di Silvano Danesi
La necessaria premessa è che il Rito Scozzese, per nulla piramidale, come ben evidenzia il Rituale del 32° Grado, è la felice risultante di un assemblaggio di riti sviluppatisi in modo indipendente nel corso del XVIII secolo, a partire dalle Ordonnances Generales pubblicate dalla Gran Loggia di Francia (1743) e, successivamente, attraverso il Capitolo di Clermont (1754) e gli Imperatori d’Oriente e d’Occidente (1758), che crearono le basi di una ritualità definita Rito di Perfezione o anche Rito di Heredom, il quale fu fondamentale per la successiva unificazione.
Va inoltre premesso che nella seconda parte del Settecento il centro del Rito Scozzese si spostò nel continente americano, dove trovò impulso e diffusione sotto la spinta di Etienne Morin, Henry Franken e di Alexandre de Grasse-Tilly e dove a Charleston (Sud Carolina), il 31 maggio 1801, fu costituito formalmente con la fondazione del primo Supremo Consiglio, detto Madre del Mondo.
Premesso che le invocate Costituzioni federiciane, come è ormai ampiamente accertato, sono un falso ed è pertanto perfettamente inutile riferirsi ad esse come a un documento fondativo.
Tutto ciò premesso, va considerato il 14° grado aveva la valenza, che conserva, di un recupero di attenzione alla tradizione dell’Arco Reale, nei confronti della quale va esercitata la necessaria analisi critica, per non incorrere in un fideismo religioso, dimentico della essenziale considerazione, che traggo da Umberto Gorel Porciatti (Simbologia massonica, Atanor), che la “Tradizione ha un’anima sua che è il simbolo; il simbolo, chiave dei misteri dell’antichità, che nulla ha perduto dei suoi pregi, costituisce un soffio di vita che vive nella Tradizione, la quale muore se non si custodisce il simbolo con la più appassionata cura”.
Il riferimento all’Arco Reale, come vedremo, consente di intravvedere, oltre la camicia di forza del protestantesimo hannoveriano e del cattolicesimo giacobita, un possibile legame diretto con la tradizione primordiale, che René Guenon identifica in quella iperborea, la cui congiunzione con quella occidentale egli identifica nel druidismo, ma le cui radici sono ben presenti nella cultura egizia.
Dell’influenza giacobita sul Rito Scozzese, il 14° grado è testimonianza indiretta, dal momento che in alcune Obbedienze è denominato Grande Cavaliere Scozzese della Sacra Cripta di Giacomo VI, sebbene il suo vecchio nome fosse Grande Eletto Antico Perfetto Maestro.[i]
Inoltre, l’attenzione posta al 14° grado dà la possibilità di rileggere, nella loro indubbia cripticità, le leggende relative alla chiave che consente, secondo la tradizione, di pronunciare correttamente la “Parola Indicibile” (classico ossimoro), la quale, essendo indicibile, non si può pronunciare come una parola detta, ma come un suono o un annuncio (pronuncio: pro, avanti, annunzio): un disvelarsi.
Il 14° grado e il 13°, che ne è la necessaria e inscindibile premessa, costituiscono un passaggio essenziale in quanto formulerebbero, come afferma Porciatti, “per la prima volta la pronuncia vera del Nome Ineffabile, insegnando, sotto un velo molto denso, che essa non ha nulla a vedere con Jéhovah né con Javeh, né con nessun’altra delle pronunce adottate dai vari culti esteriori, ma è quella che il Profeta Enoc, Padre della cabbala, scoprì in fondo alla Volta Sacra – l’Anima umana – ed è Hi-Ho, Lui – Lei, Deis-Deus”. [ii]
E’ davvero come afferma Porciatti? O c’è altro da capire.
Sia pure mantenendo il riferimento della lingua e della mitologia ebraiche, adottate in quanto la lingua ebraica era considerata, come egli stesso asserisce, nel Settecento e Ottocento la lingua sacra (non si conoscevano il sanscrito, l’egizio, il sumero, ecc. ecc. ) e affidandosi alla Cabbala, Porciatti ci indica comunque il passaggio fondamentale da un riferimento giudaico cristiano ad un altro non sussumibile in alcuna religione.
L’attenzione al 14° grado, pertanto, assume il significato di un’indicazione di ricerca.
L’interesse del 14° grado è inoltre testimoniato anche dal fatto che in Francia il 9° grado è conferito “per comunicazione” ed è praticato, al suo posto, il 14°, detto Grande Scozzese dalla Volta celeste.
Le leggende e alcune simbologie sottostanti
La leggenda alla quale si riferisce il 14° grado narra della “Parola indicibile” e del modo con il quale pronunciarla.
Rivelato a Mosè, tale modo fu custodito da Mosè nell’Arca e quando questa fu conquistata dagli Assiri, un leone li mise in fuga. Quando il Gran Sacerdote si recò sul luogo dove giaceva l’Arca, trovò un leone accovacciato che teneva nelle fauci la chiave. Così la pronuncia della “Parola Indicibile” fu ritrovata.
La leggenda del 14° grado, per essere compresa, trova la sua necessaria premessa in quella del 13° (Cavaliere del Real Arco) nella quale si narra che il profeta Enoch, illuminato da un sogno divino, nascose sotto uno dei nove archi, portanti ognuno di essi una qualità del G.A.D.U., un Delta o un triangolo equilatero in agata sul quale stava scolpito in oro il “Nome Indicibile” dell’Essere Supremo. Con il Delta egli nascose pure due colonne: una di marmo, sulla quale era incisa la chiave per pronunciare il “Nome Indicibile”, l’altra in bronzo sulla quale aveva scritti i principi della scienza.
La colonna di bronzo e il Delta vennero ritrovati in fondo alla nona volta.
La colonna di marmo non venne ritrovata. La chiave fu perduta, ma nel 14° grado viene ritrovata.
La simbologia sottostante alla leggenda mette in evidenza alcuni elementi interessanti, tra i quali uno di essi appare come centrale: il leone.
Nel 13° grado abbiamo nove archi, che portano 9 qualità del G.A.D.U. e la colonna di bronzo viene ritrovata sotto la nona volta. Il 9 ha un’importanza fondamentale.
Enoch nasconde un triangolo equiangolo di agata sul quale è inciso in oro il “Nome Indicibile” e due colonne: una di bronzo con i principi della scienza e una di marmo con la chiave della pronuncia del nome.
Il triangolo e la colonna di bronzo sono ritrovati. E’ così recuperata la cognizione della geometria sacra, dei principi della scienza e del “Nome Indicibile”, scritto in oro (aur=luce) su un supporto di agata (dal greco agathé, dal significato di virtù e bene).
Il “Nome Indicibile” è scolpito pertanto in “luce” su un supporto triangolare di virtù.
Il triangolo equilatero è simbolo della forma e il nominare è determinare, manifestare.
Un nome di luce inciso nella forma, che ha come supporto la virtù (la forza), è simbolicamente l’uscire dell’Essere informale, e pertanto non conoscibile, nel campo della forma, per essere nominato (nominarsi), determinato (determinarsi) e reso (rendendosi) pertanto conoscibile.
Delta è la prima lettera del vocabolo greco dynamis, che sta per forza, potenza o, meglio: possibilità di produrre un mutamento o di subirlo.
La chiave che ci dà la pronuncia è la chiave della manifestazione; è la potenza del verbo, del Logos. Che sia il Logos la chiave è indicato simbolicamente dal leone.
Il leone è simbolo di potenza, di sovranità, ma anche del sole, dell’oro, della forza penetrante della luce e del verbo.
Krishna è il leone tra gli animali. Buddha è il leone degli Shakya. Cristo è il leone di Giuda.
Il leone è la potenza della shakti, dell’energia divina.
A questi fugaci riferimenti al simbolismo del leone, aggiungo il mito di Sansone e quello di Eracle e la carta dei Tarocchi intitolata “la Forza”, nelle sue varie versioni (un uomo che bastona un leone; una donna che tiene aperte le fauci del leone; un uomo che lotta con un leone).
Il tema del leone è interessante in quanto ci riconduce al filone gnostico, che tanta parte ha avuto nella simbologia delle cattedrali gotiche e del bestiario medievale.
La carta dei Tarocchi (strumenti di comunicazione iniziatica) ha un significato interessante in quanto rappresenterebbe Sophia (la cui controparte terrena è Achamoth) che trattiene aperte le fauci di Ialdabaoth, il Demiurgo gnostico creatore del mondo materiale, colui che trattiene le anime nella ruota delle incarnazioni (la Ruota dei Tarocchi, la Rotas – Sator del quadrato magico) e che è rappresentato nella forma teriomorfa del leone con la coda di drago (gnosticismo ofita).
Il leone rappresenta anche il Guardiano della Soglia, il custode del luogo santo e della reliquia ed è in questa veste che lo troviamo a guardia del castello che deve raggiungere, attraversando un abisso su una sottile lama affilata, l’eroe del ciclo arturiano, seguendo la via secca (l’altra, quella umida, è l’attraversamento delle acque nel fondo dell’abisso).
Il Guardiano della Soglia ha in bocca la chiave della parola che si deve pronunciare per passare oltre e che ci ricorda il “giusto di voce” Osiride e i Riti orfici, dove il passaggio che conduce oltre al soglia della reincarnazione è data dalla formula di riconoscimento: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato”.
Il tema che si propone è quello di Mnemosyne, la memoria, il ricordo, il ri-accordo, l’accordarsi, l’a-cor-darsi e il cor-actum, il coraggio di affrontare il leone Guardiano della Soglia, il quale, di fronte all’eroe cede la chiave.
E qui si apre il grande tema della paura e, in particolare, della paura della morte.
La chiave è nelle fauci del leone, ossia nel suo ruggito, che mette in moto l’energia divina.
Come ho scritto nel mio: “Le radici scozzesi della Massoneria”, statuti e catechismi della Massoneria operativa scozzese, oltre a consegnarci la mitologia fondativa della muratoria, testimoniano anche della Mason Word, ossia della Parola capace di donare la seconda vista, che per i Druidi era l’’imbas forosnai (scienza che illumina), ossia la veggenza, l’altra vista.
La chiave, il ruggito che crea e la Mason Word.
La parola ben costruita è in indoeuropeo *vek (voce) os tek. La parola dalla radice *vek porta all’indù vac, la parola di luce.
Nel mondo celtico la parola è azione e potere. Esistono parole di medicina e parole invocatorie. I Druidi agiscono con i geasa (singolare: geis), ossia con gli interdetti. La satira di un Druida (dichetal in druad) può rendere brutto, laido, sia fisicamente, sia psicologicamente.
La maledizione suprema, il glam dicinn, è un grido che paralizza la volontà dell’avversario. [iii] Un grido è parola-azione. Diaspad è un grido che esprime il malcontento, il malessere. Diaspad uwch Annufn è il grido acuto al di là dell’Abisso.
Le parole dei Druidi sono pertanto parole-azione. “Questo potere della parola si raddoppia nella potenza del «soffio», che ha dato origine all’immagine del «vento» druidico….”[iv]
Giamblico, che ci riporta il pensiero dell’antico Egitto, altro riferimento significativo del pensiero massonico testimoniato dagli Old Charges, che citano Ermete Trismegisto, scrive: “Voglio spiegarti il modo della teologia degli Egiziani, perché questi, imitando la natura dell’universo e la creazione divina, fanno vedere mediante simboli alcune immagini di certi pensieri mistici e nascosti e invisibili, allo stesso modo in cui anche la natura ha manifestato attraverso simboli le ragioni invisibili mediante le forme visibili e la creazione divina tratteggia la verità delle idee attraverso le forme manifeste”. [v]
La natura, dunque, mediante simboli, manifesta le ragioni invisibili dell’Origine.
In questa manifestazione delle ragioni invisibili dell’Origine, la parola (il verbo, in altri termini il Logos) ha una funzione primaria attivante e improntante ed è per questo motivo che la parola ha un posto privilegiato nella cultura massonica che, non per nulla, inizia con il silenzio: quello dell’apprendista, che nell’ascolto silenzioso si carica di volontà di parola, così come l’Arché, l’abisso tenebroso e silenzioso, nell’immoto silenzio si carica di ardore manifestativo.
La parola è quella dell’uomo, che manifesta il suo pensiero; è quella della natura e del cosmo, che manifestano le ragioni invisibili dell’Archè; è quella improntante e illuminante del Logos.
Nella parola del Cosmo, nei suoni dell’universo, delle stelle e dei pianeti, della natura terrestre, animale, vegetale e minerale incontriamo la musica; incontriamo il significato profondo della ricerca massonica della “parola perduta”.
Nel libro XVI de: “La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto”, Asclepio spiega come la lingua sequenziale greca non renda il senso chiaro delle parole, così come lo è per la lingua egizia, in quanto è in questa lingua che “la qualità stessa del suono e il [tono] dei nomi egiziani ….hanno in sé l’energia delle cose che esprimono”.
Noi, dice Asclepio, “non usiamo parole, ma suoni pieni d’azione”, in altri termini energia, lavoro creativo.
Su questa definizione di “suoni pieni d’azione” è opportuno appuntare la nostra attenzione.
“I Druidi conoscevano i misteri, i segreti del mondo, ciò che i Celti esprimevano con il termine rin-, equivalente al germanico run. Il rin è ciò che il profano non deve conoscere”.[vi] Per inciso vorrei ricordare che in Egizio antico ren è il nome segreto.
La R sonora è il modo dell’agitarsi del silenzio, il suono della manifestazione
La lettera R, secondo Franco Rendich, dà il senso del muovere verso, del raggiungere, del giungere. Dalla R derivano le radici *ar, *ir, *ur, *ra, *ri, *ru.
Ra e ri danno il senso del fluire. La radice *ru ha il significato di arrivare con intensità e si riferisce ai suoni ed è all’origine del verbo Ru, gridare. La radice composta *ruc faceva riferimento al giungere alla luce in cielo. In sanscrito ruc è splendere. Il ruggito R è l’espressione dell’energia vitale e della luce.
“In conclusione – scrive Rendich – le radici ur e ru designavano le tre principali vie attraverso le quali, con forza impetuosa [u] ci giungono [r] gli stimoli del mondo esterno: la via «uditiva», quella «visiva» e quella «cinestesica». [vii]
Ŗitam in sanscrito è regola.
La consonante R corrisponde alla vocale ŗ che nella forma verbale significa muovere, muovere verso, giungere, raggiungere, fluire
In sanscrito ŗta significa il giusto incontro, legge, regola.
Nel linguaggio ogamico R è associata a Ruis, il sambuco e al rosso, all’arrossamento, simbolo dell’ardore: l’agitazione primordiale.
B è bios, energia vitale. In sanscrito bhās è splendere da cui phōs, luce. Bŗh in sanscrito è crescere, espandersi, espandere la coscienza, crescere spiritualmente. Br significa espansione (da cui l’indù Brahma e la celtica Brighit)[viii]. L’energia vitale B si espande R.
Le rune sono un’altra testimonianza del valore della R e, contemporaneamente, di un percorso manifestativo del divino.
Mario Polia, nel suo “Le Rune e i simboli”,[ix] fa notare che sono state proposte due principali etimologie per la parola «runa». La prima fa capo al Pokorny che la riporta all’indo europeo Reu-, radice che indica il muggire, brontolare, borbottare tra i denti. Da tale radice discende il latino rumor, rumore; antico islandese ryna, sussurrare, rymja, brontolare, rúna, mistero. Nel finlandese runo si riferisce sempre e solo ai canti epici o a carmi magici. Nell’antico irlandese rūn è mistero. Nell’antico inglese run è segreto e runyan mormorare. L’antico irlandese ci dà rún e comrún (segreto messo in comune).[x] Taliesin usa il potere del rhinwedd (conoscenza segreta).
L’insieme delle radici riguardanti il termine runa ci consegna il doppio significato di espressione vocale (parola, canto) e di segreto.
La runa, quella scritta, è pertanto la cristallizzazione di una vocalità misteriosa e segreta: una vibrazione capace di creare. L’arte della parola e del canto è legata al potere creatore, perché in essa è contenuta la sapienza stessa del dio. La parola è il momento fondamentale del processo creativo, non solo perché il dono della parola fu fatto agli uomini dagli dèi, ma perché la saggezza originaria, si manifestò attraverso la parola. “Allora la testa di Mimir pronunciò/con senno la prima parola/ e disse le rune veraci”. La parola è dunque sacra, la parola è potente, perché è pensiero in azione.
Odino rimase 9 notti appeso all’albero del mondo per apprendere la sapienza della rune e Odino è il dio che urla ed è colui che possiede la parola creatrice.
“Chi crea (il poeta, il sacerdote, il mago creano attraverso la parola) ripete l’atto archetipico della creazione e crea mediante la potenza diffusa in tutto l’universo e per virtù del soffio vitale (önd) che Odino infuse nell’uomo. Chi conosce può conoscere in quanto è il dio che è in lui che conosce (o riconosce o «si ricorda» di se stesso)”. [xi]
Focalizziamo l’attenzione sulla runa Raidô, che rappresenta il sole nascente ed è la parola che si fa luce. In sanscrito svara è luce e swar è suono.
Raidô, scrive Polia “contiene in se l’idea di «suono» e «movimento» e indica l’effetto del disserrarsi della «bocca» divina: l’inizio della «rotazione» universale”. [xii]
Raidô nella serie runica viene dopo Fehu, che rappresenta “il soffio non ancora modulato, non ancora divenuto parola”[xiii] (il silenzio rituale, nel quale stette Odino per nove notti, al fine di avere la Scienza runica); dopo Ûruz, la potenza del Caos non ancora ordinato dalla parola ordinante del Verbo; dopo Purisaz, la “potenza racchiusa nella «pietra» che può essere ridestata e ordinata”[xiv], come mostra il mito di Torr che sconfigge il gigante Hrungnir, il gigante dal cuore di pietra. Anche Mimir è un gigante ed è il custode della fonte della sapienza (letteralmente della memoria).[xv]Nella serie runica, infine, prima di Raidô c’è Ansuz, il soffio vitale, l’energia divina che anima il cosmo
“La runa è identificata – scrive Polia – espressamente con Odino. Nei Veda il suono primordiale è il primo sacrificio del Supremo: l’Unità si autosacrifica emettendo un «canto» che è contemporaneamente «luce»; «Dalla bocca (di Atman) nacque vāc (la Parola, il Verbo) e da vāc balzò fuori il dio Agne (il Fuoco del sacrificio, il Fuoco d’Ariete). Questo passaggio dal Silenzio primordiale al Canto è detto, in India, sphota, «apertura» analoga al dischiudersi di un fiore. E’ il passaggio dall’oscurità alla luce: Parola delle Origini è «massa di suono puro», «etere radiante», «etere che ha la luce del diamante-folgore» (vajra-akasha”. [xvi]
E’ lo stesso concetto espresso nella Tradizione druidica.
“Nei Veda – sottolinea Polia – la Morte, intesa come oscura origine della Vita, per crearsi un corpo canta un inno di lode e questo inno è un canto a piena voce (ark) che si accompagna alla gioia (ka) e crea il Cosmo”. [xvii]
segue
[i] Vedi in proposito Charles W Leadbeater, La Massoneria e gli antichi misteri, Atanor
[ii] Umberto Gorel Porciatti, Simbologia massonica, Atanor.
[iii] Vedi. Yvan Guéhennec, Les Celtes et la parole sacrée, Editions label LN
[iv] Yvan Guéhennec, Les Celtes et la parole sacrée, Editions label LN
[v] Giamblico, Il mistero degli Egiziani, Bur
[vi] Yvan Guéhennec, Les Celtes et la parole sacrée, Editions label LN
[vii] Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi
[viii] Vedi Franco Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee, Palombi
[ix] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[x] Yvan Guéhennec, Les Celtes et la parole sacrée, Editions label LN
[xi] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xiii] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xiv] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xv] Vedi Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xvi] Vedi Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo
[xvii] Vedi Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo