche a causa di un concomitante riscaldamento d’Europa, le foreste ripresero il terreno che gli uomini avevano tolto loro con le culture e diventarono il “deserto” degli anacoreti occidentali, in fuga dalla civiltà.

Tuttavia la foresta è profondamente diversa dal deserto ed è nella foresta che si è sviluppata l’Antica Religione, che non mancò di influenzare forme di cristianesimo non in linea con l’ortodossia papale.

Come suggerisce l’amico Federico Gasparotti, la foresta divenne l’ultimo rifugio della Dea.

La leggenda di Merlino è emblematica. Merlino “ormai vecchio, venne sedotto dall’innamorata strega Nimue, la quale, nel bel mezzo dell’amplesso, si fece confidare i più potenti incantesimi per poi trasformarsi in una sfera d’ambra, inglobando al suo interno il mago, il quale non oppose resistenza, forse conscio che la sua epoca era ormai tramontata con l’avvento del nuovo Dio. Ma la metamorfosi di Nimue non finì lì, poiché decise – scrive Gasparotti – subito dopo di trasformarsi in quercia per restare per sempre unita al suo amato nella pace della foresta”. [ix]

Il principio maschile, ma anche la saggezza druidica, inglobati e custoditi nel femminile avvolgente utero, si rifugiano, dunque, nel folto della foresta.

La leggenda, in chiave simbolica, narra un evento reale. Con l’avanzare del cristianesimo, offerto al popolo sul filo della spada di re convertiti per acquisire la legittimazione di Roma cristiana, quale sedicente erede dell’Impero romano, alcuni druidi pensarono di accomodarsi nella nuova religione, con l’intento, in parte riuscito, di tramandare le antiche tradizioni rivestendole di nuovi panni; altri preferirono ritirarsi nel folto delle foreste, continuando, in segreto, a coltivare l’Antica Religione.

“Nimue – scrive Gasparotti – iberna Merlino, non lo uccide: ella sa che verrà il tempo in cui gli antichi Dei torneranno ad essere ascoltati e per questo salva il proprio amato, nonché indiscusso custode del Sapere, dall’inevitabilità dell’avvento del cristianesimo”.

La Dea, esiliata, continua a vivere e ad essere amata, protetta dalla Natura, ovvero da se stessa, nella forma di foresta impenetrabile, proteggendo contemporaneamente la sapienza druidica.

La foresta impenetrabile diventa il rifugio dei druidi, degli iniziati perseguitati, di briganti, emarginati, di latitanti, come ben mostra la leggenda, divenuta popolare, di Robin Hood, che in forma allegorica è il Kernunnos con il suo popolo, che dalla Foresta-Dea combatte il potere oppressivo.

Nell’XI secolo la foresta comincia ad essere colonizzata. Nuove vie di comunicazione la percorrono e la sua impenetrabilità viene in parte compromessa.

Ai rifugiati, ai “merlini” custoditi nel folto della foresta e custodi di antiche sapienzialità si ripropone il problema che si era posto ai loro antenati: utilizzare gli strumenti offerti dal potere per trasmettere in forma criptata l’antica tradizione e, al contempo, ritirarsi ulteriormente nel folto, per evitare di essere identificati.

Quando un sapere “tradizionale custodito da pochi è sul punto di estinguersi – scrive Leda Berné – allora i suoi detentori potrebbero decidere volontariamente di affidarsi alla memoria collettiva, consci del fatto che il popolo in ogni caso non sarà mai in grado di comprenderne il profondo significato. In questo modo la maggioranza diverrebbe, attraverso la trasmissione orale del patrimonio folklorico, il tramite inconsapevole di un messaggio che, in tempi successivi, qualcuno adatto ad intendere potrebbe riuscire di nuovo ad interpretare correttamente”. [x]

Saxon-Sion possiede sul suo territorio la collina di Sion che ha ispirato Maurice Barrès per il suo romanzo La colline inspirée.

Sulla collina è celebrato un culto mariano antico ed è stata edificata la basilica di Notre-Dame de Sion (Madonna nera).

I Celti sulla collina avevano stabilito un tempo un alto luogo di culto a Rosmerta. Dopo la pax romana, i riti si volsero verso delle dee latine. L’arrivo del cristianesimo ha trasformato l’importante culto di una Dea in quello della Vergine Maria.

Non è improbabile, pertanto, che fino alle soglie del secondo millennio i culti di Rosmerta siano stati praticati ed è possibile che fossero ben presenti anche agli uomini del XII secolo, ovvero a coloro che si richiamarono a Nostra Signora di Sion, intesa come Nostra Signora di Sion Saxon.

Rosmerta, dea gallica della generazione, era “paredra abituale”[xi] di Mercurio-Lugus. Il culto della coppia divina era praticato in gran parte delle regioni gallo-romane, ma era particolarmente diffuso nella Gallia centrale e orientale, lungo i fiumi Rodano, Mosa e Mosella e su entrambe le rive del Reno.

Notre Dame de Sion non è, dunque, Nostra Signora di Sion in Palestina, ma la Dea Madre Rosmerta? Parrebbe, a questo punto, di poter rispondere affermativamente e se così fosse emergerebbe ancora di più il disegno di un gruppo di iniziati, di un antico collegio druidico, inteso a mantenere in vita l’Antica Religione.

Sion potrebbe derivare dal gaelico sionn dal significato di fosforescente, splendente (sionnachan è splendore), aggettivi che ben si attagliano alla Dea. Tuttavia, per stare alle modalità antiche che inducevano a giocare con le parole, sionnach è anche la valvola di soffietto della zampogna, o cornamusa, ovvero la parte (la canna) dove il suonatore opera per ricavare le note. Il suono della cornamusa è circolare, ricorda il respiro dell’Universo. La zampogna accompagnava i rituali dei Sabba, ovvero le danze sacre dell’Antica Religione.

Saxon Sion e Notre Dame de Sion ci riconducono al Priorato di Sion, il quale, a volte chiamato “Ordine di Sion” o “Ordine di Nostra Signora di Sion”, avrebbe assunto la denominazione di Sion in quanto figlio diretto dell’Ordine dei cavalieri di Nostra Signora di Sion (1099), a cui era dedicata un’abbazia decrepita in Terrasanta. E se così non fosse? E se la Nostra Signora di Sion fosse quella di Saxon Sion? Tutto si concentrerebbe, in questo caso, nella Champagne, terra di antiche tradizioni, custodite dalle famiglie nobili post-halstattiane.

Lynn Picknette e Clive Prime[xii] scrivono che nel “XVI secolo Ferri di Vadèumont [località nei pressi di Saxon Sion] aveva già costituito l’Ordine di Notre Dame di Sion storicamente riconosciuto, legato per statuto all’Abbazia del Monte Sion a Gerusalemme da cui il Priorato sostiene di aver preso il nome. Il figlio di Ferri sposò Jolanda da Bar, Gran Maestra del Priorato tra il 1480 e il 1483, che era figlia di Renato d’Angiò, il Gran Maestro Precedente. Jolanda fece di Sion Vaudèmont un importante centro di pellegrinaggi centrati sulla Madonna Nera la cui statua fu distrutta durante la rivoluzione francese e sostituita da una vergine medievale non nera, prelevata dalla chiesa di Vaudèmont che è dedicata a Giovanni Battista.

Pierre Plantard de Saint Clair, sedicente Gran Maestro del Priorato, scrive esplicitamente: “La Vergine Nera è Iside e il suo nome è Nostra Signora di Luce”.[xiii] Il Gran Maestro fondatore, Ugo de Payns, era sposato con Caterina St.Clair. Discendenti dei Vichinghi i St. Clair o Sincalir costituiscono una delle più interessanti e importanti famiglie della storia, diffusesi in Scozia e in Francia fin dall’XI secolo. Il nome della famiglia deriva dal martire scozzese Saint Clair che fu decapitato (interessante riferimento al mito della testa). Ugo e Caterina visitarono i possedimenti di St.Clair vicino a Rosslyn e là stabilirono la prima commenderia templare in Scozia”.[xiv]

Rosslyn è il luogo dove si trova la Rosslyn Chapel, una delle costruzioni più enigmatiche e sintesi di antiche tradizioni druidiche con la tradizione templare e libero muratoria.

I Templari e i Fianna

E’ possibile che i Templari siano gli eredi e i continuatori delle Fianna, le schiere dei druidi guerrieri guidati dal mitico Finn? E’ possibile che chi ha avuto l’idea di istituire l’Ordine abbia avuto finalità diverse da quelle ufficialmente proclamate e benedette dall’autorità di Bernardo di Chiaravalle?

René Guénon sostiene l’esistenza, “durante tutto il Medio evo, di una tradizione iniziatica propriamente occidentale”[xv] e il rapporto più evidente con questa tradizione e con quella iniziatica medievale cavalleresca è quello con il mondo celtico e con i Fianna.

I Fianna erano soldati scelti, professionisti di grandi capacità e valore; soldati sottoposti ad un’educazione ferrea e a prove iniziatiche, membri di una congregazione considerata un’istituzione onorevole, riconosciuta dalle leggi e considerata essenziale al benessere della comunità. Dal primo novembre, Samain, al primo di maggio, Beltane, ossia nel periodo scuro dell’anno, i Fianna “vivevano presso i villaggi, vegliavano sull’applicazione della giustizia, difendevano le vedove e gli orfani”[xvi]. Dal primo maggio al primo novembre, ossia nella parte chiara, “cacciavano i cervi e i lupi, reprimevano i brigantaggi e aiutavano a riscuotere le imposte”.[xvii]

Lady Augusta Gregory, studiosa delle tradizioni celtiche, scrive in proposito: “A quel tempo, il numero dei Fianna d’Irlanda era di sette volte venti più dieci comandanti e ognuno di loro aveva tre volte nove guerrieri ai suoi ordini. E ognuno dei loro uomini era vincolato all’osservanza di tre cose, ossia: non appropriarsi del bestiame con la violenza, non rifiutare a nessuno bestiame o ricchezze, non indietreg­giare nemmeno davanti a nove nemici. Mai nessuno veniva accettato tra i Fianna se la sua tribù e la sua famiglia non garantivano che lui, anche se essi fossero stati uccisi tutti, non avrebbe cercato soddisfazione nel vendicare personalmente la loro morte. Del resto, se fosse stato lui ad arrecare danno ad altri, quel danno non sarebbe ricaduto sulla sua gente. E non ci fu mai nessuno che venne accolto tra i Fianna senza avere prima appreso i dodici libri della poesia. E ognuno, prima di essere accettato, veniva messo in una buca profonda del terreno fino alla cintola con in mano il proprio scudo e un’asta di avellano. Nove uomini si allontanavano dalla buca per una distanza di dieci solchi e poi, tutti insieme, gli sca­gliavano addosso le loro lance. E chi veniva ferito non era giudicato adatto ad unirsi ai Fianna. Dopo questa prova, ancora, ad ognuno venivano legati i capelli ed egli era costretto a correre per i boschi d’Irlanda e i Fianna lo inseguivano per tentare di ferirlo. Al momento di iniziare, tra loro e l’aspirante guerriero c’era la lunghezza di un ramo; e se essi lo raggiungevano e lo ferivano, o se solo gli tremava la mano armata di lancia, o se il ramo di un albero scioglieva le trecce dei suoi capelli, o se egli spezzava un ramo secco sotto i piedi mentre correva, ebbene, non gli veniva concesso di unirsi a loro. Ed essi non l’avrebbero accolto tra di loro se egli non avesse fatto un salto su un bastone alto come lui, se non si fosse piegato portando una gamba dietro alla testa e non si fosse tolto dal piede una spina con le unghie per poi rimettersi a correre ancora più velocemente. Ma se riusciva a fare tutte queste cose, egli diventava uno dei Fianna”[xviii].

Chi aspirava ad essere un Fianna doveva non solo essere un valoroso guerriero, ma anche un poeta, ovvero un bardo. Il Fianna era dunque un iniziato prossimo ai druidi, i quali non erano solamente sapienti, poeti, musicisti, uomini d’arte e sacerdoti, ma anche guerrieri, nonostante fossero dispensati dal portare le armi e dall’andare in guerra. Quindi, come fanno notare Le Roux e Guyonvarc’h, “la condizione sociale del druida è diversa da quella del flamen romano e da quella del brahmano indù, i quali non hanno il diritto di battersi e nemmeno quello di vedere una schiera armata. Lo statuto del druida riflette uno stato singolarmente arcaico, anteriore alla separazione dell’autorità spirituale dal potere temporale”. [xix] E’ lo stato del Templare.

Il celebre comandante dei Fianna, Fin mac Cumaill, era dotato di veggenza ed era capace di usare il teinm laegda o “illuminazione di canto”.[xx]

Il prototipo del druida guerriero è Cathbad, padre del re Conchobor[xxi], il primo dei druidi dell’Ulster. Cathbad è druida o guerriero a seconda delle circostanze, ma egli riunisce in sé le due valenze. “Il potere guerriero di Cathbad è intimamente connesso con la sua persona e con il suo sacerdozio …. Per contro, un tratto caratteristico dei guerrieri è che essi devono essere poeti”[xxii]. “In Gallia i druidi non erano diversi: proprio in quanto druida e, secondo Cesare, politico influente, Diviziaco comanda un corpo di cavalleria”[xxiii].

Una leggenda irlandese ci rende noto l’equipaggiamento di un druida mitico, Mog Ruith, che va alla guerra con lo scudo multicolore e stellato, munito di un cerchio di candido argento, con una spada da eroe dalla grande impugnatura al fianco sinistro, con due lance nemiche e avvelenate in mano”.[xxiv] I druidi della parte avversa a quella di Mog Ruith, non sono da meno. Colptha sospende al braccio sinistro il suo scudo nero e funesto, che misura centoventi piedi di circonferenza e ha un cerchio di ferro. Impugna la sua spada pesante e tagliente, che ha richiesto trenta masse di metallo incandescente e ha le sue due lance nere e scure in mano. Anche Medhran è un druida guerriero: “Guerriero dai capelli biondi e inanellati e di amabile aspetto era il druida di Medhon Mairtine, chiamato Medhran il druida”. [xxv]

I Celti prendevano la guerra come un gioco dalle regole ferree: “era il fìr fer (letteralmente “la verità degli uomini”). Per mutuo consenso lo scontro degli eserciti contendenti veniva convertito in una lotta tra due campioni delle parti avverse, la singolare tenzone, che è presente così frequentemente nella letteratura dei poemi epici irlandesi, come il Tain Bo Cualnge (Il furto dei buoi di Cooley), fino alla leggenda medievale arturiana”[xxvi]

Anche i Gesati, che combattevano nudi, sono, nel mondo celtico, guerrieri professionisti, “che vendevano la loro esperienza a chiunque volesse ingaggiarli. Potremmo capire facilmente il loro ruolo se li paragonassimo ai samurai”. [xxvii]

Nei Fianna possiamo intravedere i precursori dei cavalieri arturiani, nei druidi guerrieri quelli dei Templari, monaci guerrieri, che Bernardo di Chiaravalle invia a scoprire la Gerusalemme celeste[xxviii], ossia la Conoscenza? Conoscenza, in particolare della natura e delle sue regole, come manifestazioni di una divinità che rimane nascosta, che è il motivo conduttore della filosofia druidica.

Théodore Hersart de La Villemarqué, nel suo Barzhaz Breizh, richiamando l’antica legge dei bardi, della quale si trovano echi in autori come Moelmud e Hoel le Bon, scrive: “Secondo questa legge, il dovere dei bardi è di divulgare e di mantenere tutte le conoscenze della natura volte a estendere l’amore della virtù e della saggezza”. [xxix]

Rapporto con la Conoscenza, quello della filosofia druidica, che ritroviamo affermato anche nella mitologia relativa ai Tuatha De Danann, il Popolo degli Dèi di Dana, arrivati, come scrive Lady Augusta Gregory, dal Nord. “E nelle terre dalle quali venivano, essi avevano quattro città in cui combattevano le loro battaglie in nome del sapere: la grande Falias, la scintillante Gorias, Finias e la ricca Murias che si trovava a sud. E in quelle città essi avevano quattro uomini saggi che insegnavano ai loro giovani la manualità, la conoscenza e la saggezza assoluta: Senias a Murias; Arias, il biondo poeta, a Finias; Urias, dall’animo nobile, a Gorias; e Morias a Falias. Essi portarono da quelle quattro città i loro quattro tesori: da Falias la Pietra della Virtù, chiamata la Lia Fail (la Pietra del Destino); da Gorias una Spada; da Finias una Lancia della Vittoria; e da Murias il quarto tesoro, il Calderone, che mai lasciò andar via insoddisfatti gli ospiti”.[xxx]

Sono i tesori che ritroveremo puntualmente nel ciclo del Graal, che rivela in tutta evidenza la sua derivazione dalla tradizione druidica.

Lugh, la più importante divinità maschile celtica, presentandosi a Teamhair (Tara) il centro sacro d’Irlanda, dove non può entrare chi è senz’arte, dice al guardiano di essere esperto in tutte le arti (Ildánach, Maestro di tutte le arti) e viene messo da Nuada (l’equivalente del Re Pescatore del ciclo arturiano) alla prova della scacchiera e avendo vinto tutte le partite gli viene concesso di sedersi sullo “Scranno della conoscenza”.

La Conoscenza è il punto più alto da raggiungere per chiunque si avvii sui sentieri dell’Arte e non è un caso che il termine fidchell (in gallese gwyddbywyll), sia letteralmente “saggezza del legno”[xxxi] e richiami sia l’idea della saggezza, sia il supporto di legno di una sorta di gioco degli scacchi in cui un pezzo con il valore di re (banàan) deve scappare verso il lato del piano, cosa che i pezzi opposti, i fian o gwerin, devono impedirgli.

Fian (plurale Fiana o Fianna) indica, pertanto, al contempo, i pezzi del gioco del fidchell, ossia del gioco della conoscenza e il corpo scelto dei guerrieri iniziati dei Celti.

Un altro nome del gioco che avviene sulla scacchiera (per inciso simbolo antico della Dea e della filosofia druidica, che si muove tra il bianco e il nero, tra il lato chiaro e quello oscuro della realtà) è il Brandubb, la “scacchiera della gioia”, riferito, come vedremo a Bran e anche qui è più di una coincidenza il fatto che il Beauseant bianco e nero sia simbolo dei Templari.

I Fianna, del resto, sono strettamente imparentati con i Tuatha De Danann e, in particolare, con Lugh. “In quanto alla madre di Lugh, che era la bella e alta Ethlinn, ella venne a Teamhair dopo la battaglia di Mag Tuiread ed egli la diede in sposa a Tagd, figlio di Nuada. E i figli che nacquero da loro furono Muirne, madre di Finn, il capo dei Fianna d’Irlanda, e Tuiren, madre di Bran”.[xxxii]

Finn, il comandante dei Fianna è dunque figlio della figlia della madre di Lugh, il quale si presenta come il figlio paredro della Dea Madre, che qui compare come la bella Ethlinn.

La mitologia relativa ai Fianna li evidenzia come protagonisti dell’incontro scontro tra l’antica civiltà della Dea del Neolitico e dell’Età del Bronzo e gli invasori indoeuropei. I Fianna, le cui schiere appartengono ai Gaeli, si scontrano con i guerrieri dei Tuatha De Danann, ma tra le due etnie ci sono matrimoni e figli che hanno padri e madri appartenenti alle due civiltà. Lo stesso Finn è, infatti, come abbiamo visto, anche di sangue Tuatha.

Lugh è per molti versi assimilabile al Dio Cornuto (Kernunnos, Pasupati, Dioniso, Basa-Jaun, Hou, Puck, in seguito Robin, Robin Goodfellow, sempre vestito di verde, il colore delle fate e dell’Altromondo) che dalle lontane origine del Paleolitico è arrivato sino a noi nei riti agresti che la Chiesa ha condannato come diabolici, mettendo al rogo coloro che li praticavano, fedeli all’Antica Religione.

Popolazioni del Neolitico e popolazioni indoeuropee si sono combattute e amalgamate, come ben spiega Margaret A. Murray, nella realtà e nel mito, dando origine al substrato mitico e leggendario che ritroveremo come parte essenziale del ciclo arturiano e di tutta la letteratura ad esso connessa.

Finn, figlio di Cumhal, è il comandante dei Fianna e rimane tale fino alla morte. “Egli fu re, veggente, poeta, druido e uomo sagace”[xxxiii] e si circondò di druidi, poeti, musicisti, guaritori.

Come Taliesin, che succhiandosi il dito scottato da tre gocce del calderone di Keridwen acquisì la Conoscenza, così Finn, arrostendo il salmone per Finegas, presso il quale si era recato per apprendere la poesia, si scotta e mettendosi il dito in bocca ne acquisisce la Conoscenza.[xxxiv] Non solo, ma alla Fonte della Luna, sorvegliata dalle tre figlie di Beag, figlio di Buan dei Tuatha De Danann, al quale la fonte apparteneva, una goccia d’acqua gli va in bocca e Finn acquisisce la saggezza.

Finn è un iniziato, divenuto come un bambino (il dito in bocca), dunque innocente e sgombro da schemi e pregiudizi. Jean Markale fa notare che Finn, il cui nome significa bianco, è un eroe solare (come Mabon), “uccisore di mostri e cacciatore, nonché riparatore di torti. L’organizzazione che egli dirige è una delle più singolari e prefigura talune società cavalleresche medievali, forse anche un ordine simile a quello dei Templari”. [xxxv] “Le condizioni per entrare nel gruppo dei Feniani – osserva Markale – erano assai precise: un guerriero non doveva mai sposare una donna per la dote, ma per le sue qualità, mai violentare una donna, non rifiutare mai di dare oggetti preziosi o cibo a chi li chiedesse (obbligo del dono) e non fuggire mai davanti a meno di dieci avversari. Doveva inoltre farsi ricevere nel novero dei fili (poeti scienziati), subire ardue prove fisiche, difendersi con uno scudo e un bastone di nocciolo contro nove guerrieri che scagliavano tutti insieme contro di lui i loro giavellotti, sottrarsi attraverso i boschi a tutti i Feniani riuniti, mai tenere le armi con mani tremanti, mai spezzare un ramoscello sotto i piedi, saltare per un’altezza pari alla sua statura, piegarsi sulle ginocchia, togliersi, in corsa, una spina dal piede senza fermarsi. Sottoposti a tali condizioni, i Feniani erano evidentemente un gruppo scelto, e numerose saghe ispiratrici dell’Ossian di Macpherson espongono le loro avventure”. [xxxvi]

I Fianna, dunque, combattenti valorosi, druidi, iniziati alle arti dai Tuatha, possono essere stati il paradigma antico al quale si sono ispirati coloro che hanno fondato l’Ordine dei Templari.

La croce templare druidica

 Robert Graffin (L’art templier des cathédrales, Celtisme et tradition universale, Edition Garnier) sostiene che la cosmogonia e la conoscenza dei Druidi “troveranno più tardi la loro sintesi nelle cattedrali tramite i Templari e i Cistercensi”. Va infatti notato che “Malachia, il vescovo d’Armagh e primate d’Irlanda, celebre per la profezia dei papi che gli è attribuita, era amico di Bernardo di Clairvoux. Nel 1142 i monaci cistercensi raggiunsero l’Irlanda e fondarono l’abbazia di Mellifont. L’arte tradizionale celtica era ormai interdetta. L’architettura, l’arte della maçonnerie era già sottomessa al potere dei vescovi fin dal secondo concilio di Nicea del 787”. (Michel Raoult, Les druides, Ed Rocher).

Inoltre Graffin sostiene che le cattedrali gotiche conterrebbero il codice druidico e che la croce templare deriverebbe dalla croce celtica.

Secondo Graffin non solo la croce celtica è simile alla croce templare, ma le proporzioni della croce druidica, che contengono i cerchi di Gwynfyd, Abred e Ceugant, sono presenti nella cattedrali gotiche.

Secondo Guy Travoux (Lettere, cifre dèi, Ecig) i Templari perpetuarono il calendario degli alberi di 13 mesi “nelle loro 13 invocazioni a Dio Padre”.

Huzza, la spina templare, la Dea, il Drago e il Druida

I riferimenti alla Dea sono presenti anche nell’acclamazione: “Huzza! Huzza! Huzza!”, usata anche nei brindisi delle Agapi rituali. Un’acclamazione il cui significato ci riporta al concetto di spina che troviamo nell’acacia e che, nel suo significato esoterico, ci conduce ad un crocevia dove si ritrovano alcuni aspetti importanti delle tradizioni druidica, templare e mediorientale.

Samura, la spina aegyptica, incarnava, a Nakla, al-Uzzà e l’albero rappresenta Dhat Anwat, probabile epiteto della stessa divinità.

Nakhla fu il nome di due località del Hijaz, nella Penisola araba, in età preislamica e nel primo periodo islamico, site a sud di Mecca, prima di Ṭā’if.

Le due località si distinguevano per un aggettivo che ne chiariva anche l’orientamento. Quella più meridionale si chiamava infatti Nakhla al-Yamaniyya, in direzione appunto dello Yemen, mentre l’altra si chiamava Nakhla al-Shāmiyya ed era più a nord di essa, in direzione della Siria (chiamata Shām).

La più interessante appare senza dubbio essere stata Nakhla al-Shāmiyya, nella quale si venerava al-‘Uzzā, divinità dei Banū Kināna e, quindi, adorata anche dai Quraysh di Mecca. Nelle vicinanze sorgeva anche un santuario della divinità pagana chiamata Suwā‘.

Al Uzza è la principale espressione di una divinità triplice composta anche da al Lat e al Menat. Le tre divinità erano chiamate i begli astri e rappresentavano i tre volti di Venere.

Venere è associata e, nella mitologia, spesso confusa con Sirio, la egizia spdt, detta la Puntuta (il suo geroglifico è un triangolo isocele). Una denominazione che richiama la spina. Sirio era associata in Egitto antico a Iside.

La spina è un simbolo caro ai Templari. Le loro commanderie erano collegate a “luoghi spina” (da cui Epinay, Pinay, Epinac, Courbépine)) tramite cunicoli e in quei luoghi avvenivano le iniziazioni.

Per un gioco di parole (la Lingua verde è fatta di omofonie, analogie, enigmi) che vale sia per il francese, sia per l’italiano, spina e spiga sono molto simili: épine ed épi. En épi è la pannocchia. Spina, spiga, spica (latino). Spica è la stella più luminosa della costellazione della Vergine, che è rappresentata come una signora con una spiga in mano.

Va a questo punto considerato il fatto che la rosa domestica viene introdotta poco prima dell’800, mentre la rosa vera e propria è quella selvatica a cinque petali (biancospino, pruno selvatico). Il bianco spino è la spina bianca. Cinque è il numero della Dea. La stella a cinque punte è simbolicamente riferita a Iside. A Cassiopea è associato il cinque e Cassiopea è l’asterisma al quale è riferita l’indoeuropea Dana.

Un’altra spina è il pruno (prugnolo) selvatico, Prunus spinosa, (Zain), detto anche “spino nero”, in opposizione allo “spino bianco” o biancospino (Uath) cresce ai margini dei boschi e dei sentieri; alto fino a quattro metri ha fiori bianchi e frutti tondi color blu. La sua fioritura è nel periodo marzo aprile (equinozio di primavera) e i frutti maturano a settembre (equinozio d’autunno). Il pruno selvatico era considerato l’albero della magia nera e delle maledizioni ed è associato alla Scorpione; la sua runa è Purisaz.

Il biancospino, albero che va dai 2 ai 12 metri, ha fiori bianco rosati e frutti rossi ovali, con nocciolo; fiorisce a maggio giugno e i suoi frutti maturano ad agosto settembre.

Pruno e biancospino hanno le foglie a cinque punte, simbolo della Dea, come le foglie dell’edera, della vite e del platano.

Hadingham[xxxvii] cita la teoria di Norman Lokyer, secondo la quale esisteva nel 2000 a.C. un “Culto di Maggio”, legato al primo maggio, quindi ad Aldebaran, sopresso intorno al 1600 a.C. da adoratori del solstizio, quindi del Sole, provenienti dall’Egitto o dalla Grecia. Il “Culto di Maggio” venerava il sorbo (Luis) e il pruno, mentre gli adoratori del sole il vischio. Il “Culto di Maggio”, secondo Hadingham, dà origine ad un calendario con l’anno diviso in otto parti. Il sorbo e il pruno erano al tempo l’equivalente della più moderna rosa.

Va notato che nel 2000 a.C. è avvenuto il passaggio della polare dal Draco (Alpha draconis), (spina in gaelico), all’Orsa, già iniziato nell’era del Toro.

Charpentier fa notare che nel Cantico dei Cantici troviamo la spina: “Io sono la rosa di Sion […] simile al giglio in mezzo alle spine”.

La Vergine è chiamata nelle litanie Lilium inter spinas, il giglio in mezzo alle spine.

Nel Libro dei Giudici, fa notare ancora Charpentier (IX,14) si legge (secondo la traduzione moderna): “Allora tutti gli alberi dissero alla spina: «Vieni; regna su di noi». La spina rispose agli alberi: «Se siete in buona fede nello scegliermi per regnare su di voi, venite e rifugiatevi alla mia ombra; altrimenti che il fuoco esca dalla spina e divori i cedri del Libano”.

La forma antica dell’aculeo vegetale della spina è akantha, parola che per estensione diventa la pianta stessa con le spine: l’acanto, l’acacia, connessa con Al-Uzza o Huzzai.

Infine, draco in gaelico significa spina.

“Ricordiamo – scrive Myriam Phliberth – che il termine gallese Draco significa anzitutto «spina»”. [xxxviii]

Conseguentemente “spina” potrebbe riferirsi al draco, al serpente, nel quale i Druidi si identificavano: “Je suis, dit l’un d’eux, un Druide, je suis un architecte, je suis un prophête, je suis un serpent“. [xxxix]

 

 

[i] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Piccinelli Edizioni.

[ii] Christian Jacq, La confraternita dei saggi del Nord, Età dell’Acquario

[iii] Paolo Diacono, Storia dei longobardi, Tea

[iv] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil

[v] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil

[vi] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil

[vii] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil

[viii] Alan Butler, Stephen De Foe – La verità sui Templari – I segreti dell’eredità cistercense, Ed. L’Età dell’Acquario

[ix] Federico Gasparotti, Ogam, l’alfabeto celtico degli alberi, Ilmiolibro.it

[x] Leda Berné, Le vergini arcaiche, Edizioni della Terra di Mezzo.

[xi] Colette Bèmont, A propos d’un noveau monument de Rosmerta, Perséè (Ministère de la junesse, de l’éducation nationale et de la recherche- France)

[xii] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer

[xiii] Da Ean Begg, The Cult of Black Virgin, Arkana, Londra citato in Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer

[xiv] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer

[xv] René Guénon, L’esoterismo di Dante, Atanor, pag. 21

[xvi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

[xvii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

[xviii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri – I Fianna – Edizioni Studio Tesi – Pordenone – 1986

[xix] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig – nota a pagina 156

[xx] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –

[xxi] Vedi la saga irlandese di Cu Chulainn, Mondadori a cura di Gabriella Agrati e maria Letizia Magini.

[xxii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig

[xxiii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig

[xxiv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –

[xxv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –

[xxvi] Ward Rutherford, Tradizioni celtiche, Tea

[xxvii] Berreford Ellis, Il segreto dei druidi, Piemme

[xxviii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

[xxix] Théodore Hersart del La Villemarqué, Barzhaz Breizh, Coop Breizh

[xxx] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone

[xxxi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

[xxxii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone

[xxxiii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone

[xxxiv] Nella cultura druidica il salmone è simbolo di conoscenza.

[xxxv] Jean Markale, I Celti, Mondadori

[xxxvi] Jean Markale, I Celti, Mondadori

[xxxvii] Hadingham, I misteri dell’antica Britannia, Newton, a pagina 98

[xxxviii] Myriam Philiberth, Da Kernunnos au roi Arthur, Ed. du Rocher

[xxxix] Deane pag. 254 citato in Eduard Panchaud, Le druidisme ou Religion del anciens Galois, Losanna, 1865

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  • MAKBENAK, MACBETH, SHAKESPEARE E LA LINEA REALE CELTICA DELLA MASSONERIA

    Silvano Danesi

    Nel rituale di iniziazione al grado di Maestro, dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “La carne si stacca dalle ossa”, frase che in ebraico, ci spiega Salvatore Farina, suonerebbe: “Makbenak”. [1]

    Il primo Sorvegliante conferma che il cadavere si disfa. Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Hiram è risorto, ossia è di nuovo in piedi.

    Cosa si nasconde dietro alla parte centrale della cerimonia di iniziazione ad un grado introdotto nel ‘600 ad opera di Elias Ashmole, massone e appartenente al Druid Order?

    “Il rituale del grado di Maestro – scrive infatti Farina – fu inizialmente preparato da Elias Ashmole alla fine del 1648” [2] e Ashmole “è considerato, nella tradizione druidica del Druid Order, come colui che ha trasmesso ai primi massoni speculativi l’iniziazione corrispondente alle tre funzioni tradizionali del druidismo”. [3]

    La chiave di comprensione di questo passaggio decisivo nel Rituale, dalla morte apparente alla resurrezione, potrebbe esserci fornita da William Shakespeare nel suo Macbeth.

    Ma andiamo con ordine e approssimiamoci alla chiave seguendo quanto Guy Trévoux scrive in proposito: “Esiste un termine bizzarro nell’iniziazione massonica al grado di Maestro, Mac Benac o Mac Benah. E’ il grido che avrebbero emesso i compagni di Hiram, partiti alla ricerca del suo corpo, dopo che seppero che era stato ucciso, alla scoperta del suo cadavere. E’ evidente che le spiegazioni tradizionali “la carne abbandona le ossa” o “il Maestro è colpito” non sono accettabili. Si è proposto persino “figlio della putrefazione”, ma un Massone italiano di cui non ricordo il nome, traducendo le due parole con il “figlio della linfa”, si avvicina più di ogni altro alla tradizione degli alberi. Del resto, nel manoscritto Prichard esiste un’altra espressione che precede l’esclamazione Mac Benac ed è Muscus Dominus, il “Maestro del Muschio” o “Maestro Muschio” (G.H.Luquet, Grado di Maestro e leggenda di Hiram – Rivista Le symbolisme, maggio-giugno 1955), che si riallaccia al mito del sotterramento del chicco prima della sua resurrezione sotto forma di pianta nuova, che pare più autentico di Mac Benac. «L’opera al nero» degli alchimisti è l’equivalente della leggenda di Hiram; è un riferimento ai mesi invernali, durante i quali il sole scompare, ed è il ricordo dell’interramento del chicco nell’oscurità della terra e o il suo passaggio nel ventre della gallina nera”. Una tradizione ebraica riporta che il cadavere di Adamo sarebbe stato sepolto nella grotta di Mac Pelah. Mac Pelah sarebbe, dunque, con tutta probabilità, la forma originale dell’errato termine massonico Mac Benac”. [4]

    La gallina nera è Karidwenn, archetipo della trasformazione e della rinascita, la cui ritualità ci riporta ai Riti Eleusini e Osiriaci.

    Interessante il riferimento ad un possibile Maestro del Muschio o Maestro Muschio. Ricordiamo che:

    Né pianta né albero,

    né fusto né foglia;

    è Muschio che crea Magia. [5]

    Maestro del Muschio o Maestro Muschio può andare benissimo come significato del termine Mac Benac, perché il Muschio crea magia.

    Esiste, a mio parere, un’altra possibile interpretazione relativa a Mac Benac o Mac Benah ed è che i due nomi siano la corruzione di Bethac, capo mitico e avo dei Fir Bolg e dei Tuatha De Danann, il cui significato è betulla.

    La betulla, come scrive Mircea Eliade[6], simboleggia l’Albero del Mondo in molte tradizioni sciamaniche. Per lo sciamano altaico è l’Albero del Mondo. Per gli sciamani buriati la betulla che si trova all’interno della tenda serve ad arrampicarsi e ad uscire dal buco del fumo, che coincide con quello che nel cielo è formato dalla stella polare. Presso altri popoli è chiamata Pilastro del Cielo. La betulla, quindi, albero cosmico, si trova al centro del mondo. Non è improbabile che la tradizione sciamanica, acquisita dalla cultura druidica, sia poi confluita nelle tradizioni libero muratorie.

    Sin qui le varie ipotesi, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre. Tuttavia, e con molta probabilità, la chiave che ci fornisce William Shakespeare è quella più significativa, in quanto ci riporta al cuore della trasmissione iniziatica ininterrotta che passa attraverso la regalità celtica e che si trasferisce agli Stuart, re scozzesi di sangue reale celtico.

    Per secoli la regalità celtica ha conservato la tradizione, ma nell’epoca delle guerre di religione tra protestanti e cattolici, la trasmissione si è fatta faticosa a causa delle pressioni delle varie correnti protestanti e dei cattolici.

    Giacomo I, che tentò un difficile equilibrio tra le varie fazioni, represse con durezza vari attacchi della nobiltà, sia cattolica, sia protestante e asserì il diritto divino della monarchia (Deus meumque ius). Privo dell’abilità di governo della cugina Elisabetta, alla quale era succeduto con un passaggio dinastico dai Tudor agli Stuart, Giacomo cercò invano di mediare tra le richieste del partito cattolico e di quello protestante, ma di fatto la tensione interna si accrebbe. Per rispondere alle richieste di riforma religiosa dei puritani, autorizzò una nuova traduzione inglese della Bibbia, nota come versione di re Giacomo; appoggiò inoltre i vescovi della Chiesa anglicana contro i riformatori radicali protestanti, ma la sua difesa del diritto divino della monarchia gli attirò l’ostilità dei cattolici, che organizzarono contro di lui la Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, nel 1605.

    La tragedia shakespeariana Macbeth è stata presentata per la prima volta nel 1606, ossia l’anno successivo alla Congiura delle polveri o Congiura dei Gesuiti, alla corte di Giacomo I d’Inghilterra (VI di Scozia) figlio di Maria Stuart e nipote di Elisabetta I.

    La tragedia narra di Macbeth, usurpatore del regno, dopo aver ucciso il suo legittimo re su suggerimento delle streghe che gli sono apparse e che gli hanno predetto il suo futuro.

    La tragedia si ispira alla vita di un re di Scozia, Mac Bethad mac Findlaich (1005-1057), anche se ne stravolge del tutto la figura e la storia e sembra accondiscendere alle esigenze di Giacomo I, che in due suoi scritti tenta di giustificare la propria condotta: il Basilikon Doron e la Daemonologie.

    Nel Basilikon Doron Giacomo I critica cattolici e puritani, in linea con la sua filosofia di seguire un “via di mezzo”, che si riflette nella prefazione del 1611 della Bibbia di Re Giacomo.

    La Daemonologie, scritta dal re nel 1597, è una dissertazione filosofica sulla negromanzia contemporanea e le relazioni storiche tra i vari metodi di divinazione utilizzati dall’antica magia nera e si pone come un trattato contro le streghe.

    Questo libro si crede sia stato una delle fonti primarie utilizzate da William Shakespeare nella produzione di Macbeth.

    Shakespeare ha utilizzato molte citazioni e rituali presenti all’interno del libro delle streghe, ma ha inserito nella sua tragedia anche temi scozzesi relativi ai fatti nei quali Giacomo è stato coinvolto.

    Assieme ad Alfredo il Grande, Giacomo I è considerato uno dei più colti sovrani sia d’Inghilterra sia di Scozia. Durante il suo regno continuò la straordinaria fioritura culturale dell’Età elisabettiana nella letteratura, nelle arti e nelle scienze, ma la sua ascesa al trono fu il frutto di una serie di lotte intestine al Regno di Scozia.

    La situazione della Scozia alla nascita di Giacomo non era delle più tranquille: l’autorità di Maria Stuart era precaria e tanto lei quanto il marito, entrambi di fede cattolica, dovevano fronteggiare il malcontento e le ribellioni dei nobili scozzesi, per lo più calvinisti; inoltre, anche il matrimonio della coppia reale fu costellato di difficoltà, sia sul piano politico, sia privato. Mentre Maria era incinta, Enrico si alleò con i ribelli e arrivò a dare l’ordine di assassinare Davide Rizzio, segretario personale e amico intimo della regina, di origini piemontesi.

    Giacomo nacque il 19 giugno 1566 e fu battezzato in una cerimonia cattolica. Quando Giacomo aveva solo otto mesi suo padre Enrico fu assassinato a causa di intrighi di corte, probabilmente seguenti la morte di Davide Rizzio. Dopo la morte del marito, Maria decise di sposarsi una terza volta, con James Hepburn, conte di Bothwell, sospettato di essere l’artefice dell’assassinio di Lord Darnely, la qual cosa rese ancora più impopolare la già impopolare regina.

    Nel giugno 1567 alcuni ribelli protestanti arrestarono Maria, che venne imprigionata nel castello di Loch Leven, dove fu costretta ad abdicare al trono, il 24 giugno, in favore del figlio Giacomo, che aveva poco più di un anno; a sostituire il giovane re durante la sua minor età sarebbe stato lo zio Giacomo Stuart, conte di Moray.

    Pur riferendosi ad un personaggio storico dell’undicesimo secolo, il Macbeth di Shakespeare sembra anche riferirsi, in modo evidentemente criptico, alle vicende di Giacomo I, assecondandone gli scritti, in particolare il Demonologia.

    Giorgio Melchiori, nell’introduzione al testo del Machbet nell’edizione dei Meridiani, [7]scrive che la leggenda di Banquo, assassinato da Machbet, il cui figlio Fleance fuggì in Galles e ne sposò la figlia, è servita ad attestare le nobili origini degli Stuart, i quali, peraltro, non ne avevano bisogno, in quanto come ho critto nel mio: “Le radici scozzesi della Massoneria”, nel 1286 “la Loggia di Kilwinning ebbe come Gran Maestro un Lord Stewart di Scozia, ossia un Regio Stewart (maggiordomo di palazzo), carica, divenuta ereditaria, istituita da re David ed assegnata a Walter fitz Alan, di discendenza bretone celtica e scozzese, la cui linea di sangue risale a re Alpin e ai Siniscalchi di Dol. Quando la figlia di re Robert Bruce sposerà Walter lo Stewart, dai maggiordomi di palazzo di discendenza regale avrà inizio la dinastia Stuart”. [8]

    Sotto il velame delle apparenze, Shakespeare, propone al lettore e allo spettatore delle rappresentazioni teatrali, in controluce, l’attenzione ad un personaggio che è un grande eroe scozzese.

    Mac Bethad mac Findlaech, o in inglese Macbeth (1005 – 15 agosto 1057), è stato re di Scozia dal 1040 al 1057.

    Ben poche informazioni sono note in merito alle origini ed ai primi anni di vita di Macbeth: figlio di Findlaech, Mormaer o capo della provincia di Moray, era nipote del re Kenneth II di Scozia e quindi apparteneva alla più alta nobiltà scozzese, essendo cugino tanto di re Kenneth III, tanto di Duncan I (suo diretto predecessore al trono di Scozia); della madre, invece, non è noto il nome od il lignaggio.

    Quanto al nome, Mac Bethad (o, in gaelico moderno, MacBheatha), ha significato di “figlio della vita” oppure di “uomo giusto”; secondo alcuni studiosi, tuttavia, il suo nome sarebbe una forma corrotta di Macc-Bethad (“Uno tra gli eletti”)

    Alcuni anni dopo la morte del padre (collocata attorno al 1020), Macbeth divenne Mormaer di Moray e in seguito sposò Gruoch Ingen Boite, unica figlia di Boite mac Cináeda, a sua volta figlio del re Kenneth III di Scozia.

    Nel 1034, re Malcolm II di Scozia fu ucciso in circostanze non chiarite a Glamis e il 30 novembre dello stesso anno, senza opposizione, fu eletto re Donnchad Mac Crínáin. Il nuovo sovrano, nominato in base ai principi della Tanistry, era un cugino, per parte di madre, del predecessore ed aveva detenuto il titolo di re di Strathclyde.

    Dopo alcuni anni tranquilli, nel 1039, lo Strathclyde fu attaccato dagli inglesi della Northumbria e Duncan, deciso a vendicarsi, condusse personalmente un raid di rappresaglia contro la città di Durham: la battaglia, però, fu un disastro e solo a stento il re riuscì a fuggire; approfittando della debolezza del suo sovrano, Macbeth si ribellò e reclamò la corona.

    Duncan tentò di reagire guidando una spedizione contro Macbeth ma, il 14 agosto 1040, fu ucciso a Bothnagowan (nei pressi di Elgin) in uno scontro armato dagli uomini di Macbeth.

    Dopo la morte di Duncan, Macbeth, sostenuto da quella fazione della nobiltà che si opponeva ai legami con gli anglo-sassoni, ascese al trono ma in ogni caso dovette affrontare l’ostilità degli uomini appartenenti al clan del suo predecessore: solo nel 1045, con l’uccisione di Crínán di Dunkeld, padre di re Duncan, il regno fu definitivamente pacificato.

    “Nonostante si fosse impadronito del potere assassinando il giovane e inetto sovrano Duncan – scrive Giorgio Melchiori – (del resto l’assassinio del predecessore era un sistema quasi normale di successione nella Scozia del tempo), fu per molti anni sovrano saggio e buon amministratore, fino all’invasione del paese da parte delle forze inglesi al comando del cognato di Duncan, Siward, con il pretesto di difendere i diritti alla successione di Malcom Canmore, figlio giovinetto di Duncan”. [9]

    Nel 1052 Macbeth fu involontariamente coinvolto nelle lotte che in Inghilterra vedevano coinvolti Godwin del Wessex ed Edoardo il Confessore quando decise di ricevere a corte un certo numero di esiliati Normanni. Nel 1054 Siward, conte di Northumbria, vassallo ed alleato di Edoardo il Confessore re d’Inghilterra, al quale Macbeth aveva rifiutato di rendere omaggio, per conto di Malcolm Clanmore, figlio di Duncan I, invase la Scozia.

    A Dunsinane, presso Perth, si svolse una enorme battaglia che, secondo gli Annali dell’Ulster, vide la morte di 4.500 uomini, 3.000 scozzesi e 1.500 inglesi; dopo aver perso la parte meridionale del proprio regno, Macbeth si ritirò nelle regioni settentrionali a lui fedeli dove resistette per altri tre anni all’avanzata inglese.

    Nel 1057 Macbeth fu infine sconfitto e mortalmente ferito da Macolm Ceann-mor, figlio di Duncan, presso Lumphanan, nell’Aberdeenshire; morì pochi giorni dopo a Scone, ove fu seppellito.

    A differenza degli scrittori successivi, nessuna fonte contemporanea rimarca Macbeth come un tiranno: il Duan Albanach (Canzone degli Scoti), un poema in gaelico irlandese composto da 27 stanze, trovato insieme al Lebor Bretnach (una versione in gaelico della Historia Brittonum di Nennio, che presenta un vasto materiale aggiuntivo, soprattutto riguardo alla Scozia), lo cita come “Mach Bethad il Rinomato”, la Profezia di Berchán lo descrive come un re generoso e munifico.

    Scritto durante il regno di Mael Coluim III (metà dell’XI secolo), il Duan Albanach  si basa su una grande varietà di fonti irlandesi. La versione più comune proviene dai Libri di Lecan and Ui Maine degli inizi del XV secolo. La sua narrazione continua quella del Duan Eireannach, che narra la più antica storia mitologica dei gaelici.

    Il Macbeth storico, pertanto, è un eroe della resistenza gaelica agli anglosassoni ed è un re di sangue reale celtico, erede della Tradizione.

    Ora proviamo a riscrivere il Rituale di Maestro usando la chiave fornitaci da Shakespeare e probabilmente abilmente messa in modo criptato da Elias Ashmole nel cuore dell’iniziazione.

    Dopo che il corpo di Hiram è stato ritrovato e dopo che è stato portato all’interno del “recinto dei lavori”, il candidato, che impersona a quel punto del Rituale il Maestro defunto, viene preso per l’indice della mano destra dal secondo Sorvegliante, il quale, facendo un tentativo di risollevarlo e vedendo che il dito gli sfugge, dice: “E’ Mac Bethad”.

    Il primo Sorvegliante afferma che è cadavere.

    Tutto sembrerebbe perduto, ma a quel punto il Maestro Venerabile, che guida la cerimonia, dice: “Non è così Fratelli miei che arriverete a rialzare il nostro Maestro. Non vi rammentate che l’unione fa la forza e che senza il soccorso degli altri noi nulla possiamo?”.

    L’unione dell’azione del Maestro Venerabile e dei due Sorveglianti, a quel punto, risolleva il candidato. Mac Betadh è risorto, ossia è di nuovo in piedi. La tradizione non è morta; è di nuovo attiva.

    Cosa ci dice Ashmole in chiave shakespeariana? Ci dice che nonostante le guerre di religione e la confusione creatasi con gli ultimi Stuart, allorquando questi si sono fatti invischiare nelle guerre di religione, Mac Bethad o se si vuole Mac Beth, l’eroe, il re celtico è risorto, è in piedi, perché, grazie ai tre Maestri, la Tradizione continua, ininterrotta, nella ritualità massonica.

     

    [1] Salvatore Farina, il Libro completo dei Riti Massonici, Gherardo Casini Editore

    [2] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Edizioni Piccinelli, 1946

    [3] Michel Raoult, Les druides- Les socié tes initiatiques celtiques contemporaines – Edizion du Rocher

    [4] Guy Trévoux, Lettere, cifre, dèi – Ecig

    [5] Citazione in: Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Ed. Dell’Acquario

    [6] Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi

    [7] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

    [8] Silvano Danesi, Le redici scozzesi della Massoneria, ilmiolibro.

    [9] Introduzione al Macbeth di Giorgio Melchiori, i Meridiani, Mondadori

  • MASSONERIA, CREDERE O CONOSCERE?

    di Silvano Danesi

    Tommaso D’Aquino (De fide), scrive che “l’assenso fideistico non è determinato dalla cogitazione, ma dalla volontà”. Agostino d’Ippona scrive che “La fede consiste nella volontà di chi crede” (De praedestinatione sanctorum).

    Si crede perché si vuole credere.

    Quanto affermano i due dottori della Chiesa può ben valere per chi crede, volendo credere, nella divinità di Gesù, ma mi riesce difficile applicare i concetti di Tommaso d’Aquino e di Agostino di Ippona ai Massoni in rapporto alla Massoneria, salvo che credere, poiché, come dice sempre l’Aquinate “imprigiona l’intelletto”, renda più comoda e rassicurante la via della credenza di quella della conoscenza.

    Il Rituale di 4° Grado “Maestro Segreto”, primo del Rito Scozzese Antico ed Accettato, prescrive a chi lo frequenta l’obbligo dello studio della Libera Massoneria, riguardo alla sua storia.

    Un Massone dovrebbe, pertanto, studiare la storia della Massoneria e non abbandonarsi alla credenza nelle favole, contrabbandate per verità storica, soprattutto quando queste sono facilmente smascherabili se si studia, anziché frequentare le Logge con atteggiamenti fideistici o di comodo acquietamento, contenti di non aver dovuto compiere alcuno sforzo.

    Capita così che si continui a scrivere che Federico II è stato il sovrano che ha firmato il documento fondante del Rito scozzese, quando è accertato che l’attribuzione al regnante illuminista e amico dei Gesuiti è un falso.

    Capita così che si accetti acriticamente la favola inglese hannoveriana che la Massoneria è nata nel 1717 quando in una taverna londinese si sono riunite quattro Logge.

    Il 1717 non è l’anno di nascita della Massoneria e nemmeno della Massoneria moderna, ossia di quella odierna, che ha radici ben più antiche, ma quello della Massoneria dei “Modern”, voluta dalla dinastia protestante degli Hannover, dopo che la dinastia cattolica degli Stuart era stata sconfitta ed esiliata.

    Il 24 giugno del 1717 è pertanto il giorno nel quale si è creata una frattura nella tradizione massonica, subito stigmatizzata dagli “Antient” e che ha portato, nel corso del XVIII secolo, al proliferare di varie associazioni sedicenti massoniche.

    In dissenso esplicito con la Gran Loggia del 1717, il 17 luglio del 1751 gli “Antient” diedero vita, nella taverna Turk’s Head, in Greek Street, nel Soho, inizialmente in forma di Comitato, alla “The Most Honourable Society of the Free and Accepted Masons according of the Old Institution”.

    Se la Gran Loggia del 1717 diede ad un pastore protestante l’incarico di scrivere le regole della Massoneria “Modern”, quelle dell’Istituzione degli “Antient” furono affidate al cattolico Laurence Dermott, che le rese pubbliche con il nome di Ahiman Rezon.

    Se la Gran Loggia del 1717 era formata e diretta da aristocratici e da ricchi borghesi in ansia di promozione sociale, quella degli “Antient” rivendicava una composizione sociale prevalentemente legata ai mestieri, ossia all’autentica tradizione massonica.

    Contemporaneamente a queste due Gran Logge, continuavano ad esistere, in modo del tutto indipendente, la Gran Loggia d’Irlanda e la Gran Loggia di Scozia.

    La Gran Loggia d’Inghilterra divenne “unita” solo nel 1813, ma nel frattempo, in ambito “Antient” in America era nato il Rito Scozzese.

    Quello che nel corso del Medio Evo e del Rinascimento era stato un fenomeno unitario, che si era alimentato mantenendo vive le radici con il passato originario della sapienza egizia, nei tre secoli successivi a quel 24 giugno del 1717 si è trasformato in un coacervo di istituzioni spesso in contrasto tra di loro e tutte proclamantesi vere eredi della tradizione massonica.

    La storia della Massoneria, pertanto, non ha inizio nel 1717, anno in cui gli Hannover, dopo aver loro espropriato la corona hanno tolto agli Stuart anche la radice massonica scozzese e nemmeno nel 1768, quando, secondo una leggenda, che tale è e tale rimane, Federico II di Prussia avrebbe emanato le Costituzioni del Rito Scozzese Antico ed Accettato, che non è la Massoneria, ma un percorso iniziatico che prosegue la riflessione partendo dai fondamentali, questi si autenticamente massonici, dei tre gradi simbolici: Apprendista, Compagno, Maestro. Su questi argomenti ho scritto e pubblicato testi ai quali rinvio chi volesse approfondire il mio pensiero in merito. (Vedi in proposito il mio: “Le radici scozzesi della Massoneria).

    Anche i landmarks sono riferimenti controversi e opinabili.

    La prima questione da chiarire riguarda i landmarks (punti di riferimento, pietre miliari, segni di confine).

    Al capitolo VII del suo celeberrimo ed opinabile testo sui Rituali, Salvatore Farina cita i landmarks, parola che appare per la prima volta nelle Ordinanze Generali approvate il giorno di San Giovanni Battista del 1721 a Londra. Dei landmarks, la cui origine risale al pastore protestante Anderson, che scrisse le regole della Massoneria hannoveriana, sono state redatte, in seguito, molte versioni, tra di loro diverse e spesso tra di loro discordanti.

    A proposito dei landmarks, un confine preciso e inequivocabile va tracciato tra questi e gli Old Charges.

    Gli Old Charges non possono infatti essere identificati con i landmarks e nemmeno con le Costituzioni del 1723 ” i cui autori – scrive René Guénon – si impegnarono, per quanto possibile, a far sparire proprio gli Old Charges, vale a dire i documenti dell’antica Massoneria operativa”. [1]

    Da una recensione della bibliografia internazionale, risulta possibile rintracciare numerosi elenchi di landmarks (in genere identificati con il nome di chi li ha stilati) pubblicati a partire dalla nascita della cosiddetta Massoneria cosiddetta speculativa e successivamente adottati, parzialmente o completamente, da numerose Grandi Logge o dai Grandi Orienti del mondo. I più noti sono quelli di:

    1) John W. Simons, con 1S Landmarks (1864);

    2) Luke A. Locwood, con 19 Landmarks (1867);

    3) H. B. Grand, con S4 Landmarks (1894);

    4) Albert J.G. Findel, con 9 Landmarks

    S) Alèxander S. Bacon, con 3 Landmarks (1918);

    6) Roscoe Pound, con 7 Landmarks (1921);

    7) Joseph D. Evans, con 10 Landmarks (1923);

    8) Harry Carr, con cinque Landmarks;

    9) Albert Mackey, con 2S landmarks (18S8);

    10) Rob Morris, con 17 Landmarks (18S6);

    11) Landmarks della Gran Loggia del Minnesota.

    Nei landmarks Dio e anima sono concetti controversi.

    Di alcuni di questi landmarks riporto le parti riguardanti Dio e l’anima.

    Landmarks di Harry Carr -Il massone deve professare la fede in Dio, Grande Architetto dell’Universo. Il Volume della Legge Sacra deve essere presente in loggia e accessibile a tutti. Il Massone crede nell’immortalità dell’anima.

    Landmarks di Rob Morris -La legge di Dio è la norma e il limite dalla Massoneria.

    Landmarks secondo Albert G. Mackey -Credenza nella esistenza di Dio quale Grande Architetto dell’Universo. Credenza di una resurrezione ad una vita futura.

    Landmarks secondo Roscoe Pound -Monoteismo, il solo dogma della Massoneria. Credenza nell’immortalità, la conclusiva lezione di filosofia della Massoneria. Il Volume della Legge Sacra, parte indispensabile dell’arredo della Loggia.

    Landmarks della Gran Loggia del Minnesota -Che una credenza nel Supremo Ente, il Grande Architetto dell’Universo, che punirà il vizio e premierà la virtù, è un indispensabile prerequisito per l’ammissione in Massoneria.

    Landmarks Albert J.G. Findel -Il candidato all’iniziazione deve confessare un culto universale, quello della legge morale, professato da tutti gli uomini indistintamente quali che siano le loro convinzioni religiose o le loro idee metafisiche particolari.

    Landmarks secondo i Fratelli Chalmers (citazione del Farina) – A proposito di Dio affermano: “il credere nell’esistenza di Dio, il credere nella resurrezione dei corpi e nella vita futura”.

    Pare del tutto evidente che siamo di fronte a tali differenze concettuali che i landmarks diventano un insieme di affermazioni assolutamente e totalmente inutili ad essere effettivamente dei landmarks, ossia delle pietre miliari, in quanto sono frutto di opinioni assai diverse e opinabili.

    Dio e anima nelle formule di conventi e conferenze

    Il Convento dei Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato di Losanna 1875 (6-22 settembre) affermò: “La Libera Muratoria proclama, come ha sempre proclamato fin dalla propria origine, l’esistenza di un principio creatore sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”. E aggiunge: “Non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a ognuno questa libertà che esige da tutti la tolleranza.  La Massoneria è, dunque, aperta agli uomini di ogni nazionalità, di ogni razza, di ogni credenza”.

    La formulazione fu contestata nella Conferenza Internazionale dei Supremi Consigli di R.S.A.A. del 1907 a Bruxelles e dalla Conferenza internazionale tenutasi a Baranquilla (Colombia) nel 1970, che rimandò ai regolamenti del 1762 (Parigi – Berlino) e alla Costituzione del 1786 (Federico II).

    Nelle Costituzioni di Bordeaux 1762 si legge: “Siccome la Religione è un culto necessariamente dovuto a Dio Onnipotente, nessuna persona sarà iniziata ai misteri sacri da questo eminente grado, se non soggiace ai doveri della religione della nazione in cui deve indispensabilmente aver ricevuto i venerabili principi; e che questo deve essere certificato da tre Cavalieri Principi Massoni;….”.

    E’ noto, inoltre che Albert Pike (riformatore americano del Rito scozzese) rifiutò le dichiarazioni di Losanna e diede del Rito Scozzese una propria interpretazione, riformandone i rituali.

    L’insieme delle diverse formulazioni, sia dei landmarks, sia delle varie conferenze e conventi internazionali del Rito scozzese, nonostante risentano dell’influenza giudaico-cristiana, propone alla riflessioni due questioni. L’immortalità dell’anima e il concetto del divino come Grande Architetto dell’Universo. Due questioni che meritano di essere al centro dei lavori massonici senza cadere nella tentazione di abbracciare questa o quella religione.

    Riguardo alla questione dell’anima, il convegno del 23 marzo 2019, dal titolo: “La scienza dell’anima” ha come intento l’approfondimento di una questione che riguarda da vicino ognuno di noi. Per quanto riguarda questa questione rimando agli articoli pubblicati su questo sito.

    Un approfondimento delle questioni dell’anima e del divino parrebbe necessario, anzi, direi, indispensabile, ma necessita dell’acquisizione del dato che Federico II non è stato il fondatore del rito e nemmeno colui che lo ha fornito delle sue Costituzioni. La questione di Federico II, simbolo del connubio tra un despota illuminato e i gesuiti, va consegnata alla leggenda, perché tale è e rimane.

    Riportare alla verità storica la questione di Federico II libera l’interpretazione dei Rituali scozzesi dall’influenza gesuitica che su di essi grava.

    Infatti, nonostante i tentativi di manipolazione per costringere il Rito scozzese in una cornice giudaico-cristiana, questo mantiene una sua indubbia validità se, sotto il velame di una prima e superficiale lettura, si cercano i significati nascosti. Compito che è dei Massoni, dei frequentatori del Rito, ma anche di chi abbia voglia di cimentarsi pur essendo estraneo sia alla Massoneria, sia al Rito scozzese.

    La questione dell’ateismo

    Una delle questioni che emerge dalle varie affermazioni dovute alle Conferenze internazionali del Rito, ma anche delle Costituzioni redatte dal pastore protestante Anderson, è l’ateismo

    Nella Dichiarazione dei Principi approvata dal Convento dei Supremi Consigli Confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875, alla quale il R.S.A.A. si riferisce, si legge (citazione del Farina): “La Massoneria proclama, come ha sempre proclamato sin dalla sua origine l’esistenza di un principio creatore, sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo”.

    Nelle Costituzioni di Anderson è scritto: “Il massone è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai uno stupido ateo né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore e onestà, quali che siano le denominazioni che li possono distinguere; per questa ragione la Muratoria diviene il Centro di Unione, il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti”.

    Se analizziamo le Costituzioni di Anderson e le dichiarazioni del Convento dei Supremi Consigli Confederati di Losanna del 1875, ci troviamo necessariamente a confrontarci con l’affermazione che che un massone non sarà mai un ateo stupido.

    L’affermazione di Anderson consta di un sostantivo (ateo) e su un aggettivo (stupido). Non è lecito supporre che l’aggettivazione sia pleonastica e, pertanto, va analizzata con la necessaria attenzione.

    “Per i Greci – scrive in proposito Roberto Calasso -, átheos era innazitutto chi è abbandonato dagli dèi, non chi si rifiuta di credergli, come rivendicano fieramente i moderni”. [2] “I Greci – aggiunge Calasso -, sapevano chi erano e che cosa erano gli dèi. Più che credere agli dèi li incontravano”. [3]

    L’aggettivo stupido deriva dal latino stupere, sbalordire; dalla radice *(s)tup, da cui il greco týpto (io batto), il sanscrito tupami (colpisco). Stupidus, da stupeo, significa: stordito, attonito, senza senso.

    Essendo abbandonato dagli dèi, ossia dalle potenze dell’essere, che si mostrano come archetipi (il cui linguaggio è quello dei simboli), non essendo più capace di incontrarli, in quanto incapace di rapportarsi ad essi, avendo perduto la chiave del loro linguaggio, l’essere umano è attonito, stordito, sbalordito, senza senso ed essendo senza senso è disorientato.

    Ma cos’è il senso? E’ il Logos.

    Nel frammento 50, il pagano Eraclito, a proposito del Logos, afferma, nella traduzione di Diels: “Se non hanno inteso, non me, ma il senso, è saggio dire, secondo il senso (logoV) che tutto è uno”. [4] “Il movimento dell’intervento, che governa nella mobilità delle cose – commentano Heidegger e Fink –, accade in modo conforme al logoV”. [5]

    L’ateo stupido ha perso il senso; ha perso il Logos; ha perso la parola. Ecco la parola perduta: il Logos incompreso, la perdita del senso.

    Il massone, in quanto il percorso iniziatico lo mette continuamente a contatto e a colloquio con gli archetipi e con i simboli, non sarà mai uno stupido ateo; non è infatti abbandonato dagli dèi e rapportandosi ad essi incontra e ascolta e accoglie il Logos, azione dell’Arché.

    Gli dèi, potenze dell’Essere, sono archetipi, impronte, sigilli, marchi dell’Arché, ossia dell’Origine.

    “La ragione, il sapiente, il Logos e concetti affini non sono – scrive Eugen Fink – capacità soggettive, ma sono primariamente potenze che vigono attraverso il mondo, potenze cui l’uomo può prendere parte”. [6]

    Tuttavia, come spesso avviene quando si ha a che fare con documenti riguardanti il mondo iniziatico, non ci si può accontentare di una sola interpretazione.

    Se, infatti, l’interpretazione della frase relativa allo stupido ateo è che il massone deve credere in Dio, essa ci appare grossolana.

    Non ci possiamo accontentare nemmeno di quella che ci presenta il massone come conoscitore si simboli e di archetipi e, in quanto tale, in collegamento con il divino.

    La questione è, infatti, quella del Fondamento, ossia dell’Archè. Quell’Archè con la quale ogni qual volta si aprono i lavori di una Loggia massonica i massoni sono costretti a confrontarsi in quanto sull’Ara è presente nel Prologo del Vangelo di Giovanni nella sua fondante accezione di Principio, di Fondamento, di Origine della quale il Logos è azione improntante. Nel Vangelo di Giovanni è presente il binomio informazione-energia. E qui la questione del divino incontra non solo religioni, archetipi, miti, simboli, ma anche la scienza.

     

    [1] René Guénon, Etudes sur la Franc Maçconnerie et le Compagnonnage, Ed. Traditionelles, Paris, 1964

    [2] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [3] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi

    [4] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [5] Citato in Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, Laterza

    [6] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donelli editore

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (3)

    di Silvano Danesi

    Il “Nome Indicibile”

    Nella leggenda del 13° grado, non è conservata la “Parola Indicibile”, ma il “Nome Indicibile” dell’Essere supremo, del quale è smarrita la chiave della pronuncia, incisa su una colonna di marmo.

    In questo caso è il marmo a darci un indizio. Il marmo, carbonato di calcio, è pietra e pertanto il “Nome indicibile” dell’Essere supremo è inciso nella pietra.

    La pietra è simbolicamente la Natura (vedi il mio: Tu sei Pietra”) e il “Nome ” dell’essere supremo, che nominandosi si fa ente ed evidente nella Natura, è la serie infinita delle infinite determinazioni dell’Essere negli enti.

    Come direbbe il taoista: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”. E ancora: “«Non-essere» è il nome che diamo all’origine del cielo e della terra, «essere» è il nome che diamo alla madre di tutte le creature…..Pur avendo nomi differenti, i due hanno origine comune. Ciò che hanno in comune, lo chiamano «oscuro», oscuro e ancora più oscuro, la porta di tutti i portenti”.

    In un quadro di Nicolas Poussin, I pastori in arcadia (1640 circa), ispirato dal gesuita Athanasius Kircher, su una tomba di marmo si legge: “Et in arcadia ego”.

    Ben oltre ogni fantasmagorica interpretazione, il significato è abbastanza chiaro. Il Logos determina, manifesta, il Nascosto nell’arcadia, ossia nella Natura.

    L’Arco Reale

    Interessante è anche la similitudine dei luoghi dove sono custoditi la “Parola indicibile” e il “Nome indicibile”: la prima nell’Arca e la seconda sotto un arco.

    L’Arca, radicale di Arc-Alc ha il significato di riposo, protezione (sanscrito Raksami) è indicativo di una linea curva, di un gomito.

    Arco e Arca ci introducono ai misteri dell’Arco Reale.

    La prima chiara menzione dell’Arco Reale è del 1744 (Massimo Graziani, Il rito di York, Bastogi) e, come scrive ancora Graziani, il “primo rituale che può essere ricondotto all’Arco Reale fino ad ora scoperto risale al 1760 circa ed è incluso in un manoscritto francese della collezione di Heaton-Card che si trova nella biblioteca della Freemasons’ Hall ed è scritto in francese. Nella parte relativa ad un originario cerimoniale, si parla di una camera sotterranea sostenuta da nove archi, che si raggiunge scendendo nove gradini e che viene aperta e chiusa bussando nove volte. Una luce indica il cammino verso la camera sotterranea. Nella spiegazione della tavola di tracciamento si dice che il sole è la vera luce che serviva a guidare i nove Fratelli che avevano scoperto grandi segreti; sulla tavola sono dipinti nove archi, la volta di una camera sotterranea e i nove gradini “che servivano a scendervi dentro”, una pietra con un anello che chiude la camera, una torcia spenta dal sole del simbolismo dell’A.R., un vassoio triangolare d’oro che reca il Nome Sacro”. [1]

    “Nei documenti anora rimasti anteriori al 1723 – scrive in proposito Laurence Gardner – anno dell’uscita della Costituzione massonica di Anderson, si precisa non meno di 23 volte che il Capitolo dell’Arco Reale altro non fa che perseguire l’Arte Reale, parole che sempre vengono scritte in evidenza, in carattere maiuscolo o corsivo. Sin dall’inizio, d’altra parte, si pone la domanda: «Da dove deriva la linea dell’arco?». Cui segue la risposta dell’affiliando: «Dall’arcobaleno». Vale a dire una risposta perfettamente allineata con il concetto di «luce ricurva»”. [2]

    Abbiamo dunque in evidenza il concetto di luce ricurva dell’arcobaleno, ponte tra il cielo e la terra.

    Qui giunti si rendono necessarie alcune precisazioni.

    La massoneria del Real Arco è confusa con il Rito di York, è “pervasa dal più intransigente puritanesimo” (Porciatti) e alla sua fortuna hanno “contribuito probabilmente i Gesuiti” (Porciatti).

    Il Rito dell’Arco Reale si è sviluppato in ambiente Antient, che ha rivendicato anche la paternità del Rito di York, ma il Rito di York originario evoca radici ben più antiche connesse con la presenza in Scozia dei Culdei.

    “I Culdei di York – scrive Leadbeater – erano fra i guardiani della tradizione massonica del Decimo secolo e gli Antichi Doveri ricordano un’assemblea di massoni che si tenne a York durante il regno di Athelstan in cui l’arte fu riorganizzata”. [3]

    “Una linea di tradizione degna di essere menzionata – aggiunge Leadbeater – connessa in certo modo con la massoneria di mestiere, ma ancor più con l’Ordine Reale di Scozia e il 18° grado si trovava tra i Culdei d’Irlanda, di Scozia e di York”. [4]

    I Culdei erano monaci cristiani di ascendenza druidica e tra gli iniziati dei riti culdei Iona, uno dei centri antichi del druidismo, era chiamata Heredom (denominazione alla quale si riferisce il Rito di Perfezione nato in Francia in ambito giacobita). L’isola di Iona, infatti, uno dei cuori della chiesa cristiano celtica, era chiamata dagli isolani Inis nan Druidhneah (l’isola dei Druidi), intendendo che prima della venuta di San Columba nel 563 d.C. eran un centro dell’antica devozione druidica.

    Il regno celtico di Dalriada è durato fino al tempo di Giacomo VI, erede di un Giacomo, Lord Stuart di Scozia, che fu Gran Maestro di una Loggia costituita a Kilwinning nel 1286 subito dopo la morte di Alessandro III (Leadbeater).

    E’ del tutto evidente che il Rito Scozzese è maturato nell’ambiente della corte stuardista in esilio in Francia e la linea stuardista conduce a York, alla tradizione culdea e al druidismo.

    Il riferimento all’Arco reale, confuso con il Rito di York in versione Antient, va pertanto rivisitato in un’altra chiave e questa può essere rinvenuta, come afferma Porciatti, “nell’austera veste” del Rito Scozzese.

    Fatte queste necessarie considerazioni, credo si possa andare oltre l’orizzonte giudaico-cristiano, non solo nella direzione culdeo druidica, ma anche, com’è giusto che sia, in quella di altre grandi tradizioni iniziatiche, come l’egizia.

    Ci si riferisce spesso all’Arco Reale del Tempio di Salomone, ma nella Bibbia non c’è traccia di questo arco, anche se Ezechiele nella sua visione del secondo tempio cita spesso gli archi che abbracciavano le colonne intorno ai vari cortili.

    “Invece di riferirsi alla loggia del Tempio salomonico di Hiram Abiff (come è nel conseguimento del terzo grado massonico), il rituale dell’Arco Reale – scrive Gardner – si focalizza su un evento ancora precedente; si collega a quella che è considerata la prima autentica loggia, la loggia «del Monte Horeb nel deserto del Sinai», presieduta da Mosè in persona, Abihu (uno dei figli di Aronne) e Bezaleel, l’artefice”. Gardner ipotizza che l’Arca dell’Alleanza fosse uno strumento che producendo un Arco Reale fosse in grado di creare la sacra pietra (manna) ricavata dalla polvere bianca ottenuta dall’oro. Una polvere superconduttiva denominata Ormus o Mfkzt. E Ormus è nome che è strettamente connesso con il Priorato di Sion e con i Templari (vedi in proposito il mio: Tu sei Pietra).

    A 800 metri di altezza, nella piana sabbiosa di Paran, c’è il monte Horeb, il monte di Mosè. Oggi la località è chiamata Serâbit el Khâdim. L’archeologo Petrie scoprì su una piattaforma di circa settanta metri, partendo da una vecchia grotta artificiale, le rovine di un vecchio tempio della IV dinastia attivo già al tempo del faraone Snefru, nel 2600 a.C. e rimasto attivo fino al XII secolo a.C. I reperti partono dalla IV dinastia e arrivano alla XVIII e ai Ramessidi della XIX. Il tempio era quindi ancora attivo al tempo di Akhenaton, da molti studiosi ormai messo in relazione diretta con il Faraone di Tel Amarna, propugnatore del monoteismo. Il tempio era dedicato ad Hator.

    La polvere MFKZT, trovata dall’archeologo Flinders Petrie sul monte Horeb, attualmente Serabit El Khadim, nel tempio di Hator, è stata fortunosamente ricavata recentemente. David Hudson, un coltivatore americano che voleva ammorbidire il suo terreno con dei componenti chimici, prima di effettuare l’operazione decise di far analizzare dei campioni. Durante le analisi si verificò uno strano fenomeno: il residuo secco esposto alla luce del sole e al calore generava un lampo di luce bianca, accecante e svaniva. Nel crogiolo, dove il campione era stato miscelato con del piombo, rimaneva un amalgama pesante, ma fragile, che si sbriciolava al colpo del martello. Analisi più specifiche, condotte presso l’Accademia sovietica delle scienze, evidenziarono la presenza di palladio, platino, rutenio, iridio: tutti elementi del gruppo del platino. Era la polvere MFKZT. Quando mutava il suo aspetto da scura a bianca sfolgorante, la sostanza si tramutava in polvere e il suo peso scendeva fino al 56% di quello iniziale. Dove finiva il 44%? Si comprese in seguito che levitava e trasferiva la sua leggerezza agli oggetti con cui veniva a contatto, che, in alcuni casi, levitavano anch’essi. La polvere si comportava come un superconduttore. Il campo magnetico terrestre è in grado di fornire energia a un superconduttore facendolo levitare e questo, quando levita, si comporta come un riflettore di luce. Inoltre, nel caso di due superconduttori attivi in collegamento, si verifica un altro fenomeno, detto “coerenza quantica”, durante il quale avviene il trasferimento di luce fra i due. E’ stata studiata la possibilità che con un superconduttore mono atomico, proprio come la polvere MFKZT, si possa costruire una batteria energetica che una volta attivata dura all’infinito. Altri studi hanno portato a prevedere la possibilità, con l’utilizzo della polvere monoatomica, di distorcere lo spazio tempo. La MFKZT risuona in una dimensione differente e in determinate circostanze diventa invisibile. Quando il peso del campione analizzato toccava lo zero, il campione svaniva materialmente per riapparire applicando il processo inverso. Distorcere lo spazio tempo vuol dire, ad esempio, che se ad un’astronave si espande lo spazio tempo nella sua parte posteriore e lo si contrae nella parte anteriore, questa può compiere enormi quantità di spazio in pochissimi millesimi di secondo. La distorsione dello spazio tempo veniva chiamata dagli antichi Egizi piano di Shar On o Campo di MFKZT. Si tratta del campo delle super stringhe, dove la materia entra e esce dal mondo che conosciamo. Non vediamo più la luce dell’oggetto, che diviene invisibile.

    Si è anche scoperto che i metalli del gruppo del platino monoatomico entrano in risonanza con il DNA e possono avere effetti curativi sul cancro, rettificando le cellule malate. Infine, quando la polvere ricavata dall’oro o dal gruppo del platino viene sottoposta a temperature particolari, si trasforma in vetro, colorato a seconda del metallo usato. Un vetro limpido trasparente senza la perdita di luce.

    L’Egitto ci riserva molte sorprese.

    “Una delle parole chiave simboliche trattate nell’Arco Reale – scrive Gardner – una parola che la tradizione dice essere stata scoperta nella grande cripta che stava sotto al primo Tempio, emersa nell’atto dell’erezione del secondo, quello voluto dal principe Zorobabale, è Jah-Bul-On. Trovata incisa su una placca dorata, la parola è una contrazione sintetica di una combinazione di parole che vogliono dire: «Io sono il Signore, il Padre di ogni cosa». Nella Massoneria questa definizione si riferisce al Grande Architetto dell’Universo. Scomponendola, scopriamo che Jah lo ritroviamo nel Salmo 68:4 (“Io sono”), Bul era un vocabolo canaanita (“Signore”) e On sta per “Casa del Sole”, che in traduzione suona come: «Io sono il Signore On». Ma, come sappiamo, il termine On (così come menzionato in Genesi 41:45 in riferimento alla città sacra di Heliopolis) aveva uno specifico legame con il concetto di Luce. Una versione completa e più accurata del nome è senz’altro: «Io sono il Signore della Luce»”.

    Heliopolis ci riporta alla IV e alla V dinastia e ai Testi delle Piramidi, che si vorrebbero trascritti dal faraone Unas sulla base di testi antichissimi.

    L’Arco Reale, se andiamo oltre il ristretto orizzonte giudaico cristiano nel quale è stato costretto da una cultura protestante hannoveriana e cattolico giacobita, ci conduce, pertanto, nel più profondo dei misteri d’Egitto e di quell’Arca che Manetone, sacerdote egizio, diceva essere strumento sacro sottratto dagli Ebrei in fuga (o meglio da Akhenaton, alias Mosè, mandato in esilio dal sacerdote Ay, retauratore del culto di Amon).

    “Nella più moderna Massoneria – scrive Andrew Sinclair – pochi alti gradi erano ambiti come quello del Santo Arco Reale di Gerusalemme, i cui misteri furono trasmessi dal Rito Scozzese Antico, portato in Francia dai Giacobiti all’inizio del XVIII secolo….”. [5]

    Siamo in presenza di indicazioni che invitano ad approfondimenti relativi ad una catena iniziatica e sapienziale che nell’Egitto del grande Thoth ha avuto uno dei suoi periodi di massimo splendore e che i Templari hanno con tutta probabilità recuperato in parte.

    [1] Marino Graziani, Il Rito di York, Bastogi

    [2] Laurence Gardner, I segreti della Massoneria, Newton Compton

    [3] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [4] Charles W Leadbeater, La massoneria e gli antichi misteri, Atanor

    [5] Andrew Synclair, Rosslyn, la cappella del Graal, Ed. Età dell’Acquario

  • IL 14° GRADO, L’ARCO REALE E I MISTERI DI THOTH (2)

    di Silvano Danesi

    Ark-ka, un canto pieno di gioia

    L’oscura origine è l’arché, la racchiusa, la tenebra e il canto è la sua parola, ossia il Logos, che è ark-ka (l’arca dell’alleanza, l’arc en ciel, il ponte). L’arco, l’arcobaleno, l’Arco reale, è la parola sapiente del dio.

    Dionigi Areopagita parla del divino come di colui che ha posto nelle tenebre il proprio nascondiglio, luogo ove “i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia”, ossia del parlare del divino, “sono svelati nella caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente”. [i]

    Bernardo Silvestre (Schola di Chartres), nel suo commento al “De Nuptiis” di Marziano Capella scrive. “In una certa traduzione della Genesi si legge che lo spirito del Signore covava le acque; e «acque» e «abisso» significano l’insieme degli elementi non ancora reso splendente dal suo ornato: e su di esso, come una chioccia sull’uovo rotondo, perché ne esca il pulcino, incombeva lo spirito di Dio, mentre preparava quella materia a produrre da sola i viventi”. [ii]

    La Genesi inizia con la parola Bereshit. Beit ha il significato di forma, di casa, di recipiente: è la prima lettera della Torà, la lettera della creazione. Reshit ha il significato di primazia, di principio di qualcosa (resh è testa, rosh è capo). Barà è creare, dividere.

    Bereshit, quindi, contiene in sé il concetto di un contenitore di un principio, di una casa di un principio. Bereshit è la potenza del pensiero contenuta in un contenitore. La seconda parola della Bibbia è il verbo barà, ossia dividere. Il puro pensiero si stacca dal suo contenitore.

    Il puro pensiero, anche in questo caso, reso con una parola che inizia con il suono R, è pensiero in movimento.

    La serie runica che precede Raidô rappresenta “il soffio non ancora modulato, non ancora divenuto parola”[iii] , la potenza del Caos non ancora ordinato dalla parola ordinante del Verbo, la “potenza racchiusa nella «pietra» che può essere ridestata e ordinata”[iv] e il soffio vitale, l’energia divina che anima il cosmo.

    Siamo, con tutta evidenza, di fronte al racconto sapienziale della manifestazione.

    Il tema della Parola come agente della manifestazione è stato, non a caso, introdotto, sia pure in epoca tarda, nei rituali massonici con l’utilizzo del Vangelo di Giovanni aperto al Prologo e che costituisce, alla luce di quanto sin qui detto, una chiave interpretativa dell’insieme dell’apparato archetipico e simbolico della Massoneria.

    Nel Vangelo di Giovanni, con il quale si aprono i lavori massonici, è scritto. “In principio era il Verbo (logos, ndr) e il Verbo (logos, ndr) era presso Dio [theon,ndr] e il Verbo (logos, ndr) era Dio [theos, ndr]”.

    Per i Druidi, scrive Jean Markale, la creazione è continua e perpetua e Dio non è, ma diviene. [v] Ed è così anche per Giovanni, visto che Théos, come s’è visto, deriva da theeîn, correre e theâsthai, vedere e dà, pertanto, l’idea di un procedere verso l’evidenza, di un continuo manifestarsi. In Théos è racchiuso il significato di un continuo muoversi verso la manifestazione.

    La Mason Word, dunque, si riferisce alle antiche tradizioni della parola creatrice e al segreto che è ad essa connesso.

    Ma davvero la Mason Word può dare la seconda vista? Cosa significa?

    Significa, probabilmente, in accordo con gli antichi Misteri, che il viaggio iniziatico porta l’iniziato all’epopteia, al “guardare sopra”, ossia all’acquisire un’altra visione della vita, del mondo, dell’origine, della manifestazione che avviene attraverso la Parola Indicibile. Nel viaggio l’iniziato scopre il suo Sé, si riappropria della sua essenza e dell’Essenza e così cambia il suo modo di vedere. La frequentazione di miti, simboli, archetipi, ha cambiato il suo punto di vista, la sua mentalità e allora non cerca più di “dire” la Parola Indicibile o di spiegarla, ma di “incontrarla”, laddove è possibile: “la incontra al suo oriente”. [vi] Il nuovo modo di pensare dell’iniziato è un “passare dal concetto alla metafora”, [vii] che è “la parola che porta fuori (meta-phorein) l’Ineffabile”. [viii]

    L’iniziato, andando incontro a se stesso, incontra il Logos, all’Oriente, in quanto il Logos orienta, dà senso al non senso, dà visibilità e senso all’abisso primordiale, estrae l’ordine dal chaos, differenzia l’indifferenziato, manifesta l’immanifesto (il Nun, l’abissale inconscio collettivo, l’oceano primordiale, la racchiusa Arché).

    La nuova vista vede, grazie alla Parola Indicibile, ciò che di volta in volta si rende evidente, ma è anche affamata di nuove visioni, poiché ha imparato a “guardar sopra”, inseguendo il fondo abissale dal quale emerge il manifesto.

    Eraclito scrive: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma”.

    La seconda vista è un “annusare”, un percepire, un “guardare oltre” ciò che la Parola Indicibile rende manifesto, perché la Parola Indicibile, il Logos orienta e orientando indica l’oltre: un viaggio infinito verso l’infinito.

    L’egizio Thoth (l’Ermete Trismegisto dell’ellenismo) era detto “naso”.

    Vedere è inseguire l’Oriente: orizzonte che si sposta mentre il cammino procede.

    Troppi cialtroni, sedicenti massoni e maestri, assetati solo di potere, schiavi di un Ego gonfio e tronfio, illudono degli assetati di conoscenza con la promessa di svelare segreti che solo loro posseggono, essendo giunti agli Alti Gradi, meglio ancora: al Vertice degli Alti Gradi e così vendono finte verità in cambio di sottomissione.

    La “Parola indicibile” è, dunque, il Verbo, il Logos e poiché, come insegna Giovanni: “In Arché era il Logos e il Logos era presso Theon e il Logos era Theos”, il Logos-Leone non è altro che l’Arché che, pronunciandosi, si rende evidente, ossia conoscibile (vid-vedere) come ente. E Giovanni ci guida alla Parola che diviene dicibile, pronunciabile, se noi diciamo di noi stessi: “Io sono la via, la verità e la vita”; se riconosciamo il Divino in noi.

    La parola è, dunque, azione creatrice.

    La Verità è un orizzonte che si sposta verso l’Oriente

    La Verità è come l’orizzonte: si sposta man mano cammini. Il viaggio presenta ad ogni passo scenari nuovi, ma ad ogni passo ne sopravviene un altro.

    Camminando sulla superficie della sfera del manifesto l’orizzonte è mutevole ed ogni verità è provvisoria. Accade allora che ci si rivolga al centro, ma ci rendiamo conto che quel centro è il nostro centro e la verità che vi troviamo è la nostra verità.

    Brian Josephson, premio Nobel per la Fisica nel 1973, ritiene che vi siano tre ordini di realtà fisica che possiamo descrivere come classico, quantistico e implicato (teoria di Bohm: ordine atemporale e aspaziale, definito Olomovimento).

    “La corrispondenza tra i vari ordini – chiarisce Odifreddi – non è soltanto metafisico, ma costituisce una vera e propria identità: in particolare la mente è l’esperienza del livello quantico della realtà, mentre la meditazione, o l’illuminazione, permette di sperimentare l’ordine implicato”. [ix] L’illuminazione dei Misteri è l’epopteia: la capacità di vedere sopra.

    L’incontrare la Parola Indicibile, l’andare incontro al nostro Sé, introduce il tema della salvezza.

    La salvezza

    La soteriologia (dal greco soteria= salvezza e logos=parola, ragionamento) è lo studio della salvezza nel senso di liberazione da uno stato o da una condizione non desiderata.

    Alcune soteriologie enfatizzano l’unione con Dio o con gli Dèi o la relazione con Dio o con gli Dèi, mentre altre enfatizzano più fortemente il coltivare la conoscenza o la virtù.

    Il primo approccio rimanda più propriamente al concetto di redenzione, laddove la liberazione è connessa con il concetto di riscatto e presuppone l’intervento esterno di un agente riscattante.

    Nel secondo approccio riscontriamo un evidente collegamento con il percorso massonico.

    Nel rituale, alla domanda: “A quale scopo ci riuniamo?”, il Primo Sorvegliante risponde: “Per edificare Templi alla virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio, lavorare al bene e al progresso della Patria e dell’Umanità”.

    L’intero percorso massonico è volto alla conoscenza e in particolare alla conoscenza di se stessi. Gli antichi Egizi dicevano che l’uomo è venuto al mondo per conoscere il proprio nome segreto (Ren) e conseguentemente seguire la retta via che, detto con parole di un’altra cultura, ottimizza il karma, ossia l’azione. Conoscere la retta via con la quale si manifesta il karma è conoscere il proprio destino ed essere capaci di realizzarlo al meglio.

    E’ interessante notare come il concetto di karma, particolarmente sviluppato nelle culture orientali (induismo, buddismo) possa, in ambito greco, essere fatto risalire al termine carmé, l’ardore bellico (connesso con kairo, karmene e, appunto, karma). Termine, quello di karmé, che in origine significava “gioia”, la gioia del guerriero di dare libero sfogo alla sua energia. In questo ambito semantico, possiamo attribuire al termine karma il significato di liberazione delle proprie energie, di manifestazione concreta di ciò che è racchiuso in noi. Il karma è pertanto la manifestazione del nostro nascosto progetto.

    Cos’è la virtù? Virtutem, accusativo di virtus, indica valentia, valore, forza (da vis). Al concetto di virtù è accostato quello del vizio, che alcuni vogliono derivante da evitare, schivare e altri da un tema viet, sanscrito vyath-ate dal significato di vacillare.

    Ancora una volta il rituale non ci consegna una lezione moralisteggiante, ma ci indica un metodo.

    Si raggiunge la salvezza allorquando, con la conoscenza di se stessi, del proprio nome segreto (Ren) e della Natura, frutto di valore, di valentia, di forza e di eccellente ricerca, si percorre la retta via del karma, ossia dell’azione che noi stessi ci siamo dati come compito da eseguire in questa vita per accrescere la Conoscenza complessiva nostra e dell’universo.

    Il vizio è il vacillare, lo schivare gli ostacoli, l’evitare le prove, l’abbandonare la retta via per perdersi per strade secondarie.

    La verità

    Il tema della salvezza è connesso con quello della verità.

    Quando noi cerchiamo, attraverso la realizzazione delle nostre energie interne nascoste e racchiuse nel nostro progetto di vita, seguendo la legge del karma, di conoscere la nostra verità, imitiamo il processo (via cammino) attraverso il quale l’Essere Nascosto si svela (a-letheia, verità) nella manifestazione.

    L’Essere o, in altri termini, l’Arché nascosta, la Tenebra, da cui emana la luce, infatti si svela, si presenta stando nascosta e nel Logos si dà, sottraendosi.

    L’Essere, come suggerisce in molte sue opere Umberto Galimberti, si presenta (a-letheia = verità), assentandosi (lantháno). Il Logos (tutto raccolto in ordine) abita nella verità.

    La verità è, dunque, la manifestazione stessa dell’Arché, la Natura, il cosmo che esce dal caos del nascondimento e che nel Logos trova il suo ordine.

    La verità, in quanto manifestazione, implica il segreto, ossia la non presenza della verità, il suo nascondimento e pertanto, avere consapevolezza del segreto è avere consapevolezza dell’Essere.

    Nel nostro procedere sulla via del karma, lo svelarsi del nostro progetto nelle nostre azioni, ci rinvia al nostro segreto.

    La verità è stata declinata in molti modi. Nel mondo induista, come dharma, è la consapevolezza del percorso, della retta via, del compito che ogni essere si è dato per fare esperienza di sé nel manifestato.

    Nel mondo occidentale, come suggerisce ancora Galimberti, la verità ha abbandonato il suo essere a-letheia, per affermarsi come orthótes, ossia come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdos).

    L’Occidente ha così perso il segreto, ossia la consapevolezza del Nascosto, della Nascosta Arché, la Tenebra, che si svela e che nel Logos ha la sua dinamica manifestativa. E il nascosto è il sacro.

    In Occidente l’uomo ha contemporaneamente perso il senso del proprio segreto, che nell’azione si svela e si manifesta, in quanto interpreta le proprie azioni, il proprio karma, come a-letheia, verità, liberazione della propria energia nascosta. L’uomo occidentale colloca le proprie azioni in ambiti valutativi esterni (efficienza, progresso, richiesta di legittimazione, ecc.). La conoscenza di sé è alienata. Il karma è delegato.

    Giovanni, nel suo Vangelo (14,6) alla domanda di Tommaso: “Chi sei?”, fa rispondere a Gesù: “Io sono la via , la verità e la vita”.

    Nel testo greco, ódòs è via, cammino e implica il camminare, il procedere, il muoversi verso. Verità è a-letheia, ossia non-nascondimento. Infine, vita nel testo greco è zoé, vita naturale universale, ossia Natura.

    Gesù dice di sé di essere un cammino, ossia un procedere verso, di essere manifestazione, non-nascondimento e Natura.

    Siamo in presenza di una dinamis che manifesta il Nascosto nella Natura e questa dinamizzazione del Nascosto è il Logos.

    L’azione (Verbo, Parola, Relazione, Logos) svela l’Essere e ne manifesta l’energia trattenuta.

    La Parola perduta è la perdita del Logos come Parola che parla della relazione tra il Nascosto e il Manifesto e che parlando del Nascosto, o meglio la Nascosta, la Vergine (racchiusa in se stessa), ne manifesta l’energia trattenuta, ossia genera mondi.

    “Tutto intorno a noi – scrive Maurice Cotterel (Cronache celtiche, Corbaccio) – è una manifestazione di Dio, in forma fisica o energetica. Il fiore non è un fiore, ha solo l’aspetto di un fiore, in realtà è Dio mascherato”.

    Lo spirito incarnandosi ha preso forma ed è divenuto materia.

    Lo spirito non ha un corpo; è corpo. E’ il nostro corpo animato che ogni giorno svela nelle nostre azioni (pensieri, parole, opere)il nostro progetto di vita.

    La salvezza, indagando se stessi (nella completezza del proprio essere e del proprio esistere come corporeità animata) e la Natura, è ritrovare la Parola perduta: il Logos nella sua potenzialità relazionale e generatrice, che rinvia al segreto della consapevolezza del Nascosto e il nostro Logos, che ci parla di noi e ci realizza. Possiamo così anche noi dire: “Io sono la via, la verità e la vita”, usando non il termine greco zoé, ma bios, vita particolare, individuale.

    segue

    [i] Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi

    [ii] Bernardo Silvestre, in Il divino e il megacosmo – Testi filosofici e scientifici della scuola di Chartres, Rusconi

    [iii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [iv] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

    [v] Jean Markale, Il Druidismo, Mediterranee

    [vi] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [vii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [viii] H.Corbin, Avicenne et le récite visionnaire, citato in Umberto Galimberti, Cristianesimo – La religione del cielo vuoto – Feltrinelli

    [ix] Piergiorgio Odfreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Einaudi