di Silvano Danesi
Vitruvio nel De Architettura definisce l’arte costruttoria come una scienza che si è adornata di più dottrine e di varie erudizioni, “col sentimento delle quali giudica di tutte quelle opere che sono perfezionate dalle arti rimanenti. Ella nasce dall’esperienza non meno che dal raziocinio. L’esperienza è una riflessione continua e consumata sull’uso, la quale si perfeziona coll’operare sulla materia di qualunque genere, e necessaria giusta l’idea del disegno. Il raziocinio poi è quello che può dimostrare le cose fabbricate, e manifestarle con prontezza, e con le ragioni della proporzione. Per lo che quegli Architetti che illetterati hanno tentato di operare sulla materia, non hanno potuto arrecare tanto di credito alle loro fatiche, sì che ne acquistassero fama; e quelli poi che nel raziocinio e nelle sole lettere sonosi fidati, l’ombra, non già la cosa, sembra che abbiano seguitata. Ma quelli che fondatamente appresero l’una e l’altra, come uomini provveduti d’ogni sorta d’armi, sono giunti assai più presto a conseguire con riputazione il loro intento. Gonciossiachè in tutte le cose, e soprattutto nell’Architettura, sonovi due parti: la cosa significata cioè, e quella che è significante. La cosa significata è quella di cui si tratta: quella che è poi significante si è la dimostrazione svolta colle ragioni delle dottrine. Sicché sembra che esser debba nell’una e nell’altra parte esercitato chi fa professione di Architetto. Quindi bisogna che egli sia uomo di talento, e riflessivo nella dottrina: perciocché né talento senza disciplina, né disciplina senza talento non possono rendere perfetto un’artefice. Sia perciò egli letterato, esperto nel disegno, erudito nella geometria, e non ignorante d’ottica, istruito nell’aritmetica, siangli note non poche istorie, abbia udito con diligenza i filosofi, sappia di musica, non ignori la medicina, abbia cognizione delle leggi dei giurisprudenti, intenda l’astronomia e i moti del cielo …”. [i]
E’ questo l’architetto che i tre inconsapevoli compagni ritengono possessore di un segreto che permetterebbe loro, se conosciuto, di accedere alla maestria.
Siamo nell’ambito della conoscenza filosofica alla quale l’apprendista e il compagno sono giunti con il lavoro del dirozzamento della pietra grezza, apprendendo tutte le arti del trivio e del quadrivio e avendo, con l’esperienza del lavoro di Loggia, affinate le loro capacità. Ed è in quest’ambito che i compagni collocano il segreto del quale vogliono carpire la conoscenza, fino a giungere alla violenza estrema.
I tre compagni inconsapevoli credono di rapportarsi all’architetto di Vitruvio, ma quello che uccidono non è il vitruviano maestro dei costruttori; è l’incarnazione dell’árchetécton, ossia il leggendario Hiram. Conseguentemente, l’architetto resuscitato, ossia rimesso in piedi, è Hiram, simbolo incarnato dell’árchetécton, il Primo Artefice, l’Architetto dell’Universo, così identificato per la prima volta nel Timeo di Platone. Il Creatore, nel Timeo, viene chiamato tékton, che significa «artigiano» o costruttore» e secondo Platone, l’árchetékton costruisce il cosmo per mezzo della geometria.
Architetto è termine di origine greca: architékton, parola composta dai termini árche e técton, che significa “ingegnere”, “capo costruttore”, “primo artefice” o proprio “architetto”.
Il primo termine, arché, connesso con árchein, “principiare”, “comandare”, esprime in greco antico il significato di “impresa”, “partenza”, “origine”, fondazione” o “guida”.
Introdotto da Anassimandro, arché trova nella Metafisica di Aristotele la sua prima completa definizione. Aristotele distingue almeno sei accezioni del termine, riconducibili ai due significati principali di arché, ossia primo per importanza o primo in ordine temporale. Quando primato valoriale e primato temporale coincidono, arché esprime la divinità come massimo valore e causa prima di tutte le cose.
Il secondo termine, técton, richiama diversi significati, tra i quali “inventare”, “creare”, “plasmare”, “costruire”: il fare tecnico e il fare manuale. L’unione dei due termini in archétécton la troviamo per la prima volta da Erodoto (Storie) e vuole indicare chi provveda a dar norma razionale alla costruzione di alcunché: dal caos l’ordine, il cosmo.
In questo senso l’archétécton è cosmocrator.
Nella sostanziale differenza tra i due architetti risiede la chiave di comprensione del passaggio di stato tra il compagno (il cui status rientra nella tradizione e nella cultura delle gilde) e il maestro (il cui status si collega alla tradizione iniziatica degli antichi misteri), che si rivolge al divino, nel suo lato illuminato e manifesto e nel suo lato oscuro, in quanto lo svelarsi della divinità né evidenzia solo una parte, quella illuminata dall’árchetécton, mentre rimane sconosciuta la parte oscura, l’árche.
Il segreto di Hiram non è pertanto un segreto di mestiere, di arte, di abilità; è il segreto della manifestazione (della Parola creatrice), al quale si accompagna il segreto del lato oscuro (scotia), che egli solo sa cogliere, in quanto è in Árché presso se stesso, essendo se stesso.
Del tutto vano è il tentativo dei compagni di strappargli il segreto, in quanto quel segreto non rientra nella conoscenza delle cose umane, ma in quella delle cose divine.
L’aumento di salario che i compagni chiedono, pensando di strappare al maestro il segreto, non è pertanto possibile se non passando attraverso una morte e una resurrezione iniziatica.
Resurrezione e non rinascita, in quanto il compagno è già rinato a nuova vita con l’uscita alla luce dopo la sua morte profana all’inizio del suo percorso massonico.
In questo ulteriore passaggio, muore il filosofo e risorge il filosofo misterico, il filosofo ermetico, il filosofo mistico, ossia colui che si avvia a percorrere la via degli antichi misteri: quella che conduce all’epopteia, alla visione del divino nel suo mostrarsi luminoso (Logos) e alla percezione del divino nel suo oscuro nascondersi (Arché).
I tre maestri che risollevano il compagno trasformato possono essere assimilati a Beatrice, a Bernardo di Chiaravalle e al Logos che inducono in Dante la visione estatica.
Qui, come in Dante, è evidente il passaggio di stato.
Al Canto XVIII del Purgatorio, il Poeta chiede alla sua guida Virgilio (filosofia):
“Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno
– Rispos’io lui – m’hanno discoverto;
Ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno.
Ché s’amore è di fuori a noi offerto,
E l’animo non va con altro piede;
Se dritto o torto va, non è suo merto.
Ed egli a me; Quanto ragion qui vede,
Dir ti poss’io: da indi là, t’aspetta
Pure Beatrice, ch’è opra di fede”.
Virgilio è la filosofia, la sapienza degli uomini. Beatrice è la Sapienza divina (la Luce Beatrice).
Nel Canto XXVII del Purgatorio, Dante si trova davanti a un muro di fuoco e Virgilio gli dice: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”.
E’ un muro che Dante attraverserà, per poi incontrare nel Canto XXX Beatrice, mentre Virgilio scompare e Beatrice lo farà passare attraverso il Lete, facendogli bere l’acqua dell’oblio.
Il richiamo alla ritualità orfica è qui evidente.
Il compagno che sta per essere trasformato, come Dante, è riconosciuto senza macchia, accede all’iniziazione misterica e lo scenario della drammatizzazione rituale cambia improvvisamente e sostanzialmente.
L’assassinio di Hiram acquista il suo significato misterico del sacrificio dell’Uno che, per opera del Logos, dell’Archétecton, si disperde nel molteplice, così come Dioniso lacerato o Osiride tagliato a pezzi.
La ricerca della tomba di Hiram ricorda la ricerca di Osiride da parte di Iside.
L’iniziando non ha usato violenza; chiede di sapere, vuole avanzare nella conoscenza.
Viene pertanto ucciso, subendo la sorte dell’Árchetécton, con gli strumenti del manifesto, dell’esteso, del molteplice e conosce la morte della carne, il destino della finitezza.
La sua resurrezione lo consegna ad un altro stato dell’essere, ma il rituale propone alcuni punti interrogativi.
Il risorto è colui che è morto? Risorto nella carne? Cosa è avvenuto?
Sorgono interrogativi che riguardano il concetto di resurrezione. Interrogativi che non possono essere elusi.
Il grado di maestro, elaborato nel ‘600 da Elias Ashmole, introduce la leggenda sincretica di Hiram, il quale nulla ha a che fare con gli Hiram biblici, se non per l’omonimia.
Il concetto di resurrezione, se collocato in ambito giudaico, meglio: farisaico, implica la resurrezione dei corpi. Tale concetto è transitato nella cultura cristiana delle origini, in un contesto apocalittico che presupponeva la fine dei giorni e l’avvento del Regno di Dio.
Giovanni (5,28) scrive: “…. Perché vien l’ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce, e ne usciranno quelli che hanno operato il bene, risusciteranno alla vita; quelli invece che fecero il male, risusciteranno per la condanna”.
Giovanni (6,36). “Gesù dice…..«che io non perda niente di quanto egli mi ha dato, ma che lo resusciti nell’ultimo giorno»” e poi aggiunge che chi crede in lui come Figlio del Padre lo resusciterà nell’ultimo giorno.
Marta, riferendosi a Lazzaro, dice (Giovanni 11, 24): “Lo so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
E Lazzaro, del resto, nonostante Maria dica: “Signore già puzza, perché è di quattro giorni”, è resuscitato da Gesù.
Tuttavia, Paolo (Lettera ai Corinti) scrive. ” Ma qualcuno dirà: «Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?». Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non tutti i corpi sono uguali: altro è quello degli uomini e altro quello degli animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle. Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità. Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria”.
Nella cultura greca non c’è il concetto di resurrezione dei corpi, ma quello di immortalità dell’anima e se l’anima è il sostegno (olcsos) dato dal daimon (Sé, Spirito) alla psiché (complesso corpo-mente-emozioni), quando questo sostegno viene meno, è ritirato dal daimon, la psiché soggiace al disfacimento.
Il rituale, scritto nel ‘600, presenta una leggenda tratta, apparentemente, dalla Bibbia che risente di un clima pesante di guerra tra il cattolicesimo e le chiese riformate e di una discussione sul concetto di resurrezione, che vede, ad esempio, Thoma Hobbes, nel Leviatano, considerare un tradimento dell’ebraismo l’adozione, da parte delle chiese cristiane, dell’immortalità dell’anima.
Il rituale, dunque, contiene un’ambiguità voluta?
Se escludiamo la metemsomatosi (trasferimento nei corpi, ossia reincarnazione) o la metempsicosi (trasferimento della psichè) e, se consideriamo che il Tempio di Salomone ha da intendersi come tempio spirituale (la Gerusalemme celeste), il compagno, lasciato il tempio cattedrale muratoria accede al Tempio dello Spirito. Quello che risorge, dunque, è un corpo spirituale?
La risposta, dopo quanto letto di Paolo, parrebbe esauriente, ma così non è. Il compagno morto e il compagno risorto come maestro sono la stessa persona?
Cosa è avvenuto?
Una risposta possibile è nei concetti di olcsos e di daimon-olcsos.
Come s’è detto, l’olcsos è un “sostegno”, qualcosa che avvolge, ricopre e segna dimensioni e contorno dei corpi; è quintessenza o etere ed è principio formativo. La nostra anima è concepita come somatos olcsos, sostegno del corpo e consente al corpo di sviluppare tutte le sue proprietà. E’ l’anima che tiene insieme il corpo.
L’anima, dunque, non è la psiché, che possiamo definire come il centro del complesso mente-emozioni-corpo. L’anima è olcsos del daimon, ossia, come per Empedocle, di un essere divino, proveniente da un altro mondo (o dimensione) e peregrinante in questo mondo tramite il complesso mente-emozioni-corpo, ossia tramite la pisché (vedi in proposito anche le Triadi bardiche, nel mio “La via druidica”, Ilmiolibro).
Se l’anima è daimon olcsos, sostegno dato dal daimon, le sue facoltà sono ben più estese di quelle dei sensi e vanno oltre l’orizzonte della stessa psiché.
A quale conoscenza ci conduce?
Una risposta possibile è: all’antica conoscenza detta theóléptos, ossia, possessione del divino, laddove essere theóleptoi o nymphóleptoi era essere agiti dal divino. Intuizione e appercezione (sono gli sguardi noetici) appartengono all’azione del Sé (daimon) che ci ha circondati con il proprio sostegno (olcsos).
Il termine giusto per definire il passaggio di stato da compagno a maestro parrebbe dunque essere: possessione, ossia intervento del daimon, che fa dell’iniziando un uomo assolutamente diverso. Un uomo posseduto da Hiram, dall’Archétecton e, pertanto, non più architetto della materia, ma architetto dello Spirito.
Il daimon dell’iniziato è stato toccato dall’Archétecton, dal Logos, e ha trasformato l’essenza del compagno in quella di maestro.
Siamo in presenza degli echi della corrente giovannista, implicante l’infusione dello Spirito Santo, perché “è all’interno del rito battista – scrive il professor Pesce – che Gesù riceve la rivelazione che cambia la sua vita. Ode la voce di Dio che gli dichiara la sua fiducia e per di più riceve la forza soprannaturale della Spirito Santo …. I Vangeli narrano che egli [Gesù] riceve in sé la forza divina dello Spirito Santo. Lo Spirito scende, si impossessa di lui….Si verifica un fenomeno che potremmo definire di «possessione». Gesù è posseduto dallo Spirito di Dio”. [ii]
E lo Spirito Santo è il Consolatore (Giovanni 14,26), che ricorda il Consolamentum dei Catari e la Sapienza santa dei Fratelli d’Amore.
I tre maestri che sollevano il compagno sono come Beatrice (sapienza del divino), Bernardo (intelletto mistico e suprema intuizione) e Logos, luce e parola di trasformazione.
Questa interpretazione ci immette nell’orizzonte dei Misteri antichi, dei quali la Massoneria è erede.
La restante parte del rituale ci conduce, infatti, nel mezzo dei Misteri antichi, con i toccamenti che sigillano l’avvenuta trasformazione e con le altre azioni del Maestro Venerabile che, nella drammatizzazione rituale della leggenda, incarna Hiram.
Il compagno diventando maestro è stato reso aperto all’azione trasformatrice del Logos ed è divenuto uno ptochos, un mendicante dello Spirito.
E qui sorge un nuovo interrogativo, relativo al rapporto maestro-mendicante, che ci riconduce al paradosso del Logos che è se stesso ed è presso se stesso.
L’essere se stesso implica piena consapevolezza del proprio essere e l’essere presso implica una tensione conoscitiva di se stesso apparentemente contraddittoria con la piena consapevolezza.
Il Logos si riconosce come il Tutto essendo il Tutto, come in un gioco di specchi che ci rinvia allo specchiarsi di Dioniso.
E questo specchiarsi, distanziandosi e riassumendosi, è qualità ora anche del maestro, che è se stesso come maestro ed è presso di se come mendicante dello Spirito.
Mi piace concludere con una citazione di Gustav Meyrink (Il volto verde): “Esiste anche un equinozio dello spirito, e la prima ora del tempo nuovo a cui mi riferisco ne è il punto culminante. In esso si raggiungerà l’equilibrio fra luce e tenebre. Da un millennio e più gli uomini hanno imparato a capire le leggi della natura e a servirsene. Fortunati coloro che hanno riconosciuto e compreso il senso di questo lavoro, ossia il fatto che la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta: costoro sono chiamati a raccogliere la messe; gli altri invece resteranno schiavi che si spezzano la schiena sui campi; con la faccia rivolta alla terra. La chiave del dominio sulla natura interiore è arrugginita sin dal diluvio universale. Essa consiste nella veglia. Restare svegli è tutto”. [iii]
Risorto, rimesso in piedi, “risvegliato”, come il sole al punto vernale. Maestro?
I piani di comprensione si intrecciano.
[i] Vitruvio, De Architettura
[ii] Mauro Pesce, biblista, titolare della cattedra di Storia del Cristianesimo a Bologna, in M.Pesce e C. Augias, Inchiesta su Gesù, Mondadori
[iii] Gustav Meyrink, Il Volto verde, Adelphi