di Silvano Danesi
La leggenda templare e i Saggi del Nord
“Secondo la leggenda del 30° grado [del Rito Scozzese Antico ed Accettato, ndr], l’Ordine dei Cavalieri del Tempio comprendeva pure un collegio di “Santi” (in ebraico Kadosch) che professavano una dottrina segreta, appresa in Oriente. Dopo la dispersione dell’Ordine, questo collegio si perpetuò, per via di iniziazione, sia fra i Cavalieri di sant’Andrea di Scozia [vedi 29° grado], sia come organismo indipendente”. [i]
Le conoscenze dei Cavalieri del Tempio e dei “Santi”, secondo varie tradizioni massoniche, sarebbe poi passata alla Massoneria e il 30° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato sarebbe pertanto la continuazione della catena iniziatica.
Rintracciare gli anelli della catena è compito arduo, ma non impossibile. Vediamo, dunque, alcuni elementi che ci possono essere utili.
“Una volta, in tempi così antichi che l’umanità ne ha quasi perso il ricordo – scrive Christian Jacq -, degli esseri eccezionali abitavano una regione meravigliosa che offriva tutte le ricchezze della vita. Eccezionali, perché avevano affrontato vittoriosamente molte difficili prove prima di raggiungere quell’Eden e perché avevano saputo trovare la strada che conduceva in quel luogo paradisiaco dove il sole dolce e benefico non tramontava mai. Ebbene, questa confraternita non è un’istituzione del tutto scomparsa. Ancora oggi esiste un collegio iniziatico che tramanda l’antica saggezza e la rende attuale attraverso vari livelli delle nostre società”.[ii] “La misteriosa confraternita – si chiede Jacq – faceva quindi parte della «catena» simbolica che, partendo dal Vicino Oriente, e più precisamente dall’Egitto, attraversò il mondo greco-romano, assunse molteplici volti dell’ellenismo, della gnosi, e conobbe il suo apogeo nel medioevo delle cattedrali?”.
“Nella civiltà greca, Apollo – scrive ancora Jacq – si afferma come Maestro spirituale dei Saggi del Nord. Ebbene, Latona, madre di Apollo, apparteneva alla prima generazione degli dèi ed era nata nel paradiso nordico”.
Latona, la Notte, la Grande Tenebra, era madre di Apollo e di Artemide.
Un mito narra che Apollo ritorna nel paradiso nordico, in Iperborea, ogni diciannove anni.
“Apollo – aggiunge ancora Jacq – prototipo dell’iniziato ai misteri del sole nascosto, ci trasmette altri messaggi. Uno degli epiteti del dio, Loxias, è particolarmente importante, perché ci ricorda che Apollo fu cresciuto da Loxo, sacerdotessa della comunità femminile che aveva trovato rifugio nel paradiso nordico”.
“Tra gli autori dei vecchi racconti mitologici, Ecateo e qualche altro – scrive Diodoro Siculo – dicono in effetti che nelle regioni che si trovano di fronte alla Celtica, vi è un’isola che non è meno importante della Sicilia. Essa è situata al nord ed abitata da quelli che vengono chiamati Iperborei perché sono al di là del soffio del Boreo; quest’isola ha un suolo fertile che permette ogni tipo di produzione ed il clima considerevole produce due raccolti per anno. Secondo i mitologi, è là che Leto venne al mondo; anche Apollo è onorato presso di loro, più che gli altri dei. Vi sono per così dire dei preti di Apollo perché questo dio è onorato quotidianamente senza sosta con dei canti e onorato in modo notevole. Nell’isola si trova anche uno splendido santuario di Apollo ed un tempio considerevole ornato di numerose offerte e che ha forma di una sfera. Si trova anche una città consacrata a questo dio e la maggior parte dei suoi abitanti sono citaristi, essi suonano continuamente la cetra nei templi, indirizzando degli inni al dio per glorificare le sue imprese. Gli Iperborei possiedono una lingua particolare… (…) Si dice anche che dopo quest’isola la luna sembra molto poco distante dalla terra e che si possono vedere le gibbosità del terreno sulla sua superficie. Si dice anche che il dio si reca nell’isola ogni diciannove anni, tempo nel quale gli astri portano a termine il loro ciclo… (…) [E’ il ciclo di Metone, ndr]. Al momento della sua apparizione, il dio suona la cetra e balla senza sosta ogni notte, dall’equinozio di primavera al sorgere delle Pleiadi, affascinato dai suoi successi. I re di questa città ed i reggitori dei santuari sono coloro chiamati i Boreadi, essendo discendenti di Boreo, e si trasmettono il loro poteri continuamente di generazione in generazione.” – Diodoro Siculo, Biblioteca storica, II,XLVII, 1-7
Paolo Diacono, nella sua famosa Historia Langobardorum, parla di sette saggi che dormono in una caverna a nord del mondo. “Nell’estremo lembo della Germania, a tramontana e proprio sulle rive dell’oceano, si può vedere un antro sovrastato da una rupe, e lì, non si sa da quanto tempo, sette uomini dormono immersi in un lungo sonno: così integri non solo nei corpi, ma anche nelle vesti, e da si lungo volgere d’anni, da essere diventati oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare”.[iii]
I Templari e la spiritualità celtica
La letteratura relativa ai Templari ci ricorda che nel 1070 un gruppo di monaci provenienti dalla Calabria, capeggiati da un certo Ursus, un nome che nei documenti del Priorato di Sion è spesso associato alla stirpe merovingia, aveva raggiunto la foresta delle Ardenne, proprietà di Goffredo di Buglione e luogo dove si narra sia esistita una società segreta di iniziati, probabilmente in rapporto con i culti della Dea Arduina (Ardwinna, l’Orsa Bianca, da art = orsa e win = bianca, la Dea Bianca), che nella mitologia celtica è la Dea delle foreste, rappresentata come una cacciatrice a cavallo di un cinghiale (Il suo culto ebbe origine, appunto, nelle Ardenne e in seguito Arduina venne assimilata alla romana Diana).
I monaci calabresi ottennero la protezione di Matilde, Duchessa di Toscana e madre adottiva di Goffredo, che donò loro un vasto appezzamento di terreno in Orval, nei pressi di Stenay, il luogo in cui era stato assassinato Dagoberto II, l’ultimo dei merovingi. Sul terreno i monaci costruirono un’abbazia, ma non vi restarono a lungo, poiché già nel 1108 erano tutti misteriosamente scomparsi verso destinazione ignota. Nel 1131 l’abbazia di Orval venne definitivamente assegnata a Bernardo di Chiaravalle. E qui notiamo una prima importante coincidenza: Bernardo è colui che predispone la regole dei Cavalieri del Tempio e che è ufficialmente l’ispiratore delle loro azioni.
Nel 1114 i Cavalieri Templari risultano già attivi come braccio armato dell’Ordine di Sion, ma la loro costituzione viene esaminata solo nel 1117, per essere poi approvata nel 1118 su istanza di Hughes de Payns ed Andrea di Montbard, lo zio materno di Bernardo.
L’ordine monastico nel quale era entrato Bernardo di Chiaravalle aveva seri problemi finanziari e fu allora che una svolta improvvisa cambiò i destini dei Cistercensi, che dalla miseria cui erano ridotti, proprio grazie all’ingresso di Bernardo e dei suoi parenti, si ritrovarono ad essere una delle istituzioni religiose eminenti, ricche ed influenti d’Europa.
Il 13 gennaio 1129 durante il Concilio di Troyes viene redatto e approvato il regolamento dei Templari.
Nello stesso periodo è attiva la Scuola di Chartres, Parigi è divenuto il punto di riferimento del fermento innovativo che contraddistingue il XII secolo e non passeranno molti anni per vedere Chrétien de Troyes scrivere Le Conte du Graal (1174-1175?) e Wolfram il Parzival (1210). Abelardo nel 1123 fonda a Nogent sur Seine, nei pressi di Troyes, un piccolo monastero scuola, il Paracleto. Nel 1128 diventa abate di Saint Gildas, mentre Eloisa diventa abbadessa del Paracleto (1129). Alla morte di Abelardo il suo corpo è trasportato al Paracleto, convento guidato da Eloisa e divenuto influente, che diverrà il luogo di studio dell’opera abelardiana e manterrà questa impronta nei secoli.
La Champagne si pone come centro di grande interesse per il suo ruolo antico in relazione al mondo druidico.
Jean Louis Brunaux[iv], nell’ambito di uno studio teso ad analizzare i rapporti intensi tra Celti e Greci e, in particolare, tra druidi e filosofi (essendo anche i druidi riconosciuti dai Greci come tali) analizza il fenomeno dell’improvvisa scomparsa, nel 500 a.C., dei principi halstattiani, dovuta, secondo alcuni, allo spostarsi delle vie commerciali greche ed etrusche a causa delle difficoltà della colonia greca di Marsiglia. “Gli Etruschi – scrive Brunaux – avrebbero allora beneficiato delle difficoltà della colonia e avrebbero sviluppato delle relazioni più strette con i territori periferici del “cerchio halstattiano occidentale”, la Champagne, il Berry, l’Hunsrück Eiffel”.[v] Questo spostamento, fa notare Brunaux, a fronte del declino rapido del “principi” halstattiani, scomparsi in pochissimo tempo, come mostra la fine delle sontuose sepolture, non ha causato negli aristocratici della Champagne un innalzamento a “principi” del loro status e i costumi sono rimasti quelli di una società comunitaria, la cui aristocrazia non si considera costituita da uomini di un’altra essenza. Brunaux ritiene pertanto che la rapida scomparsa dei “principi” halstattiani sia dovuta al fatto che la loro perdita di potere economico ha consentito il sopravvento di un fenomeno culturale “che ha potuto conoscere molto rapidamente una traduzione politica, ma la cui origine era soprattutto di natura spirituale. Prima del loro ruolo economico e politico è lo sfruttamento della loro stessa immagine che è stato negato ai principi e ai grandi aristocratici. Si è loro rifiutato il privilegio di mettersi al di sopra dei comuni mortali. … Certamente, dai tempi più antichi, quelli della loro origine, esisteva presso i Celti una spiritualità arcaica e severa, che non lasciò che un flebile spazio alle diverse forme di materialità. La cultura di Halstatt, tutta impregnata di influenze venete ed etrusche, aveva permesso a delle nuove forme di espressione di liberarsi di una tale costrizione. Ma lo ha fatto con degli eccessi e con precipitazione: i principi halstattiani non avevano inscritto la loro dismisura, come i faraoni d’Egitto, in una lunga tradizione che la rese se non accettabile a tutti , quantomeno consuetudinaria. Essa non lo era soprattutto agli occhi degli altri aristocratici, più illuminati, più coscienti del danno che degli eccessi facevano correre alla comunità”. [vi]
La Champagne, dunque, si propone, nello studio di Brunaux, come un centro tradizionale di un’arcaica e severa spiritualità celtica. Una spiritualità che si collega alle Ardenne, ovvero ad Arduinna, la Dea Orsa Bianca, nel cui nome troviamo il simbolo dell’orso, ovvero della regalità (Artù)? Ad una Dea Arduinna, Signora della Natura, che cavalca un cinghiale (simbolo della sacerdotalità)? Ma c’è di più. Analizzando il rapporto tra druidi e pitagorici, Brunaux ne riscontra la concordanza di alcune concezioni metafisiche e la comune idea che la divinità non deve essere rappresentata antropomorficamente o zoomorficamente, lasciando ai numeri e alle forme geometriche di mostrare, dietro alla materia, luoghi inaccessibili ad altro che allo spirito. “Dalla metà del V secolo – scrive Brunaux – in Gallia e nelle regioni limitrofe appaiono numerosi pezzi decorati che testimoniano di un lavoro preliminare di disegno sbalorditivo, generalmente eseguito con l’aiuto del compasso. Su dei pezzi di bardature in bronzo (falere, placche di bardatura, ecc.) di qualche centimetro di diametro, ci sono decine di cerchi che sono stati tracciati al fine di delimitare le zone da ritagliare per creare motivi a rilievo. L’analisi di questi decori dove la complessità della costruzione geometrica non ha uguali nell’abilità dell’artigiano che l’ha messa in opera, necessita oggi dell’utilizzo di strumenti informatici. All’evidenza, questi pezzi sono il prodotto di una stretta collaborazione tra esperti in geometria e dei veri orefici. Essi rispondevano a un bisogno specifico, che giustificava un tale dispendio d’energia, che non aveva nulla a che fare con una semplice moda. Apparsi all’inizio nel “foyer champenois”, questi decori si diffusero in effetti largamente nel mondo celtico, dal quale non sparirono più, come se lo stile plastico del III secolo e quello, realista, del II e I secolo non avessero alcuna presa su di loro”. [vii]
La Champagne si evidenzia come luogo ove operano uomini che coltivano antiche e severe tradizioni e che, al contempo, sanno utilizzare i numeri e la geometria in modo sorprendentemente complesso.
“Passando in rassegna il nostro lavoro – scrivono Alan Butler e Stephen De Foe – Henry Lincoln ha riconosciuto l’attendibilità storica dell’idea che, persino nel XII secolo, in alcune aree dell’attuale Francia esistessero dei gruppi di possidenti che mantenevano ancora un legame diretto e ininterrotto con la cultura megalitica. Sviluppatesi lungo un arco che tagliava la Penisola Scandinava, la Gran Bretagna e alcune regioni della Francia, tali comunità si estendevano fin alla Spagna sudorientale e nelle isole del Mediterraneo. Per quanto riguarda le popolazioni della Borgogna e della Champagne, le radici megalitiche erano piuttosto semplici da rilevare….”. [viii] I Burgundi erano, secondo Butler e De Foe, con tutta probabilità i depositari di forme di religione molto antiche e le famiglie burgunde avrebbero dato vita ad una classe sacerdotale nella quale sono confluiti i monaci culdei.
Xavier Guichard, citato da Butler e De Foe, riferisce di lunghe linee diritte, le Salt lines, che percorrono il territorio per chilometri e a volte partono da un nucleo centrale per irradiarsi in insediamenti contraddistinti dalla componente «al», dal greco hal, sale, nel loro nome: Alaise, Calaise, Falaisc e, ovviamente Halstatt, la città del sale. Altre linee, secondo Guichard, sarebbero molto simili alle moderne linee indicanti la latitudine e la longitudine, distanziate di 111 kilometri sulla latitudine e a 59’ di arco sulla longitudine.
Proviamo ora a porre mente ad un altro fenomeno interessante. Con il crollo dell’Impero romano, anche a causa di un concomitante riscaldamento d’Europa, le foreste ripresero il terreno che gli uomini avevano tolto loro con le culture e diventarono il “deserto” degli anacoreti occidentali, in fuga dalla civiltà.
Tuttavia la foresta è profondamente diversa dal deserto ed è nella foresta che si è sviluppata l’Antica Religione, che non mancò di influenzare forme di cristianesimo non in linea con l’ortodossia papale.
Come suggerisce l’amico Federico Gasparotti, la foresta divenne l’ultimo rifugio della Dea.
La leggenda di Merlino è emblematica. Merlino “ormai vecchio, venne sedotto dall’innamorata strega Nimue, la quale, nel bel mezzo dell’amplesso, si fece confidare i più potenti incantesimi per poi trasformarsi in una sfera d’ambra, inglobando al suo interno il mago, il quale non oppose resistenza, forse conscio che la sua epoca era ormai tramontata con l’avvento del nuovo Dio. Ma la metamorfosi di Nimue non finì lì, poiché decise – scrive Gasparotti – subito dopo di trasformarsi in quercia per restare per sempre unita al suo amato nella pace della foresta”. [ix]
Il principio maschile, ma anche la saggezza druidica, inglobati e custoditi nel femminile avvolgente utero, si rifugiano, dunque, nel folto della foresta.
La leggenda, in chiave simbolica, narra un evento reale. Con l’avanzare del cristianesimo, offerto al popolo sul filo della spada di re convertiti per acquisire la legittimazione di Roma cristiana, quale sedicente erede dell’Impero romano, alcuni druidi pensarono di accomodarsi nella nuova religione, con l’intento, in parte riuscito, di tramandare le antiche tradizioni rivestendole di nuovi panni; altri preferirono ritirarsi nel folto delle foreste, continuando, in segreto, a coltivare l’Antica Religione.
“Nimue – scrive Gasparotti – iberna Merlino, non lo uccide: ella sa che verrà il tempo in cui gli antichi Dei torneranno ad essere ascoltati e per questo salva il proprio amato, nonché indiscusso custode del Sapere, dall’inevitabilità dell’avvento del cristianesimo”.
La Dea, esiliata, continua a vivere e ad essere amata, protetta dalla Natura, ovvero da se stessa, nella forma di foresta impenetrabile, proteggendo contemporaneamente la sapienza druidica.
La foresta impenetrabile diventa il rifugio dei druidi, degli iniziati perseguitati, di briganti, emarginati, di latitanti, come ben mostra la leggenda, divenuta popolare, di Robin Hood, che in forma allegorica è il Kernunnos con il suo popolo, che dalla Foresta-Dea combatte il potere oppressivo.
Nell’XI secolo la foresta comincia ad essere colonizzata. Nuove vie di comunicazione la percorrono e la sua impenetrabilità viene in parte compromessa.
Ai rifugiati, ai “merlini” custoditi nel folto della foresta e custodi di antiche sapienzialità si ripropone il problema che si era posto ai loro antenati: utilizzare gli strumenti offerti dal potere per trasmettere in forma criptata l’antica tradizione e, al contempo, ritirarsi ulteriormente nel folto, per evitare di essere identificati.
Quando un sapere “tradizionale custodito da pochi è sul punto di estinguersi – scrive Leda Berné – allora i suoi detentori potrebbero decidere volontariamente di affidarsi alla memoria collettiva, consci del fatto che il popolo in ogni caso non sarà mai in grado di comprenderne il profondo significato. In questo modo la maggioranza diverrebbe, attraverso la trasmissione orale del patrimonio folklorico, il tramite inconsapevole di un messaggio che, in tempi successivi, qualcuno adatto ad intendere potrebbe riuscire di nuovo ad interpretare correttamente”. [x]
Saxon-Sion possiede sul suo territorio la collina di Sion che ha ispirato Maurice Barrès per il suo romanzo La colline inspirée.
Sulla collina è celebrato un culto mariano antico ed è stata edificata la basilica di Notre-Dame de Sion (Madonna nera).
I Celti sulla collina avevano stabilito un tempo un alto luogo di culto a Rosmerta. Dopo la pax romana, i riti si volsero verso delle dee latine. L’arrivo del cristianesimo ha trasformato l’importante culto di una Dea in quello della Vergine Maria.
Non è improbabile, pertanto, che fino alle soglie del secondo millennio i culti di Rosmerta siano stati praticati ed è possibile che fossero ben presenti anche agli uomini del XII secolo, ovvero a coloro che si richiamarono a Nostra Signora di Sion, intesa come Nostra Signora di Sion Saxon.
Rosmerta, dea gallica della generazione, era “paredra abituale”[xi] di Mercurio-Lugus. Il culto della coppia divina era praticato in gran parte delle regioni gallo-romane, ma era particolarmente diffuso nella Gallia centrale e orientale, lungo i fiumi Rodano, Mosa e Mosella e su entrambe le rive del Reno.
Notre Dame de Sion non è, dunque, Nostra Signora di Sion in Palestina, ma la Dea Madre Rosmerta? Parrebbe, a questo punto, di poter rispondere affermativamente e se così fosse emergerebbe ancora di più il disegno di un gruppo di iniziati, di un antico collegio druidico, inteso a mantenere in vita l’Antica Religione.
Sion potrebbe derivare dal gaelico sionn dal significato di fosforescente, splendente (sionnachan è splendore), aggettivi che ben si attagliano alla Dea. Tuttavia, per stare alle modalità antiche che inducevano a giocare con le parole, sionnach è anche la valvola di soffietto della zampogna, o cornamusa, ovvero la parte (la canna) dove il suonatore opera per ricavare le note. Il suono della cornamusa è circolare, ricorda il respiro dell’Universo. La zampogna accompagnava i rituali dei Sabba, ovvero le danze sacre dell’Antica Religione.
Saxon Sion e Notre Dame de Sion ci riconducono al Priorato di Sion, il quale, a volte chiamato “Ordine di Sion” o “Ordine di Nostra Signora di Sion”, avrebbe assunto la denominazione di Sion in quanto figlio diretto dell’Ordine dei cavalieri di Nostra Signora di Sion (1099), a cui era dedicata un’abbazia decrepita in Terrasanta. E se così non fosse? E se la Nostra Signora di Sion fosse quella di Saxon Sion? Tutto si concentrerebbe, in questo caso, nella Champagne, terra di antiche tradizioni, custodite dalle famiglie nobili post-halstattiane.
Lynn Picknette e Clive Prime[xii] scrivono che nel “XVI secolo Ferri di Vadèumont [località nei pressi di Saxon Sion] aveva già costituito l’Ordine di Notre Dame di Sion storicamente riconosciuto, legato per statuto all’Abbazia del Monte Sion a Gerusalemme da cui il Priorato sostiene di aver preso il nome. Il figlio di Ferri sposò Jolanda da Bar, Gran Maestra del Priorato tra il 1480 e il 1483, che era figlia di Renato d’Angiò, il Gran Maestro Precedente. Jolanda fece di Sion Vaudèmont un importante centro di pellegrinaggi centrati sulla Madonna Nera la cui statua fu distrutta durante la rivoluzione francese e sostituita da una vergine medievale non nera, prelevata dalla chiesa di Vaudèmont che è dedicata a Giovanni Battista.
Pierre Plantard de Saint Clair, sedicente Gran Maestro del Priorato, scrive esplicitamente: “La Vergine Nera è Iside e il suo nome è Nostra Signora di Luce”.[xiii] Il Gran Maestro fondatore, Ugo de Payns, era sposato con Caterina St.Clair. Discendenti dei Vichinghi i St. Clair o Sincalir costituiscono una delle più interessanti e importanti famiglie della storia, diffusesi in Scozia e in Francia fin dall’XI secolo. Il nome della famiglia deriva dal martire scozzese Saint Clair che fu decapitato (interessante riferimento al mito della testa). Ugo e Caterina visitarono i possedimenti di St.Clair vicino a Rosslyn e là stabilirono la prima commenderia templare in Scozia”.[xiv]
Rosslyn è il luogo dove si trova la Rosslyn Chapel, una delle costruzioni più enigmatiche e sintesi di antiche tradizioni druidiche con la tradizione templare e libero muratoria.
I Templari e i Fianna
E’ possibile che i Templari siano gli eredi e i continuatori delle Fianna, le schiere dei druidi guerrieri guidati dal mitico Finn? E’ possibile che chi ha avuto l’idea di istituire l’Ordine abbia avuto finalità diverse da quelle ufficialmente proclamate e benedette dall’autorità di Bernardo di Chiaravalle?
René Guénon sostiene l’esistenza, “durante tutto il Medio evo, di una tradizione iniziatica propriamente occidentale”[xv] e il rapporto più evidente con questa tradizione e con quella iniziatica medievale cavalleresca è quello con il mondo celtico e con i Fianna.
I Fianna erano soldati scelti, professionisti di grandi capacità e valore; soldati sottoposti ad un’educazione ferrea e a prove iniziatiche, membri di una congregazione considerata un’istituzione onorevole, riconosciuta dalle leggi e considerata essenziale al benessere della comunità. Dal primo novembre, Samain, al primo di maggio, Beltane, ossia nel periodo scuro dell’anno, i Fianna “vivevano presso i villaggi, vegliavano sull’applicazione della giustizia, difendevano le vedove e gli orfani”[xvi]. Dal primo maggio al primo novembre, ossia nella parte chiara, “cacciavano i cervi e i lupi, reprimevano i brigantaggi e aiutavano a riscuotere le imposte”.[xvii]
Lady Augusta Gregory, studiosa delle tradizioni celtiche, scrive in proposito: “A quel tempo, il numero dei Fianna d’Irlanda era di sette volte venti più dieci comandanti e ognuno di loro aveva tre volte nove guerrieri ai suoi ordini. E ognuno dei loro uomini era vincolato all’osservanza di tre cose, ossia: non appropriarsi del bestiame con la violenza, non rifiutare a nessuno bestiame o ricchezze, non indietreggiare nemmeno davanti a nove nemici. Mai nessuno veniva accettato tra i Fianna se la sua tribù e la sua famiglia non garantivano che lui, anche se essi fossero stati uccisi tutti, non avrebbe cercato soddisfazione nel vendicare personalmente la loro morte. Del resto, se fosse stato lui ad arrecare danno ad altri, quel danno non sarebbe ricaduto sulla sua gente. E non ci fu mai nessuno che venne accolto tra i Fianna senza avere prima appreso i dodici libri della poesia. E ognuno, prima di essere accettato, veniva messo in una buca profonda del terreno fino alla cintola con in mano il proprio scudo e un’asta di avellano. Nove uomini si allontanavano dalla buca per una distanza di dieci solchi e poi, tutti insieme, gli scagliavano addosso le loro lance. E chi veniva ferito non era giudicato adatto ad unirsi ai Fianna. Dopo questa prova, ancora, ad ognuno venivano legati i capelli ed egli era costretto a correre per i boschi d’Irlanda e i Fianna lo inseguivano per tentare di ferirlo. Al momento di iniziare, tra loro e l’aspirante guerriero c’era la lunghezza di un ramo; e se essi lo raggiungevano e lo ferivano, o se solo gli tremava la mano armata di lancia, o se il ramo di un albero scioglieva le trecce dei suoi capelli, o se egli spezzava un ramo secco sotto i piedi mentre correva, ebbene, non gli veniva concesso di unirsi a loro. Ed essi non l’avrebbero accolto tra di loro se egli non avesse fatto un salto su un bastone alto come lui, se non si fosse piegato portando una gamba dietro alla testa e non si fosse tolto dal piede una spina con le unghie per poi rimettersi a correre ancora più velocemente. Ma se riusciva a fare tutte queste cose, egli diventava uno dei Fianna”[xviii].
Chi aspirava ad essere un Fianna doveva non solo essere un valoroso guerriero, ma anche un poeta, ovvero un bardo. Il Fianna era dunque un iniziato prossimo ai druidi, i quali non erano solamente sapienti, poeti, musicisti, uomini d’arte e sacerdoti, ma anche guerrieri, nonostante fossero dispensati dal portare le armi e dall’andare in guerra. Quindi, come fanno notare Le Roux e Guyonvarc’h, “la condizione sociale del druida è diversa da quella del flamen romano e da quella del brahmano indù, i quali non hanno il diritto di battersi e nemmeno quello di vedere una schiera armata. Lo statuto del druida riflette uno stato singolarmente arcaico, anteriore alla separazione dell’autorità spirituale dal potere temporale”. [xix] E’ lo stato del Templare.
Il celebre comandante dei Fianna, Fin mac Cumaill, era dotato di veggenza ed era capace di usare il teinm laegda o “illuminazione di canto”.[xx]
Il prototipo del druida guerriero è Cathbad, padre del re Conchobor[xxi], il primo dei druidi dell’Ulster. Cathbad è druida o guerriero a seconda delle circostanze, ma egli riunisce in sé le due valenze. “Il potere guerriero di Cathbad è intimamente connesso con la sua persona e con il suo sacerdozio …. Per contro, un tratto caratteristico dei guerrieri è che essi devono essere poeti”[xxii]. “In Gallia i druidi non erano diversi: proprio in quanto druida e, secondo Cesare, politico influente, Diviziaco comanda un corpo di cavalleria”[xxiii].
Una leggenda irlandese ci rende noto l’equipaggiamento di un druida mitico, Mog Ruith, che va alla guerra con lo scudo multicolore e stellato, munito di un cerchio di candido argento, con una spada da eroe dalla grande impugnatura al fianco sinistro, con due lance nemiche e avvelenate in mano”.[xxiv] I druidi della parte avversa a quella di Mog Ruith, non sono da meno. Colptha sospende al braccio sinistro il suo scudo nero e funesto, che misura centoventi piedi di circonferenza e ha un cerchio di ferro. Impugna la sua spada pesante e tagliente, che ha richiesto trenta masse di metallo incandescente e ha le sue due lance nere e scure in mano. Anche Medhran è un druida guerriero: “Guerriero dai capelli biondi e inanellati e di amabile aspetto era il druida di Medhon Mairtine, chiamato Medhran il druida”. [xxv]
I Celti prendevano la guerra come un gioco dalle regole ferree: “era il fìr fer (letteralmente “la verità degli uomini”). Per mutuo consenso lo scontro degli eserciti contendenti veniva convertito in una lotta tra due campioni delle parti avverse, la singolare tenzone, che è presente così frequentemente nella letteratura dei poemi epici irlandesi, come il Tain Bo Cualnge (Il furto dei buoi di Cooley), fino alla leggenda medievale arturiana”[xxvi]
Anche i Gesati, che combattevano nudi, sono, nel mondo celtico, guerrieri professionisti, “che vendevano la loro esperienza a chiunque volesse ingaggiarli. Potremmo capire facilmente il loro ruolo se li paragonassimo ai samurai”. [xxvii]
Nei Fianna possiamo intravedere i precursori dei cavalieri arturiani, nei druidi guerrieri quelli dei Templari, monaci guerrieri, che Bernardo di Chiaravalle invia a scoprire la Gerusalemme celeste[xxviii], ossia la Conoscenza? Conoscenza, in particolare della natura e delle sue regole, come manifestazioni di una divinità che rimane nascosta, che è il motivo conduttore della filosofia druidica.
Théodore Hersart de La Villemarqué, nel suo Barzhaz Breizh, richiamando l’antica legge dei bardi, della quale si trovano echi in autori come Moelmud e Hoel le Bon, scrive: “Secondo questa legge, il dovere dei bardi è di divulgare e di mantenere tutte le conoscenze della natura volte a estendere l’amore della virtù e della saggezza”. [xxix]
Rapporto con la Conoscenza, quello della filosofia druidica, che ritroviamo affermato anche nella mitologia relativa ai Tuatha De Danann, il Popolo degli Dèi di Dana, arrivati, come scrive Lady Augusta Gregory, dal Nord. “E nelle terre dalle quali venivano, essi avevano quattro città in cui combattevano le loro battaglie in nome del sapere: la grande Falias, la scintillante Gorias, Finias e la ricca Murias che si trovava a sud. E in quelle città essi avevano quattro uomini saggi che insegnavano ai loro giovani la manualità, la conoscenza e la saggezza assoluta: Senias a Murias; Arias, il biondo poeta, a Finias; Urias, dall’animo nobile, a Gorias; e Morias a Falias. Essi portarono da quelle quattro città i loro quattro tesori: da Falias la Pietra della Virtù, chiamata la Lia Fail (la Pietra del Destino); da Gorias una Spada; da Finias una Lancia della Vittoria; e da Murias il quarto tesoro, il Calderone, che mai lasciò andar via insoddisfatti gli ospiti”.[xxx]
Sono i tesori che ritroveremo puntualmente nel ciclo del Graal, che rivela in tutta evidenza la sua derivazione dalla tradizione druidica.
Lugh, la più importante divinità maschile celtica, presentandosi a Teamhair (Tara) il centro sacro d’Irlanda, dove non può entrare chi è senz’arte, dice al guardiano di essere esperto in tutte le arti (Ildánach, Maestro di tutte le arti) e viene messo da Nuada (l’equivalente del Re Pescatore del ciclo arturiano) alla prova della scacchiera e avendo vinto tutte le partite gli viene concesso di sedersi sullo “Scranno della conoscenza”.
La Conoscenza è il punto più alto da raggiungere per chiunque si avvii sui sentieri dell’Arte e non è un caso che il termine fidchell (in gallese gwyddbywyll), sia letteralmente “saggezza del legno”[xxxi] e richiami sia l’idea della saggezza, sia il supporto di legno di una sorta di gioco degli scacchi in cui un pezzo con il valore di re (banàan) deve scappare verso il lato del piano, cosa che i pezzi opposti, i fian o gwerin, devono impedirgli.
Fian (plurale Fiana o Fianna) indica, pertanto, al contempo, i pezzi del gioco del fidchell, ossia del gioco della conoscenza e il corpo scelto dei guerrieri iniziati dei Celti.
Un altro nome del gioco che avviene sulla scacchiera (per inciso simbolo antico della Dea e della filosofia druidica, che si muove tra il bianco e il nero, tra il lato chiaro e quello oscuro della realtà) è il Brandubb, la “scacchiera della gioia”, riferito, come vedremo a Bran e anche qui è più di una coincidenza il fatto che il Beauseant bianco e nero sia simbolo dei Templari.
I Fianna, del resto, sono strettamente imparentati con i Tuatha De Danann e, in particolare, con Lugh. “In quanto alla madre di Lugh, che era la bella e alta Ethlinn, ella venne a Teamhair dopo la battaglia di Mag Tuiread ed egli la diede in sposa a Tagd, figlio di Nuada. E i figli che nacquero da loro furono Muirne, madre di Finn, il capo dei Fianna d’Irlanda, e Tuiren, madre di Bran”.[xxxii]
Finn, il comandante dei Fianna è dunque figlio della figlia della madre di Lugh, il quale si presenta come il figlio paredro della Dea Madre, che qui compare come la bella Ethlinn.
La mitologia relativa ai Fianna li evidenzia come protagonisti dell’incontro scontro tra l’antica civiltà della Dea del Neolitico e dell’Età del Bronzo e gli invasori indoeuropei. I Fianna, le cui schiere appartengono ai Gaeli, si scontrano con i guerrieri dei Tuatha De Danann, ma tra le due etnie ci sono matrimoni e figli che hanno padri e madri appartenenti alle due civiltà. Lo stesso Finn è, infatti, come abbiamo visto, anche di sangue Tuatha.
Lugh è per molti versi assimilabile al Dio Cornuto (Kernunnos, Pasupati, Dioniso, Basa-Jaun, Hou, Puck, in seguito Robin, Robin Goodfellow, sempre vestito di verde, il colore delle fate e dell’Altromondo) che dalle lontane origine del Paleolitico è arrivato sino a noi nei riti agresti che la Chiesa ha condannato come diabolici, mettendo al rogo coloro che li praticavano, fedeli all’Antica Religione.
Popolazioni del Neolitico e popolazioni indoeuropee si sono combattute e amalgamate, come ben spiega Margaret A. Murray, nella realtà e nel mito, dando origine al substrato mitico e leggendario che ritroveremo come parte essenziale del ciclo arturiano e di tutta la letteratura ad esso connessa.
Finn, figlio di Cumhal, è il comandante dei Fianna e rimane tale fino alla morte. “Egli fu re, veggente, poeta, druido e uomo sagace”[xxxiii] e si circondò di druidi, poeti, musicisti, guaritori.
Come Taliesin, che succhiandosi il dito scottato da tre gocce del calderone di Keridwen acquisì la Conoscenza, così Finn, arrostendo il salmone per Finegas, presso il quale si era recato per apprendere la poesia, si scotta e mettendosi il dito in bocca ne acquisisce la Conoscenza.[xxxiv] Non solo, ma alla Fonte della Luna, sorvegliata dalle tre figlie di Beag, figlio di Buan dei Tuatha De Danann, al quale la fonte apparteneva, una goccia d’acqua gli va in bocca e Finn acquisisce la saggezza.
Finn è un iniziato, divenuto come un bambino (il dito in bocca), dunque innocente e sgombro da schemi e pregiudizi. Jean Markale fa notare che Finn, il cui nome significa bianco, è un eroe solare (come Mabon), “uccisore di mostri e cacciatore, nonché riparatore di torti. L’organizzazione che egli dirige è una delle più singolari e prefigura talune società cavalleresche medievali, forse anche un ordine simile a quello dei Templari”. [xxxv] “Le condizioni per entrare nel gruppo dei Feniani – osserva Markale – erano assai precise: un guerriero non doveva mai sposare una donna per la dote, ma per le sue qualità, mai violentare una donna, non rifiutare mai di dare oggetti preziosi o cibo a chi li chiedesse (obbligo del dono) e non fuggire mai davanti a meno di dieci avversari. Doveva inoltre farsi ricevere nel novero dei fili (poeti scienziati), subire ardue prove fisiche, difendersi con uno scudo e un bastone di nocciolo contro nove guerrieri che scagliavano tutti insieme contro di lui i loro giavellotti, sottrarsi attraverso i boschi a tutti i Feniani riuniti, mai tenere le armi con mani tremanti, mai spezzare un ramoscello sotto i piedi, saltare per un’altezza pari alla sua statura, piegarsi sulle ginocchia, togliersi, in corsa, una spina dal piede senza fermarsi. Sottoposti a tali condizioni, i Feniani erano evidentemente un gruppo scelto, e numerose saghe ispiratrici dell’Ossian di Macpherson espongono le loro avventure”. [xxxvi]
I Fianna, dunque, combattenti valorosi, druidi, iniziati alle arti dai Tuatha, possono essere stati il paradigma antico al quale si sono ispirati coloro che hanno fondato l’Ordine dei Templari.
La croce templare druidica
Robert Graffin (L’art templier des cathédrales, Celtisme et tradition universale, Edition Garnier) sostiene che la cosmogonia e la conoscenza dei Druidi “troveranno più tardi la loro sintesi nelle cattedrali tramite i Templari e i Cistercensi”. Va infatti notato che “Malachia, il vescovo d’Armagh e primate d’Irlanda, celebre per la profezia dei papi che gli è attribuita, era amico di Bernardo di Clairvoux. Nel 1142 i monaci cistercensi raggiunsero l’Irlanda e fondarono l’abbazia di Mellifont. L’arte tradizionale celtica era ormai interdetta. L’architettura, l’arte della maçonnerie era già sottomessa al potere dei vescovi fin dal secondo concilio di Nicea del 787”. (Michel Raoult, Les druides, Ed Rocher).
Inoltre Graffin sostiene che le cattedrali gotiche conterrebbero il codice druidico e che la croce templare deriverebbe dalla croce celtica.
Secondo Graffin non solo la croce celtica è simile alla croce templare, ma le proporzioni della croce druidica, che contengono i cerchi di Gwynfyd, Abred e Ceugant, sono presenti nella cattedrali gotiche.
Secondo Guy Travoux (Lettere, cifre dèi, Ecig) i Templari perpetuarono il calendario degli alberi di 13 mesi “nelle loro 13 invocazioni a Dio Padre”.
Huzza, la spina templare, la Dea, il Drago e il Druida
I riferimenti alla Dea sono presenti anche nell’acclamazione: “Huzza! Huzza! Huzza!”, usata anche nei brindisi delle Agapi rituali. Un’acclamazione il cui significato ci riporta al concetto di spina che troviamo nell’acacia e che, nel suo significato esoterico, ci conduce ad un crocevia dove si ritrovano alcuni aspetti importanti delle tradizioni druidica, templare e mediorientale.
Samura, la spina aegyptica, incarnava, a Nakla, al-Uzzà e l’albero rappresenta Dhat Anwat, probabile epiteto della stessa divinità.
Nakhla fu il nome di due località del Hijaz, nella Penisola araba, in età preislamica e nel primo periodo islamico, site a sud di Mecca, prima di Ṭā’if.
Le due località si distinguevano per un aggettivo che ne chiariva anche l’orientamento. Quella più meridionale si chiamava infatti Nakhla al-Yamaniyya, in direzione appunto dello Yemen, mentre l’altra si chiamava Nakhla al-Shāmiyya ed era più a nord di essa, in direzione della Siria (chiamata Shām).
La più interessante appare senza dubbio essere stata Nakhla al-Shāmiyya, nella quale si venerava al-‘Uzzā, divinità dei Banū Kināna e, quindi, adorata anche dai Quraysh di Mecca. Nelle vicinanze sorgeva anche un santuario della divinità pagana chiamata Suwā‘.
Al Uzza è la principale espressione di una divinità triplice composta anche da al Lat e al Menat. Le tre divinità erano chiamate i begli astri e rappresentavano i tre volti di Venere.
Venere è associata e, nella mitologia, spesso confusa con Sirio, la egizia spdt, detta la Puntuta (il suo geroglifico è un triangolo isocele). Una denominazione che richiama la spina. Sirio era associata in Egitto antico a Iside.
La spina è un simbolo caro ai Templari. Le loro commanderie erano collegate a “luoghi spina” (da cui Epinay, Pinay, Epinac, Courbépine)) tramite cunicoli e in quei luoghi avvenivano le iniziazioni.
Per un gioco di parole (la Lingua verde è fatta di omofonie, analogie, enigmi) che vale sia per il francese, sia per l’italiano, spina e spiga sono molto simili: épine ed épi. En épi è la pannocchia. Spina, spiga, spica (latino). Spica è la stella più luminosa della costellazione della Vergine, che è rappresentata come una signora con una spiga in mano.
Va a questo punto considerato il fatto che la rosa domestica viene introdotta poco prima dell’800, mentre la rosa vera e propria è quella selvatica a cinque petali (biancospino, pruno selvatico). Il bianco spino è la spina bianca. Cinque è il numero della Dea. La stella a cinque punte è simbolicamente riferita a Iside. A Cassiopea è associato il cinque e Cassiopea è l’asterisma al quale è riferita l’indoeuropea Dana.
Un’altra spina è il pruno (prugnolo) selvatico, Prunus spinosa, (Zain), detto anche “spino nero”, in opposizione allo “spino bianco” o biancospino (Uath) cresce ai margini dei boschi e dei sentieri; alto fino a quattro metri ha fiori bianchi e frutti tondi color blu. La sua fioritura è nel periodo marzo aprile (equinozio di primavera) e i frutti maturano a settembre (equinozio d’autunno). Il pruno selvatico era considerato l’albero della magia nera e delle maledizioni ed è associato alla Scorpione; la sua runa è Purisaz.
Il biancospino, albero che va dai 2 ai 12 metri, ha fiori bianco rosati e frutti rossi ovali, con nocciolo; fiorisce a maggio giugno e i suoi frutti maturano ad agosto settembre.
Pruno e biancospino hanno le foglie a cinque punte, simbolo della Dea, come le foglie dell’edera, della vite e del platano.
Hadingham[xxxvii] cita la teoria di Norman Lokyer, secondo la quale esisteva nel 2000 a.C. un “Culto di Maggio”, legato al primo maggio, quindi ad Aldebaran, sopresso intorno al 1600 a.C. da adoratori del solstizio, quindi del Sole, provenienti dall’Egitto o dalla Grecia. Il “Culto di Maggio” venerava il sorbo (Luis) e il pruno, mentre gli adoratori del sole il vischio. Il “Culto di Maggio”, secondo Hadingham, dà origine ad un calendario con l’anno diviso in otto parti. Il sorbo e il pruno erano al tempo l’equivalente della più moderna rosa.
Va notato che nel 2000 a.C. è avvenuto il passaggio della polare dal Draco (Alpha draconis), (spina in gaelico), all’Orsa, già iniziato nell’era del Toro.
Charpentier fa notare che nel Cantico dei Cantici troviamo la spina: “Io sono la rosa di Sion […] simile al giglio in mezzo alle spine”.
La Vergine è chiamata nelle litanie Lilium inter spinas, il giglio in mezzo alle spine.
Nel Libro dei Giudici, fa notare ancora Charpentier (IX,14) si legge (secondo la traduzione moderna): “Allora tutti gli alberi dissero alla spina: «Vieni; regna su di noi». La spina rispose agli alberi: «Se siete in buona fede nello scegliermi per regnare su di voi, venite e rifugiatevi alla mia ombra; altrimenti che il fuoco esca dalla spina e divori i cedri del Libano”.
La forma antica dell’aculeo vegetale della spina è akantha, parola che per estensione diventa la pianta stessa con le spine: l’acanto, l’acacia, connessa con Al-Uzza o Huzzai.
Infine, draco in gaelico significa spina.
“Ricordiamo – scrive Myriam Phliberth – che il termine gallese Draco significa anzitutto «spina»”. [xxxviii]
Conseguentemente “spina” potrebbe riferirsi al draco, al serpente, nel quale i Druidi si identificavano: “Je suis, dit l’un d’eux, un Druide, je suis un architecte, je suis un prophête, je suis un serpent“. [xxxix]
[i] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Piccinelli Edizioni.
[ii] Christian Jacq, La confraternita dei saggi del Nord, Età dell’Acquario
[iii] Paolo Diacono, Storia dei longobardi, Tea
[iv] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[v] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[vi] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[vii] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[viii] Alan Butler, Stephen De Foe – La verità sui Templari – I segreti dell’eredità cistercense, Ed. L’Età dell’Acquario
[ix] Federico Gasparotti, Ogam, l’alfabeto celtico degli alberi, Ilmiolibro.it
[x] Leda Berné, Le vergini arcaiche, Edizioni della Terra di Mezzo.
[xi] Colette Bèmont, A propos d’un noveau monument de Rosmerta, Perséè (Ministère de la junesse, de l’éducation nationale et de la recherche- France)
[xii] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xiii] Da Ean Begg, The Cult of Black Virgin, Arkana, Londra citato in Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xiv] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xv] René Guénon, L’esoterismo di Dante, Atanor, pag. 21
[xvi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xvii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xviii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri – I Fianna – Edizioni Studio Tesi – Pordenone – 1986
[xix] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig – nota a pagina 156
[xx] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxi] Vedi la saga irlandese di Cu Chulainn, Mondadori a cura di Gabriella Agrati e maria Letizia Magini.
[xxii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig
[xxiii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig
[xxiv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxvi] Ward Rutherford, Tradizioni celtiche, Tea
[xxvii] Berreford Ellis, Il segreto dei druidi, Piemme
[xxviii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xxix] Théodore Hersart del La Villemarqué, Barzhaz Breizh, Coop Breizh
[xxx] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xxxii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxiii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxiv] Nella cultura druidica il salmone è simbolo di conoscenza.
[xxxv] Jean Markale, I Celti, Mondadori
[xxxvi] Jean Markale, I Celti, Mondadori
[xxxvii] Hadingham, I misteri dell’antica Britannia, Newton, a pagina 98
[xxxviii] Myriam Philiberth, Da Kernunnos au roi Arthur, Ed. du Rocher
[xxxix] Deane pag. 254 citato in Eduard Panchaud, Le druidisme ou Religion del anciens Galois, Losanna, 1865