di Silvano Danesi
Vitruvio nel De Architettura definisce l’arte costruttoria come una scienza che si è adornata di più dottrine e di varie erudizioni, “col sentimento delle quali giudica di tutte quelle opere che sono perfezionate dalle arti rimanenti. Ella nasce dall’esperienza non meno che dal raziocinio. L’esperienza è una riflessione continua e consumata sull’uso, la quale si perfeziona coll’operare sulla materia di qualunque genere, e necessaria giusta l’idea del disegno. Il raziocinio poi è quello che può dimostrare le cose fabbricate, e manifestarle con prontezza, e con le ragioni della proporzione. Per lo che quegli Architetti che illetterati hanno tentato di operare sulla materia, non hanno potuto arrecare tanto di credito alle loro fatiche, sì che ne acquistassero fama; e quelli poi che nel raziocinio e nelle sole lettere sonosi fidati, l’ombra, non già la cosa, sembra che abbiano seguitata. Ma quelli che fondatamente appresero l’una e l’altra, come uomini provveduti d’ogni sorta d’armi, sono giunti assai più presto a conseguire con riputazione il loro intento. Gonciossiachè in tutte le cose, e soprattutto nell’Architettura, sonovi due parti: la cosa significata cioè, e quella che è significante. La cosa significata è quella di cui si tratta: quella che è poi significante si è la dimostrazione svolta colle ragioni delle dottrine. Sicché sembra che esser debba nell’una e nell’altra parte esercitato chi fa professione di Architetto. Quindi bisogna che egli sia uomo di talento, e riflessivo nella dottrina: perciocché né talento senza disciplina, né disciplina senza talento non possono rendere perfetto un’artefice. Sia perciò egli letterato, esperto nel disegno, erudito nella geometria, e non ignorante d’ottica, istruito nell’aritmetica, siangli note non poche istorie, abbia udito con diligenza i filosofi, sappia di musica, non ignori la medicina, abbia cognizione delle leggi dei giurisprudenti, intenda l’astronomia e i moti del cielo …”. [i]
E’ questo l’architetto che i tre inconsapevoli compagni ritengono possessore di un segreto che permetterebbe loro, se conosciuto, di accedere alla maestria.
Siamo nell’ambito della conoscenza filosofica alla quale l’apprendista e il compagno sono giunti con il lavoro del dirozzamento della pietra grezza, apprendendo tutte le arti del trivio e del quadrivio e avendo, con l’esperienza del lavoro di Loggia, affinate le loro capacità. Ed è in quest’ambito che i compagni collocano il segreto del quale vogliono carpire la conoscenza, fino a giungere alla violenza estrema.
I tre compagni inconsapevoli credono di rapportarsi all’architetto di Vitruvio, ma quello che uccidono non è il vitruviano maestro dei costruttori; è l’incarnazione dell’árchetécton, ossia il leggendario Hiram. Conseguentemente, l’architetto resuscitato, ossia rimesso in piedi, è Hiram, simbolo incarnato dell’árchetécton, il Primo Artefice, l’Architetto dell’Universo, così identificato per la prima volta nel Timeo di Platone. Il Creatore, nel Timeo, viene chiamato tékton, che significa «artigiano» o costruttore» e secondo Platone, l’árchetékton costruisce il cosmo per mezzo della geometria.
Architetto è termine di origine greca: architékton, parola composta dai termini árche e técton, che significa “ingegnere”, “capo costruttore”, “primo artefice” o proprio “architetto”.
Il primo termine, arché, connesso con árchein, “principiare”, “comandare”, esprime in greco antico il significato di “impresa”, “partenza”, “origine”, fondazione” o “guida”.
Introdotto da Anassimandro, arché trova nella Metafisica di Aristotele la sua prima completa definizione. Aristotele distingue almeno sei accezioni del termine, riconducibili ai due significati principali di arché, ossia primo per importanza o primo in ordine temporale. Quando primato valoriale e primato temporale coincidono, arché esprime la divinità come massimo valore e causa prima di tutte le cose.
Il secondo termine, técton, richiama diversi significati, tra i quali “inventare”, “creare”, “plasmare”, “costruire”: il fare tecnico e il fare manuale. L’unione dei due termini in archétécton la troviamo per la prima volta da Erodoto (Storie) e vuole indicare chi provveda a dar norma razionale alla costruzione di alcunché: dal caos l’ordine, il cosmo.
In questo senso l’archétécton è cosmocrator.
Nella sostanziale differenza tra i due architetti risiede la chiave di comprensione del passaggio di stato tra il compagno (il cui status rientra nella tradizione e nella cultura delle gilde) e il maestro (il cui status si collega alla tradizione iniziatica degli antichi misteri), che si rivolge al divino, nel suo lato illuminato e manifesto e nel suo lato oscuro, in quanto lo svelarsi della divinità né evidenzia solo una parte, quella illuminata dall’árchetécton, mentre rimane sconosciuta la parte oscura, l’árche.
Il segreto di Hiram non è pertanto un segreto di mestiere, di arte, di abilità; è il segreto della manifestazione (della Parola creatrice), al quale si accompagna il segreto del lato oscuro (scotia), che egli solo sa cogliere, in quanto è in Árché presso se stesso, essendo se stesso.
Del tutto vano è il tentativo dei compagni di strappargli il segreto, in quanto quel segreto non rientra nella conoscenza delle cose umane, ma in quella delle cose divine.
L’aumento di salario che i compagni chiedono, pensando di strappare al maestro il segreto, non è pertanto possibile se non passando attraverso una morte e una resurrezione iniziatica.
Resurrezione e non rinascita, in quanto il compagno è già rinato a nuova vita con l’uscita alla luce dopo la sua morte profana all’inizio del suo percorso massonico.
In questo ulteriore passaggio, muore il filosofo e risorge il filosofo misterico, il filosofo ermetico, il filosofo mistico, ossia colui che si avvia a percorrere la via degli antichi misteri: quella che conduce all’epopteia, alla visione del divino nel suo mostrarsi luminoso (Logos) e alla percezione del divino nel suo oscuro nascondersi (Arché).
I tre maestri che risollevano il compagno trasformato possono essere assimilati a Beatrice, a Bernardo di Chiaravalle e al Logos che inducono in Dante la visione estatica.
Qui, come in Dante, è evidente il passaggio di stato.
Al Canto XVIII del Purgatorio, il Poeta chiede alla sua guida Virgilio (filosofia):
“Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno
– Rispos’io lui – m’hanno discoverto;
Ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno.
Ché s’amore è di fuori a noi offerto,
E l’animo non va con altro piede;
Se dritto o torto va, non è suo merto.
Ed egli a me; Quanto ragion qui vede,
Dir ti poss’io: da indi là, t’aspetta
Pure Beatrice, ch’è opra di fede”.
Virgilio è la filosofia, la sapienza degli uomini. Beatrice è la Sapienza divina (la Luce Beatrice).
Nel Canto XXVII del Purgatorio, Dante si trova davanti a un muro di fuoco e Virgilio gli dice: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”.
E’ un muro che Dante attraverserà, per poi incontrare nel Canto XXX Beatrice, mentre Virgilio scompare e Beatrice lo farà passare attraverso il Lete, facendogli bere l’acqua dell’oblio.
Il richiamo alla ritualità orfica è qui evidente.
Il compagno che sta per essere trasformato, come Dante, è riconosciuto senza macchia, accede all’iniziazione misterica e lo scenario della drammatizzazione rituale cambia improvvisamente e sostanzialmente.
L’assassinio di Hiram acquista il suo significato misterico del sacrificio dell’Uno che, per opera del Logos, dell’Archétecton, si disperde nel molteplice, così come Dioniso lacerato o Osiride tagliato a pezzi.
La ricerca della tomba di Hiram ricorda la ricerca di Osiride da parte di Iside.
L’iniziando non ha usato violenza; chiede di sapere, vuole avanzare nella conoscenza.
Viene pertanto ucciso, subendo la sorte dell’Árchetécton, con gli strumenti del manifesto, dell’esteso, del molteplice e conosce la morte della carne, il destino della finitezza.
La sua resurrezione lo consegna ad un altro stato dell’essere, ma il rituale propone alcuni punti interrogativi.
Il risorto è colui che è morto? Risorto nella carne? Cosa è avvenuto?
Sorgono interrogativi che riguardano il concetto di resurrezione. Interrogativi che non possono essere elusi.
Il grado di maestro, elaborato nel ‘600 da Elias Ashmole, introduce la leggenda sincretica di Hiram, il quale nulla ha a che fare con gli Hiram biblici, se non per l’omonimia.
Il concetto di resurrezione, se collocato in ambito giudaico, meglio: farisaico, implica la resurrezione dei corpi. Tale concetto è transitato nella cultura cristiana delle origini, in un contesto apocalittico che presupponeva la fine dei giorni e l’avvento del Regno di Dio.
Giovanni (5,28) scrive: “…. Perché vien l’ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce, e ne usciranno quelli che hanno operato il bene, risusciteranno alla vita; quelli invece che fecero il male, risusciteranno per la condanna”.
Giovanni (6,36). “Gesù dice…..«che io non perda niente di quanto egli mi ha dato, ma che lo resusciti nell’ultimo giorno»” e poi aggiunge che chi crede in lui come Figlio del Padre lo resusciterà nell’ultimo giorno.
Marta, riferendosi a Lazzaro, dice (Giovanni 11, 24): “Lo so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
E Lazzaro, del resto, nonostante Maria dica: “Signore già puzza, perché è di quattro giorni”, è resuscitato da Gesù.
Tuttavia, Paolo (Lettera ai Corinti) scrive. ” Ma qualcuno dirà: «Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?». Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non tutti i corpi sono uguali: altro è quello degli uomini e altro quello degli animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle. Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità. Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria”.
Nella cultura greca non c’è il concetto di resurrezione dei corpi, ma quello di immortalità dell’anima e se l’anima è il sostegno (olcsos) dato dal daimon (Sé, Spirito) alla psiché (complesso corpo-mente-emozioni), quando questo sostegno viene meno, è ritirato dal daimon, la psiché soggiace al disfacimento.
Il rituale, scritto nel ‘600, presenta una leggenda tratta, apparentemente, dalla Bibbia che risente di un clima pesante di guerra tra il cattolicesimo e le chiese riformate e di una discussione sul concetto di resurrezione, che vede, ad esempio, Thoma Hobbes, nel Leviatano, considerare un tradimento dell’ebraismo l’adozione, da parte delle chiese cristiane, dell’immortalità dell’anima.
Il rituale, dunque, contiene un’ambiguità voluta?
Se escludiamo la metemsomatosi (trasferimento nei corpi, ossia reincarnazione) o la metempsicosi (trasferimento della psichè) e, se consideriamo che il Tempio di Salomone ha da intendersi come tempio spirituale (la Gerusalemme celeste), il compagno, lasciato il tempio cattedrale muratoria accede al Tempio dello Spirito. Quello che risorge, dunque, è un corpo spirituale?
La risposta, dopo quanto letto di Paolo, parrebbe esauriente, ma così non è. Il compagno morto e il compagno risorto come maestro sono la stessa persona?
Cosa è avvenuto?
Una risposta possibile è nei concetti di olcsos e di daimon-olcsos.
Come s’è detto, l’olcsos è un “sostegno”, qualcosa che avvolge, ricopre e segna dimensioni e contorno dei corpi; è quintessenza o etere ed è principio formativo. La nostra anima è concepita come somatos olcsos, sostegno del corpo e consente al corpo di sviluppare tutte le sue proprietà. E’ l’anima che tiene insieme il corpo.
L’anima, dunque, non è la psiché, che possiamo definire come il centro del complesso mente-emozioni-corpo. L’anima è olcsos del daimon, ossia, come per Empedocle, di un essere divino, proveniente da un altro mondo (o dimensione) e peregrinante in questo mondo tramite il complesso mente-emozioni-corpo, ossia tramite la pisché (vedi in proposito anche le Triadi bardiche, nel mio “La via druidica”, Ilmiolibro).
Se l’anima è daimon olcsos, sostegno dato dal daimon, le sue facoltà sono ben più estese di quelle dei sensi e vanno oltre l’orizzonte della stessa psiché.
A quale conoscenza ci conduce?
Una risposta possibile è: all’antica conoscenza detta theóléptos, ossia, possessione del divino, laddove essere theóleptoi o nymphóleptoi era essere agiti dal divino. Intuizione e appercezione (sono gli sguardi noetici) appartengono all’azione del Sé (daimon) che ci ha circondati con il proprio sostegno (olcsos).
Il termine giusto per definire il passaggio di stato da compagno a maestro parrebbe dunque essere: possessione, ossia intervento del daimon, che fa dell’iniziando un uomo assolutamente diverso. Un uomo posseduto da Hiram, dall’Archétecton e, pertanto, non più architetto della materia, ma architetto dello Spirito.
Il daimon dell’iniziato è stato toccato dall’Archétecton, dal Logos, e ha trasformato l’essenza del compagno in quella di maestro.
Siamo in presenza degli echi della corrente giovannista, implicante l’infusione dello Spirito Santo, perché “è all’interno del rito battista – scrive il professor Pesce – che Gesù riceve la rivelazione che cambia la sua vita. Ode la voce di Dio che gli dichiara la sua fiducia e per di più riceve la forza soprannaturale della Spirito Santo …. I Vangeli narrano che egli [Gesù] riceve in sé la forza divina dello Spirito Santo. Lo Spirito scende, si impossessa di lui….Si verifica un fenomeno che potremmo definire di «possessione». Gesù è posseduto dallo Spirito di Dio”. [ii]
E lo Spirito Santo è il Consolatore (Giovanni 14,26), che ricorda il Consolamentum dei Catari e la Sapienza santa dei Fratelli d’Amore.
I tre maestri che sollevano il compagno sono come Beatrice (sapienza del divino), Bernardo (intelletto mistico e suprema intuizione) e Logos, luce e parola di trasformazione.
Questa interpretazione ci immette nell’orizzonte dei Misteri antichi, dei quali la Massoneria è erede.
La restante parte del rituale ci conduce, infatti, nel mezzo dei Misteri antichi, con i toccamenti che sigillano l’avvenuta trasformazione e con le altre azioni del Maestro Venerabile che, nella drammatizzazione rituale della leggenda, incarna Hiram.
Il compagno diventando maestro è stato reso aperto all’azione trasformatrice del Logos ed è divenuto uno ptochos, un mendicante dello Spirito.
E qui sorge un nuovo interrogativo, relativo al rapporto maestro-mendicante, che ci riconduce al paradosso del Logos che è se stesso ed è presso se stesso.
L’essere se stesso implica piena consapevolezza del proprio essere e l’essere presso implica una tensione conoscitiva di se stesso apparentemente contraddittoria con la piena consapevolezza.
Il Logos si riconosce come il Tutto essendo il Tutto, come in un gioco di specchi che ci rinvia allo specchiarsi di Dioniso.
E questo specchiarsi, distanziandosi e riassumendosi, è qualità ora anche del maestro, che è se stesso come maestro ed è presso di se come mendicante dello Spirito.
Mi piace concludere con una citazione di Gustav Meyrink (Il volto verde): “Esiste anche un equinozio dello spirito, e la prima ora del tempo nuovo a cui mi riferisco ne è il punto culminante. In esso si raggiungerà l’equilibrio fra luce e tenebre. Da un millennio e più gli uomini hanno imparato a capire le leggi della natura e a servirsene. Fortunati coloro che hanno riconosciuto e compreso il senso di questo lavoro, ossia il fatto che la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta: costoro sono chiamati a raccogliere la messe; gli altri invece resteranno schiavi che si spezzano la schiena sui campi; con la faccia rivolta alla terra. La chiave del dominio sulla natura interiore è arrugginita sin dal diluvio universale. Essa consiste nella veglia. Restare svegli è tutto”. [iii]
Risorto, rimesso in piedi, “risvegliato”, come il sole al punto vernale. Maestro?
I piani di comprensione si intrecciano.
[i] Vitruvio, De Architettura
[ii] Mauro Pesce, biblista, titolare della cattedra di Storia del Cristianesimo a Bologna, in M.Pesce e C. Augias, Inchiesta su Gesù, Mondadori
[iii] Gustav Meyrink, Il Volto verde, Adelphi
di Silvano Danesi
La leggenda templare e i Saggi del Nord
“Secondo la leggenda del 30° grado [del Rito Scozzese Antico ed Accettato, ndr], l’Ordine dei Cavalieri del Tempio comprendeva pure un collegio di “Santi” (in ebraico Kadosch) che professavano una dottrina segreta, appresa in Oriente. Dopo la dispersione dell’Ordine, questo collegio si perpetuò, per via di iniziazione, sia fra i Cavalieri di sant’Andrea di Scozia [vedi 29° grado], sia come organismo indipendente”. [i]
Le conoscenze dei Cavalieri del Tempio e dei “Santi”, secondo varie tradizioni massoniche, sarebbe poi passata alla Massoneria e il 30° grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato sarebbe pertanto la continuazione della catena iniziatica.
Rintracciare gli anelli della catena è compito arduo, ma non impossibile. Vediamo, dunque, alcuni elementi che ci possono essere utili.
“Una volta, in tempi così antichi che l’umanità ne ha quasi perso il ricordo – scrive Christian Jacq -, degli esseri eccezionali abitavano una regione meravigliosa che offriva tutte le ricchezze della vita. Eccezionali, perché avevano affrontato vittoriosamente molte difficili prove prima di raggiungere quell’Eden e perché avevano saputo trovare la strada che conduceva in quel luogo paradisiaco dove il sole dolce e benefico non tramontava mai. Ebbene, questa confraternita non è un’istituzione del tutto scomparsa. Ancora oggi esiste un collegio iniziatico che tramanda l’antica saggezza e la rende attuale attraverso vari livelli delle nostre società”.[ii] “La misteriosa confraternita – si chiede Jacq – faceva quindi parte della «catena» simbolica che, partendo dal Vicino Oriente, e più precisamente dall’Egitto, attraversò il mondo greco-romano, assunse molteplici volti dell’ellenismo, della gnosi, e conobbe il suo apogeo nel medioevo delle cattedrali?”.
“Nella civiltà greca, Apollo – scrive ancora Jacq – si afferma come Maestro spirituale dei Saggi del Nord. Ebbene, Latona, madre di Apollo, apparteneva alla prima generazione degli dèi ed era nata nel paradiso nordico”.
Latona, la Notte, la Grande Tenebra, era madre di Apollo e di Artemide.
Un mito narra che Apollo ritorna nel paradiso nordico, in Iperborea, ogni diciannove anni.
“Apollo – aggiunge ancora Jacq – prototipo dell’iniziato ai misteri del sole nascosto, ci trasmette altri messaggi. Uno degli epiteti del dio, Loxias, è particolarmente importante, perché ci ricorda che Apollo fu cresciuto da Loxo, sacerdotessa della comunità femminile che aveva trovato rifugio nel paradiso nordico”.
“Tra gli autori dei vecchi racconti mitologici, Ecateo e qualche altro – scrive Diodoro Siculo – dicono in effetti che nelle regioni che si trovano di fronte alla Celtica, vi è un’isola che non è meno importante della Sicilia. Essa è situata al nord ed abitata da quelli che vengono chiamati Iperborei perché sono al di là del soffio del Boreo; quest’isola ha un suolo fertile che permette ogni tipo di produzione ed il clima considerevole produce due raccolti per anno. Secondo i mitologi, è là che Leto venne al mondo; anche Apollo è onorato presso di loro, più che gli altri dei. Vi sono per così dire dei preti di Apollo perché questo dio è onorato quotidianamente senza sosta con dei canti e onorato in modo notevole. Nell’isola si trova anche uno splendido santuario di Apollo ed un tempio considerevole ornato di numerose offerte e che ha forma di una sfera. Si trova anche una città consacrata a questo dio e la maggior parte dei suoi abitanti sono citaristi, essi suonano continuamente la cetra nei templi, indirizzando degli inni al dio per glorificare le sue imprese. Gli Iperborei possiedono una lingua particolare… (…) Si dice anche che dopo quest’isola la luna sembra molto poco distante dalla terra e che si possono vedere le gibbosità del terreno sulla sua superficie. Si dice anche che il dio si reca nell’isola ogni diciannove anni, tempo nel quale gli astri portano a termine il loro ciclo… (…) [E’ il ciclo di Metone, ndr]. Al momento della sua apparizione, il dio suona la cetra e balla senza sosta ogni notte, dall’equinozio di primavera al sorgere delle Pleiadi, affascinato dai suoi successi. I re di questa città ed i reggitori dei santuari sono coloro chiamati i Boreadi, essendo discendenti di Boreo, e si trasmettono il loro poteri continuamente di generazione in generazione.” – Diodoro Siculo, Biblioteca storica, II,XLVII, 1-7
Paolo Diacono, nella sua famosa Historia Langobardorum, parla di sette saggi che dormono in una caverna a nord del mondo. “Nell’estremo lembo della Germania, a tramontana e proprio sulle rive dell’oceano, si può vedere un antro sovrastato da una rupe, e lì, non si sa da quanto tempo, sette uomini dormono immersi in un lungo sonno: così integri non solo nei corpi, ma anche nelle vesti, e da si lungo volgere d’anni, da essere diventati oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare”.[iii]
I Templari e la spiritualità celtica
La letteratura relativa ai Templari ci ricorda che nel 1070 un gruppo di monaci provenienti dalla Calabria, capeggiati da un certo Ursus, un nome che nei documenti del Priorato di Sion è spesso associato alla stirpe merovingia, aveva raggiunto la foresta delle Ardenne, proprietà di Goffredo di Buglione e luogo dove si narra sia esistita una società segreta di iniziati, probabilmente in rapporto con i culti della Dea Arduina (Ardwinna, l’Orsa Bianca, da art = orsa e win = bianca, la Dea Bianca), che nella mitologia celtica è la Dea delle foreste, rappresentata come una cacciatrice a cavallo di un cinghiale (Il suo culto ebbe origine, appunto, nelle Ardenne e in seguito Arduina venne assimilata alla romana Diana).
I monaci calabresi ottennero la protezione di Matilde, Duchessa di Toscana e madre adottiva di Goffredo, che donò loro un vasto appezzamento di terreno in Orval, nei pressi di Stenay, il luogo in cui era stato assassinato Dagoberto II, l’ultimo dei merovingi. Sul terreno i monaci costruirono un’abbazia, ma non vi restarono a lungo, poiché già nel 1108 erano tutti misteriosamente scomparsi verso destinazione ignota. Nel 1131 l’abbazia di Orval venne definitivamente assegnata a Bernardo di Chiaravalle. E qui notiamo una prima importante coincidenza: Bernardo è colui che predispone la regole dei Cavalieri del Tempio e che è ufficialmente l’ispiratore delle loro azioni.
Nel 1114 i Cavalieri Templari risultano già attivi come braccio armato dell’Ordine di Sion, ma la loro costituzione viene esaminata solo nel 1117, per essere poi approvata nel 1118 su istanza di Hughes de Payns ed Andrea di Montbard, lo zio materno di Bernardo.
L’ordine monastico nel quale era entrato Bernardo di Chiaravalle aveva seri problemi finanziari e fu allora che una svolta improvvisa cambiò i destini dei Cistercensi, che dalla miseria cui erano ridotti, proprio grazie all’ingresso di Bernardo e dei suoi parenti, si ritrovarono ad essere una delle istituzioni religiose eminenti, ricche ed influenti d’Europa.
Il 13 gennaio 1129 durante il Concilio di Troyes viene redatto e approvato il regolamento dei Templari.
Nello stesso periodo è attiva la Scuola di Chartres, Parigi è divenuto il punto di riferimento del fermento innovativo che contraddistingue il XII secolo e non passeranno molti anni per vedere Chrétien de Troyes scrivere Le Conte du Graal (1174-1175?) e Wolfram il Parzival (1210). Abelardo nel 1123 fonda a Nogent sur Seine, nei pressi di Troyes, un piccolo monastero scuola, il Paracleto. Nel 1128 diventa abate di Saint Gildas, mentre Eloisa diventa abbadessa del Paracleto (1129). Alla morte di Abelardo il suo corpo è trasportato al Paracleto, convento guidato da Eloisa e divenuto influente, che diverrà il luogo di studio dell’opera abelardiana e manterrà questa impronta nei secoli.
La Champagne si pone come centro di grande interesse per il suo ruolo antico in relazione al mondo druidico.
Jean Louis Brunaux[iv], nell’ambito di uno studio teso ad analizzare i rapporti intensi tra Celti e Greci e, in particolare, tra druidi e filosofi (essendo anche i druidi riconosciuti dai Greci come tali) analizza il fenomeno dell’improvvisa scomparsa, nel 500 a.C., dei principi halstattiani, dovuta, secondo alcuni, allo spostarsi delle vie commerciali greche ed etrusche a causa delle difficoltà della colonia greca di Marsiglia. “Gli Etruschi – scrive Brunaux – avrebbero allora beneficiato delle difficoltà della colonia e avrebbero sviluppato delle relazioni più strette con i territori periferici del “cerchio halstattiano occidentale”, la Champagne, il Berry, l’Hunsrück Eiffel”.[v] Questo spostamento, fa notare Brunaux, a fronte del declino rapido del “principi” halstattiani, scomparsi in pochissimo tempo, come mostra la fine delle sontuose sepolture, non ha causato negli aristocratici della Champagne un innalzamento a “principi” del loro status e i costumi sono rimasti quelli di una società comunitaria, la cui aristocrazia non si considera costituita da uomini di un’altra essenza. Brunaux ritiene pertanto che la rapida scomparsa dei “principi” halstattiani sia dovuta al fatto che la loro perdita di potere economico ha consentito il sopravvento di un fenomeno culturale “che ha potuto conoscere molto rapidamente una traduzione politica, ma la cui origine era soprattutto di natura spirituale. Prima del loro ruolo economico e politico è lo sfruttamento della loro stessa immagine che è stato negato ai principi e ai grandi aristocratici. Si è loro rifiutato il privilegio di mettersi al di sopra dei comuni mortali. … Certamente, dai tempi più antichi, quelli della loro origine, esisteva presso i Celti una spiritualità arcaica e severa, che non lasciò che un flebile spazio alle diverse forme di materialità. La cultura di Halstatt, tutta impregnata di influenze venete ed etrusche, aveva permesso a delle nuove forme di espressione di liberarsi di una tale costrizione. Ma lo ha fatto con degli eccessi e con precipitazione: i principi halstattiani non avevano inscritto la loro dismisura, come i faraoni d’Egitto, in una lunga tradizione che la rese se non accettabile a tutti , quantomeno consuetudinaria. Essa non lo era soprattutto agli occhi degli altri aristocratici, più illuminati, più coscienti del danno che degli eccessi facevano correre alla comunità”. [vi]
La Champagne, dunque, si propone, nello studio di Brunaux, come un centro tradizionale di un’arcaica e severa spiritualità celtica. Una spiritualità che si collega alle Ardenne, ovvero ad Arduinna, la Dea Orsa Bianca, nel cui nome troviamo il simbolo dell’orso, ovvero della regalità (Artù)? Ad una Dea Arduinna, Signora della Natura, che cavalca un cinghiale (simbolo della sacerdotalità)? Ma c’è di più. Analizzando il rapporto tra druidi e pitagorici, Brunaux ne riscontra la concordanza di alcune concezioni metafisiche e la comune idea che la divinità non deve essere rappresentata antropomorficamente o zoomorficamente, lasciando ai numeri e alle forme geometriche di mostrare, dietro alla materia, luoghi inaccessibili ad altro che allo spirito. “Dalla metà del V secolo – scrive Brunaux – in Gallia e nelle regioni limitrofe appaiono numerosi pezzi decorati che testimoniano di un lavoro preliminare di disegno sbalorditivo, generalmente eseguito con l’aiuto del compasso. Su dei pezzi di bardature in bronzo (falere, placche di bardatura, ecc.) di qualche centimetro di diametro, ci sono decine di cerchi che sono stati tracciati al fine di delimitare le zone da ritagliare per creare motivi a rilievo. L’analisi di questi decori dove la complessità della costruzione geometrica non ha uguali nell’abilità dell’artigiano che l’ha messa in opera, necessita oggi dell’utilizzo di strumenti informatici. All’evidenza, questi pezzi sono il prodotto di una stretta collaborazione tra esperti in geometria e dei veri orefici. Essi rispondevano a un bisogno specifico, che giustificava un tale dispendio d’energia, che non aveva nulla a che fare con una semplice moda. Apparsi all’inizio nel “foyer champenois”, questi decori si diffusero in effetti largamente nel mondo celtico, dal quale non sparirono più, come se lo stile plastico del III secolo e quello, realista, del II e I secolo non avessero alcuna presa su di loro”. [vii]
La Champagne si evidenzia come luogo ove operano uomini che coltivano antiche e severe tradizioni e che, al contempo, sanno utilizzare i numeri e la geometria in modo sorprendentemente complesso.
“Passando in rassegna il nostro lavoro – scrivono Alan Butler e Stephen De Foe – Henry Lincoln ha riconosciuto l’attendibilità storica dell’idea che, persino nel XII secolo, in alcune aree dell’attuale Francia esistessero dei gruppi di possidenti che mantenevano ancora un legame diretto e ininterrotto con la cultura megalitica. Sviluppatesi lungo un arco che tagliava la Penisola Scandinava, la Gran Bretagna e alcune regioni della Francia, tali comunità si estendevano fin alla Spagna sudorientale e nelle isole del Mediterraneo. Per quanto riguarda le popolazioni della Borgogna e della Champagne, le radici megalitiche erano piuttosto semplici da rilevare….”. [viii] I Burgundi erano, secondo Butler e De Foe, con tutta probabilità i depositari di forme di religione molto antiche e le famiglie burgunde avrebbero dato vita ad una classe sacerdotale nella quale sono confluiti i monaci culdei.
Xavier Guichard, citato da Butler e De Foe, riferisce di lunghe linee diritte, le Salt lines, che percorrono il territorio per chilometri e a volte partono da un nucleo centrale per irradiarsi in insediamenti contraddistinti dalla componente «al», dal greco hal, sale, nel loro nome: Alaise, Calaise, Falaisc e, ovviamente Halstatt, la città del sale. Altre linee, secondo Guichard, sarebbero molto simili alle moderne linee indicanti la latitudine e la longitudine, distanziate di 111 kilometri sulla latitudine e a 59’ di arco sulla longitudine.
Proviamo ora a porre mente ad un altro fenomeno interessante. Con il crollo dell’Impero romano, anche a causa di un concomitante riscaldamento d’Europa, le foreste ripresero il terreno che gli uomini avevano tolto loro con le culture e diventarono il “deserto” degli anacoreti occidentali, in fuga dalla civiltà.
Tuttavia la foresta è profondamente diversa dal deserto ed è nella foresta che si è sviluppata l’Antica Religione, che non mancò di influenzare forme di cristianesimo non in linea con l’ortodossia papale.
Come suggerisce l’amico Federico Gasparotti, la foresta divenne l’ultimo rifugio della Dea.
La leggenda di Merlino è emblematica. Merlino “ormai vecchio, venne sedotto dall’innamorata strega Nimue, la quale, nel bel mezzo dell’amplesso, si fece confidare i più potenti incantesimi per poi trasformarsi in una sfera d’ambra, inglobando al suo interno il mago, il quale non oppose resistenza, forse conscio che la sua epoca era ormai tramontata con l’avvento del nuovo Dio. Ma la metamorfosi di Nimue non finì lì, poiché decise – scrive Gasparotti – subito dopo di trasformarsi in quercia per restare per sempre unita al suo amato nella pace della foresta”. [ix]
Il principio maschile, ma anche la saggezza druidica, inglobati e custoditi nel femminile avvolgente utero, si rifugiano, dunque, nel folto della foresta.
La leggenda, in chiave simbolica, narra un evento reale. Con l’avanzare del cristianesimo, offerto al popolo sul filo della spada di re convertiti per acquisire la legittimazione di Roma cristiana, quale sedicente erede dell’Impero romano, alcuni druidi pensarono di accomodarsi nella nuova religione, con l’intento, in parte riuscito, di tramandare le antiche tradizioni rivestendole di nuovi panni; altri preferirono ritirarsi nel folto delle foreste, continuando, in segreto, a coltivare l’Antica Religione.
“Nimue – scrive Gasparotti – iberna Merlino, non lo uccide: ella sa che verrà il tempo in cui gli antichi Dei torneranno ad essere ascoltati e per questo salva il proprio amato, nonché indiscusso custode del Sapere, dall’inevitabilità dell’avvento del cristianesimo”.
La Dea, esiliata, continua a vivere e ad essere amata, protetta dalla Natura, ovvero da se stessa, nella forma di foresta impenetrabile, proteggendo contemporaneamente la sapienza druidica.
La foresta impenetrabile diventa il rifugio dei druidi, degli iniziati perseguitati, di briganti, emarginati, di latitanti, come ben mostra la leggenda, divenuta popolare, di Robin Hood, che in forma allegorica è il Kernunnos con il suo popolo, che dalla Foresta-Dea combatte il potere oppressivo.
Nell’XI secolo la foresta comincia ad essere colonizzata. Nuove vie di comunicazione la percorrono e la sua impenetrabilità viene in parte compromessa.
Ai rifugiati, ai “merlini” custoditi nel folto della foresta e custodi di antiche sapienzialità si ripropone il problema che si era posto ai loro antenati: utilizzare gli strumenti offerti dal potere per trasmettere in forma criptata l’antica tradizione e, al contempo, ritirarsi ulteriormente nel folto, per evitare di essere identificati.
Quando un sapere “tradizionale custodito da pochi è sul punto di estinguersi – scrive Leda Berné – allora i suoi detentori potrebbero decidere volontariamente di affidarsi alla memoria collettiva, consci del fatto che il popolo in ogni caso non sarà mai in grado di comprenderne il profondo significato. In questo modo la maggioranza diverrebbe, attraverso la trasmissione orale del patrimonio folklorico, il tramite inconsapevole di un messaggio che, in tempi successivi, qualcuno adatto ad intendere potrebbe riuscire di nuovo ad interpretare correttamente”. [x]
Saxon-Sion possiede sul suo territorio la collina di Sion che ha ispirato Maurice Barrès per il suo romanzo La colline inspirée.
Sulla collina è celebrato un culto mariano antico ed è stata edificata la basilica di Notre-Dame de Sion (Madonna nera).
I Celti sulla collina avevano stabilito un tempo un alto luogo di culto a Rosmerta. Dopo la pax romana, i riti si volsero verso delle dee latine. L’arrivo del cristianesimo ha trasformato l’importante culto di una Dea in quello della Vergine Maria.
Non è improbabile, pertanto, che fino alle soglie del secondo millennio i culti di Rosmerta siano stati praticati ed è possibile che fossero ben presenti anche agli uomini del XII secolo, ovvero a coloro che si richiamarono a Nostra Signora di Sion, intesa come Nostra Signora di Sion Saxon.
Rosmerta, dea gallica della generazione, era “paredra abituale”[xi] di Mercurio-Lugus. Il culto della coppia divina era praticato in gran parte delle regioni gallo-romane, ma era particolarmente diffuso nella Gallia centrale e orientale, lungo i fiumi Rodano, Mosa e Mosella e su entrambe le rive del Reno.
Notre Dame de Sion non è, dunque, Nostra Signora di Sion in Palestina, ma la Dea Madre Rosmerta? Parrebbe, a questo punto, di poter rispondere affermativamente e se così fosse emergerebbe ancora di più il disegno di un gruppo di iniziati, di un antico collegio druidico, inteso a mantenere in vita l’Antica Religione.
Sion potrebbe derivare dal gaelico sionn dal significato di fosforescente, splendente (sionnachan è splendore), aggettivi che ben si attagliano alla Dea. Tuttavia, per stare alle modalità antiche che inducevano a giocare con le parole, sionnach è anche la valvola di soffietto della zampogna, o cornamusa, ovvero la parte (la canna) dove il suonatore opera per ricavare le note. Il suono della cornamusa è circolare, ricorda il respiro dell’Universo. La zampogna accompagnava i rituali dei Sabba, ovvero le danze sacre dell’Antica Religione.
Saxon Sion e Notre Dame de Sion ci riconducono al Priorato di Sion, il quale, a volte chiamato “Ordine di Sion” o “Ordine di Nostra Signora di Sion”, avrebbe assunto la denominazione di Sion in quanto figlio diretto dell’Ordine dei cavalieri di Nostra Signora di Sion (1099), a cui era dedicata un’abbazia decrepita in Terrasanta. E se così non fosse? E se la Nostra Signora di Sion fosse quella di Saxon Sion? Tutto si concentrerebbe, in questo caso, nella Champagne, terra di antiche tradizioni, custodite dalle famiglie nobili post-halstattiane.
Lynn Picknette e Clive Prime[xii] scrivono che nel “XVI secolo Ferri di Vadèumont [località nei pressi di Saxon Sion] aveva già costituito l’Ordine di Notre Dame di Sion storicamente riconosciuto, legato per statuto all’Abbazia del Monte Sion a Gerusalemme da cui il Priorato sostiene di aver preso il nome. Il figlio di Ferri sposò Jolanda da Bar, Gran Maestra del Priorato tra il 1480 e il 1483, che era figlia di Renato d’Angiò, il Gran Maestro Precedente. Jolanda fece di Sion Vaudèmont un importante centro di pellegrinaggi centrati sulla Madonna Nera la cui statua fu distrutta durante la rivoluzione francese e sostituita da una vergine medievale non nera, prelevata dalla chiesa di Vaudèmont che è dedicata a Giovanni Battista.
Pierre Plantard de Saint Clair, sedicente Gran Maestro del Priorato, scrive esplicitamente: “La Vergine Nera è Iside e il suo nome è Nostra Signora di Luce”.[xiii] Il Gran Maestro fondatore, Ugo de Payns, era sposato con Caterina St.Clair. Discendenti dei Vichinghi i St. Clair o Sincalir costituiscono una delle più interessanti e importanti famiglie della storia, diffusesi in Scozia e in Francia fin dall’XI secolo. Il nome della famiglia deriva dal martire scozzese Saint Clair che fu decapitato (interessante riferimento al mito della testa). Ugo e Caterina visitarono i possedimenti di St.Clair vicino a Rosslyn e là stabilirono la prima commenderia templare in Scozia”.[xiv]
Rosslyn è il luogo dove si trova la Rosslyn Chapel, una delle costruzioni più enigmatiche e sintesi di antiche tradizioni druidiche con la tradizione templare e libero muratoria.
I Templari e i Fianna
E’ possibile che i Templari siano gli eredi e i continuatori delle Fianna, le schiere dei druidi guerrieri guidati dal mitico Finn? E’ possibile che chi ha avuto l’idea di istituire l’Ordine abbia avuto finalità diverse da quelle ufficialmente proclamate e benedette dall’autorità di Bernardo di Chiaravalle?
René Guénon sostiene l’esistenza, “durante tutto il Medio evo, di una tradizione iniziatica propriamente occidentale”[xv] e il rapporto più evidente con questa tradizione e con quella iniziatica medievale cavalleresca è quello con il mondo celtico e con i Fianna.
I Fianna erano soldati scelti, professionisti di grandi capacità e valore; soldati sottoposti ad un’educazione ferrea e a prove iniziatiche, membri di una congregazione considerata un’istituzione onorevole, riconosciuta dalle leggi e considerata essenziale al benessere della comunità. Dal primo novembre, Samain, al primo di maggio, Beltane, ossia nel periodo scuro dell’anno, i Fianna “vivevano presso i villaggi, vegliavano sull’applicazione della giustizia, difendevano le vedove e gli orfani”[xvi]. Dal primo maggio al primo novembre, ossia nella parte chiara, “cacciavano i cervi e i lupi, reprimevano i brigantaggi e aiutavano a riscuotere le imposte”.[xvii]
Lady Augusta Gregory, studiosa delle tradizioni celtiche, scrive in proposito: “A quel tempo, il numero dei Fianna d’Irlanda era di sette volte venti più dieci comandanti e ognuno di loro aveva tre volte nove guerrieri ai suoi ordini. E ognuno dei loro uomini era vincolato all’osservanza di tre cose, ossia: non appropriarsi del bestiame con la violenza, non rifiutare a nessuno bestiame o ricchezze, non indietreggiare nemmeno davanti a nove nemici. Mai nessuno veniva accettato tra i Fianna se la sua tribù e la sua famiglia non garantivano che lui, anche se essi fossero stati uccisi tutti, non avrebbe cercato soddisfazione nel vendicare personalmente la loro morte. Del resto, se fosse stato lui ad arrecare danno ad altri, quel danno non sarebbe ricaduto sulla sua gente. E non ci fu mai nessuno che venne accolto tra i Fianna senza avere prima appreso i dodici libri della poesia. E ognuno, prima di essere accettato, veniva messo in una buca profonda del terreno fino alla cintola con in mano il proprio scudo e un’asta di avellano. Nove uomini si allontanavano dalla buca per una distanza di dieci solchi e poi, tutti insieme, gli scagliavano addosso le loro lance. E chi veniva ferito non era giudicato adatto ad unirsi ai Fianna. Dopo questa prova, ancora, ad ognuno venivano legati i capelli ed egli era costretto a correre per i boschi d’Irlanda e i Fianna lo inseguivano per tentare di ferirlo. Al momento di iniziare, tra loro e l’aspirante guerriero c’era la lunghezza di un ramo; e se essi lo raggiungevano e lo ferivano, o se solo gli tremava la mano armata di lancia, o se il ramo di un albero scioglieva le trecce dei suoi capelli, o se egli spezzava un ramo secco sotto i piedi mentre correva, ebbene, non gli veniva concesso di unirsi a loro. Ed essi non l’avrebbero accolto tra di loro se egli non avesse fatto un salto su un bastone alto come lui, se non si fosse piegato portando una gamba dietro alla testa e non si fosse tolto dal piede una spina con le unghie per poi rimettersi a correre ancora più velocemente. Ma se riusciva a fare tutte queste cose, egli diventava uno dei Fianna”[xviii].
Chi aspirava ad essere un Fianna doveva non solo essere un valoroso guerriero, ma anche un poeta, ovvero un bardo. Il Fianna era dunque un iniziato prossimo ai druidi, i quali non erano solamente sapienti, poeti, musicisti, uomini d’arte e sacerdoti, ma anche guerrieri, nonostante fossero dispensati dal portare le armi e dall’andare in guerra. Quindi, come fanno notare Le Roux e Guyonvarc’h, “la condizione sociale del druida è diversa da quella del flamen romano e da quella del brahmano indù, i quali non hanno il diritto di battersi e nemmeno quello di vedere una schiera armata. Lo statuto del druida riflette uno stato singolarmente arcaico, anteriore alla separazione dell’autorità spirituale dal potere temporale”. [xix] E’ lo stato del Templare.
Il celebre comandante dei Fianna, Fin mac Cumaill, era dotato di veggenza ed era capace di usare il teinm laegda o “illuminazione di canto”.[xx]
Il prototipo del druida guerriero è Cathbad, padre del re Conchobor[xxi], il primo dei druidi dell’Ulster. Cathbad è druida o guerriero a seconda delle circostanze, ma egli riunisce in sé le due valenze. “Il potere guerriero di Cathbad è intimamente connesso con la sua persona e con il suo sacerdozio …. Per contro, un tratto caratteristico dei guerrieri è che essi devono essere poeti”[xxii]. “In Gallia i druidi non erano diversi: proprio in quanto druida e, secondo Cesare, politico influente, Diviziaco comanda un corpo di cavalleria”[xxiii].
Una leggenda irlandese ci rende noto l’equipaggiamento di un druida mitico, Mog Ruith, che va alla guerra con lo scudo multicolore e stellato, munito di un cerchio di candido argento, con una spada da eroe dalla grande impugnatura al fianco sinistro, con due lance nemiche e avvelenate in mano”.[xxiv] I druidi della parte avversa a quella di Mog Ruith, non sono da meno. Colptha sospende al braccio sinistro il suo scudo nero e funesto, che misura centoventi piedi di circonferenza e ha un cerchio di ferro. Impugna la sua spada pesante e tagliente, che ha richiesto trenta masse di metallo incandescente e ha le sue due lance nere e scure in mano. Anche Medhran è un druida guerriero: “Guerriero dai capelli biondi e inanellati e di amabile aspetto era il druida di Medhon Mairtine, chiamato Medhran il druida”. [xxv]
I Celti prendevano la guerra come un gioco dalle regole ferree: “era il fìr fer (letteralmente “la verità degli uomini”). Per mutuo consenso lo scontro degli eserciti contendenti veniva convertito in una lotta tra due campioni delle parti avverse, la singolare tenzone, che è presente così frequentemente nella letteratura dei poemi epici irlandesi, come il Tain Bo Cualnge (Il furto dei buoi di Cooley), fino alla leggenda medievale arturiana”[xxvi]
Anche i Gesati, che combattevano nudi, sono, nel mondo celtico, guerrieri professionisti, “che vendevano la loro esperienza a chiunque volesse ingaggiarli. Potremmo capire facilmente il loro ruolo se li paragonassimo ai samurai”. [xxvii]
Nei Fianna possiamo intravedere i precursori dei cavalieri arturiani, nei druidi guerrieri quelli dei Templari, monaci guerrieri, che Bernardo di Chiaravalle invia a scoprire la Gerusalemme celeste[xxviii], ossia la Conoscenza? Conoscenza, in particolare della natura e delle sue regole, come manifestazioni di una divinità che rimane nascosta, che è il motivo conduttore della filosofia druidica.
Théodore Hersart de La Villemarqué, nel suo Barzhaz Breizh, richiamando l’antica legge dei bardi, della quale si trovano echi in autori come Moelmud e Hoel le Bon, scrive: “Secondo questa legge, il dovere dei bardi è di divulgare e di mantenere tutte le conoscenze della natura volte a estendere l’amore della virtù e della saggezza”. [xxix]
Rapporto con la Conoscenza, quello della filosofia druidica, che ritroviamo affermato anche nella mitologia relativa ai Tuatha De Danann, il Popolo degli Dèi di Dana, arrivati, come scrive Lady Augusta Gregory, dal Nord. “E nelle terre dalle quali venivano, essi avevano quattro città in cui combattevano le loro battaglie in nome del sapere: la grande Falias, la scintillante Gorias, Finias e la ricca Murias che si trovava a sud. E in quelle città essi avevano quattro uomini saggi che insegnavano ai loro giovani la manualità, la conoscenza e la saggezza assoluta: Senias a Murias; Arias, il biondo poeta, a Finias; Urias, dall’animo nobile, a Gorias; e Morias a Falias. Essi portarono da quelle quattro città i loro quattro tesori: da Falias la Pietra della Virtù, chiamata la Lia Fail (la Pietra del Destino); da Gorias una Spada; da Finias una Lancia della Vittoria; e da Murias il quarto tesoro, il Calderone, che mai lasciò andar via insoddisfatti gli ospiti”.[xxx]
Sono i tesori che ritroveremo puntualmente nel ciclo del Graal, che rivela in tutta evidenza la sua derivazione dalla tradizione druidica.
Lugh, la più importante divinità maschile celtica, presentandosi a Teamhair (Tara) il centro sacro d’Irlanda, dove non può entrare chi è senz’arte, dice al guardiano di essere esperto in tutte le arti (Ildánach, Maestro di tutte le arti) e viene messo da Nuada (l’equivalente del Re Pescatore del ciclo arturiano) alla prova della scacchiera e avendo vinto tutte le partite gli viene concesso di sedersi sullo “Scranno della conoscenza”.
La Conoscenza è il punto più alto da raggiungere per chiunque si avvii sui sentieri dell’Arte e non è un caso che il termine fidchell (in gallese gwyddbywyll), sia letteralmente “saggezza del legno”[xxxi] e richiami sia l’idea della saggezza, sia il supporto di legno di una sorta di gioco degli scacchi in cui un pezzo con il valore di re (banàan) deve scappare verso il lato del piano, cosa che i pezzi opposti, i fian o gwerin, devono impedirgli.
Fian (plurale Fiana o Fianna) indica, pertanto, al contempo, i pezzi del gioco del fidchell, ossia del gioco della conoscenza e il corpo scelto dei guerrieri iniziati dei Celti.
Un altro nome del gioco che avviene sulla scacchiera (per inciso simbolo antico della Dea e della filosofia druidica, che si muove tra il bianco e il nero, tra il lato chiaro e quello oscuro della realtà) è il Brandubb, la “scacchiera della gioia”, riferito, come vedremo a Bran e anche qui è più di una coincidenza il fatto che il Beauseant bianco e nero sia simbolo dei Templari.
I Fianna, del resto, sono strettamente imparentati con i Tuatha De Danann e, in particolare, con Lugh. “In quanto alla madre di Lugh, che era la bella e alta Ethlinn, ella venne a Teamhair dopo la battaglia di Mag Tuiread ed egli la diede in sposa a Tagd, figlio di Nuada. E i figli che nacquero da loro furono Muirne, madre di Finn, il capo dei Fianna d’Irlanda, e Tuiren, madre di Bran”.[xxxii]
Finn, il comandante dei Fianna è dunque figlio della figlia della madre di Lugh, il quale si presenta come il figlio paredro della Dea Madre, che qui compare come la bella Ethlinn.
La mitologia relativa ai Fianna li evidenzia come protagonisti dell’incontro scontro tra l’antica civiltà della Dea del Neolitico e dell’Età del Bronzo e gli invasori indoeuropei. I Fianna, le cui schiere appartengono ai Gaeli, si scontrano con i guerrieri dei Tuatha De Danann, ma tra le due etnie ci sono matrimoni e figli che hanno padri e madri appartenenti alle due civiltà. Lo stesso Finn è, infatti, come abbiamo visto, anche di sangue Tuatha.
Lugh è per molti versi assimilabile al Dio Cornuto (Kernunnos, Pasupati, Dioniso, Basa-Jaun, Hou, Puck, in seguito Robin, Robin Goodfellow, sempre vestito di verde, il colore delle fate e dell’Altromondo) che dalle lontane origine del Paleolitico è arrivato sino a noi nei riti agresti che la Chiesa ha condannato come diabolici, mettendo al rogo coloro che li praticavano, fedeli all’Antica Religione.
Popolazioni del Neolitico e popolazioni indoeuropee si sono combattute e amalgamate, come ben spiega Margaret A. Murray, nella realtà e nel mito, dando origine al substrato mitico e leggendario che ritroveremo come parte essenziale del ciclo arturiano e di tutta la letteratura ad esso connessa.
Finn, figlio di Cumhal, è il comandante dei Fianna e rimane tale fino alla morte. “Egli fu re, veggente, poeta, druido e uomo sagace”[xxxiii] e si circondò di druidi, poeti, musicisti, guaritori.
Come Taliesin, che succhiandosi il dito scottato da tre gocce del calderone di Keridwen acquisì la Conoscenza, così Finn, arrostendo il salmone per Finegas, presso il quale si era recato per apprendere la poesia, si scotta e mettendosi il dito in bocca ne acquisisce la Conoscenza.[xxxiv] Non solo, ma alla Fonte della Luna, sorvegliata dalle tre figlie di Beag, figlio di Buan dei Tuatha De Danann, al quale la fonte apparteneva, una goccia d’acqua gli va in bocca e Finn acquisisce la saggezza.
Finn è un iniziato, divenuto come un bambino (il dito in bocca), dunque innocente e sgombro da schemi e pregiudizi. Jean Markale fa notare che Finn, il cui nome significa bianco, è un eroe solare (come Mabon), “uccisore di mostri e cacciatore, nonché riparatore di torti. L’organizzazione che egli dirige è una delle più singolari e prefigura talune società cavalleresche medievali, forse anche un ordine simile a quello dei Templari”. [xxxv] “Le condizioni per entrare nel gruppo dei Feniani – osserva Markale – erano assai precise: un guerriero non doveva mai sposare una donna per la dote, ma per le sue qualità, mai violentare una donna, non rifiutare mai di dare oggetti preziosi o cibo a chi li chiedesse (obbligo del dono) e non fuggire mai davanti a meno di dieci avversari. Doveva inoltre farsi ricevere nel novero dei fili (poeti scienziati), subire ardue prove fisiche, difendersi con uno scudo e un bastone di nocciolo contro nove guerrieri che scagliavano tutti insieme contro di lui i loro giavellotti, sottrarsi attraverso i boschi a tutti i Feniani riuniti, mai tenere le armi con mani tremanti, mai spezzare un ramoscello sotto i piedi, saltare per un’altezza pari alla sua statura, piegarsi sulle ginocchia, togliersi, in corsa, una spina dal piede senza fermarsi. Sottoposti a tali condizioni, i Feniani erano evidentemente un gruppo scelto, e numerose saghe ispiratrici dell’Ossian di Macpherson espongono le loro avventure”. [xxxvi]
I Fianna, dunque, combattenti valorosi, druidi, iniziati alle arti dai Tuatha, possono essere stati il paradigma antico al quale si sono ispirati coloro che hanno fondato l’Ordine dei Templari.
La croce templare druidica
Robert Graffin (L’art templier des cathédrales, Celtisme et tradition universale, Edition Garnier) sostiene che la cosmogonia e la conoscenza dei Druidi “troveranno più tardi la loro sintesi nelle cattedrali tramite i Templari e i Cistercensi”. Va infatti notato che “Malachia, il vescovo d’Armagh e primate d’Irlanda, celebre per la profezia dei papi che gli è attribuita, era amico di Bernardo di Clairvoux. Nel 1142 i monaci cistercensi raggiunsero l’Irlanda e fondarono l’abbazia di Mellifont. L’arte tradizionale celtica era ormai interdetta. L’architettura, l’arte della maçonnerie era già sottomessa al potere dei vescovi fin dal secondo concilio di Nicea del 787”. (Michel Raoult, Les druides, Ed Rocher).
Inoltre Graffin sostiene che le cattedrali gotiche conterrebbero il codice druidico e che la croce templare deriverebbe dalla croce celtica.
Secondo Graffin non solo la croce celtica è simile alla croce templare, ma le proporzioni della croce druidica, che contengono i cerchi di Gwynfyd, Abred e Ceugant, sono presenti nella cattedrali gotiche.
Secondo Guy Travoux (Lettere, cifre dèi, Ecig) i Templari perpetuarono il calendario degli alberi di 13 mesi “nelle loro 13 invocazioni a Dio Padre”.
Huzza, la spina templare, la Dea, il Drago e il Druida
I riferimenti alla Dea sono presenti anche nell’acclamazione: “Huzza! Huzza! Huzza!”, usata anche nei brindisi delle Agapi rituali. Un’acclamazione il cui significato ci riporta al concetto di spina che troviamo nell’acacia e che, nel suo significato esoterico, ci conduce ad un crocevia dove si ritrovano alcuni aspetti importanti delle tradizioni druidica, templare e mediorientale.
Samura, la spina aegyptica, incarnava, a Nakla, al-Uzzà e l’albero rappresenta Dhat Anwat, probabile epiteto della stessa divinità.
Nakhla fu il nome di due località del Hijaz, nella Penisola araba, in età preislamica e nel primo periodo islamico, site a sud di Mecca, prima di Ṭā’if.
Le due località si distinguevano per un aggettivo che ne chiariva anche l’orientamento. Quella più meridionale si chiamava infatti Nakhla al-Yamaniyya, in direzione appunto dello Yemen, mentre l’altra si chiamava Nakhla al-Shāmiyya ed era più a nord di essa, in direzione della Siria (chiamata Shām).
La più interessante appare senza dubbio essere stata Nakhla al-Shāmiyya, nella quale si venerava al-‘Uzzā, divinità dei Banū Kināna e, quindi, adorata anche dai Quraysh di Mecca. Nelle vicinanze sorgeva anche un santuario della divinità pagana chiamata Suwā‘.
Al Uzza è la principale espressione di una divinità triplice composta anche da al Lat e al Menat. Le tre divinità erano chiamate i begli astri e rappresentavano i tre volti di Venere.
Venere è associata e, nella mitologia, spesso confusa con Sirio, la egizia spdt, detta la Puntuta (il suo geroglifico è un triangolo isocele). Una denominazione che richiama la spina. Sirio era associata in Egitto antico a Iside.
La spina è un simbolo caro ai Templari. Le loro commanderie erano collegate a “luoghi spina” (da cui Epinay, Pinay, Epinac, Courbépine)) tramite cunicoli e in quei luoghi avvenivano le iniziazioni.
Per un gioco di parole (la Lingua verde è fatta di omofonie, analogie, enigmi) che vale sia per il francese, sia per l’italiano, spina e spiga sono molto simili: épine ed épi. En épi è la pannocchia. Spina, spiga, spica (latino). Spica è la stella più luminosa della costellazione della Vergine, che è rappresentata come una signora con una spiga in mano.
Va a questo punto considerato il fatto che la rosa domestica viene introdotta poco prima dell’800, mentre la rosa vera e propria è quella selvatica a cinque petali (biancospino, pruno selvatico). Il bianco spino è la spina bianca. Cinque è il numero della Dea. La stella a cinque punte è simbolicamente riferita a Iside. A Cassiopea è associato il cinque e Cassiopea è l’asterisma al quale è riferita l’indoeuropea Dana.
Un’altra spina è il pruno (prugnolo) selvatico, Prunus spinosa, (Zain), detto anche “spino nero”, in opposizione allo “spino bianco” o biancospino (Uath) cresce ai margini dei boschi e dei sentieri; alto fino a quattro metri ha fiori bianchi e frutti tondi color blu. La sua fioritura è nel periodo marzo aprile (equinozio di primavera) e i frutti maturano a settembre (equinozio d’autunno). Il pruno selvatico era considerato l’albero della magia nera e delle maledizioni ed è associato alla Scorpione; la sua runa è Purisaz.
Il biancospino, albero che va dai 2 ai 12 metri, ha fiori bianco rosati e frutti rossi ovali, con nocciolo; fiorisce a maggio giugno e i suoi frutti maturano ad agosto settembre.
Pruno e biancospino hanno le foglie a cinque punte, simbolo della Dea, come le foglie dell’edera, della vite e del platano.
Hadingham[xxxvii] cita la teoria di Norman Lokyer, secondo la quale esisteva nel 2000 a.C. un “Culto di Maggio”, legato al primo maggio, quindi ad Aldebaran, sopresso intorno al 1600 a.C. da adoratori del solstizio, quindi del Sole, provenienti dall’Egitto o dalla Grecia. Il “Culto di Maggio” venerava il sorbo (Luis) e il pruno, mentre gli adoratori del sole il vischio. Il “Culto di Maggio”, secondo Hadingham, dà origine ad un calendario con l’anno diviso in otto parti. Il sorbo e il pruno erano al tempo l’equivalente della più moderna rosa.
Va notato che nel 2000 a.C. è avvenuto il passaggio della polare dal Draco (Alpha draconis), (spina in gaelico), all’Orsa, già iniziato nell’era del Toro.
Charpentier fa notare che nel Cantico dei Cantici troviamo la spina: “Io sono la rosa di Sion […] simile al giglio in mezzo alle spine”.
La Vergine è chiamata nelle litanie Lilium inter spinas, il giglio in mezzo alle spine.
Nel Libro dei Giudici, fa notare ancora Charpentier (IX,14) si legge (secondo la traduzione moderna): “Allora tutti gli alberi dissero alla spina: «Vieni; regna su di noi». La spina rispose agli alberi: «Se siete in buona fede nello scegliermi per regnare su di voi, venite e rifugiatevi alla mia ombra; altrimenti che il fuoco esca dalla spina e divori i cedri del Libano”.
La forma antica dell’aculeo vegetale della spina è akantha, parola che per estensione diventa la pianta stessa con le spine: l’acanto, l’acacia, connessa con Al-Uzza o Huzzai.
Infine, draco in gaelico significa spina.
“Ricordiamo – scrive Myriam Phliberth – che il termine gallese Draco significa anzitutto «spina»”. [xxxviii]
Conseguentemente “spina” potrebbe riferirsi al draco, al serpente, nel quale i Druidi si identificavano: “Je suis, dit l’un d’eux, un Druide, je suis un architecte, je suis un prophête, je suis un serpent“. [xxxix]
[i] Salvatore Farina, Il libro dei rituali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Piccinelli Edizioni.
[ii] Christian Jacq, La confraternita dei saggi del Nord, Età dell’Acquario
[iii] Paolo Diacono, Storia dei longobardi, Tea
[iv] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[v] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[vi] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[vii] Jean Louis Brunaux, Les Druides, Edition Seuil
[viii] Alan Butler, Stephen De Foe – La verità sui Templari – I segreti dell’eredità cistercense, Ed. L’Età dell’Acquario
[ix] Federico Gasparotti, Ogam, l’alfabeto celtico degli alberi, Ilmiolibro.it
[x] Leda Berné, Le vergini arcaiche, Edizioni della Terra di Mezzo.
[xi] Colette Bèmont, A propos d’un noveau monument de Rosmerta, Perséè (Ministère de la junesse, de l’éducation nationale et de la recherche- France)
[xii] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xiii] Da Ean Begg, The Cult of Black Virgin, Arkana, Londra citato in Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xiv] Lynn Picknett, Clive Prime, La rivelazione dei Templari, Sperling & Kupfer
[xv] René Guénon, L’esoterismo di Dante, Atanor, pag. 21
[xvi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xvii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xviii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri – I Fianna – Edizioni Studio Tesi – Pordenone – 1986
[xix] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig – nota a pagina 156
[xx] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxi] Vedi la saga irlandese di Cu Chulainn, Mondadori a cura di Gabriella Agrati e maria Letizia Magini.
[xxii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig
[xxiii] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig
[xxiv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxv] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig –
[xxvi] Ward Rutherford, Tradizioni celtiche, Tea
[xxvii] Berreford Ellis, Il segreto dei druidi, Piemme
[xxviii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xxix] Théodore Hersart del La Villemarqué, Barzhaz Breizh, Coop Breizh
[xxx] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxi] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario
[xxxii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxiii] Lady Augusta Gregory, Dei e guerrieri, I Fianna, Edizioni Studio Tesi – Pordenone
[xxxiv] Nella cultura druidica il salmone è simbolo di conoscenza.
[xxxv] Jean Markale, I Celti, Mondadori
[xxxvi] Jean Markale, I Celti, Mondadori
[xxxvii] Hadingham, I misteri dell’antica Britannia, Newton, a pagina 98
[xxxviii] Myriam Philiberth, Da Kernunnos au roi Arthur, Ed. du Rocher
[xxxix] Deane pag. 254 citato in Eduard Panchaud, Le druidisme ou Religion del anciens Galois, Losanna, 1865
di Silvano Danesi
Cavalieri della violenza o cavalieri della Sapienza?
La cavalleria è connaturata con il feudalesimo dell’XI secolo, ed è caratterizzata dalla hýbris e dalla violenza, a tal punto che la Chiesa ha dovuto imporre la “Tregua di Dio”, chiedendo ai cavalieri di pronunciare una promessa solenne: “Per la salvaguardia che la protegge, non assalirò in alcun modo una chiesa, né i magazzini compresi nel suo recinto. Non aggredirò il chierico o il monaco senz’armi secolari, né l’uomo che li scorta se sarà senza lancia né scudo. Non ruberò il bue né la vacca, il maiale, la pecora, l’agnello, la capra, né l’asino o il suo fardello, e neppure la giumenta o il puledro non ancora svezzato. Non farò prigioniero il contadino, né la contadina, e neppure i sergenti o i mercanti; non li deruberò né li taglieggerò. Non li rovinerò estorcendogli i loro averi col pretesto che il loro signore è in guerra”. [i]
“Il primo risultato di tale legislazione – commenta Duby – fu di isolare nella società un gruppo ben definito, che i dirigenti della Chiesa ritenevano in stato di perpetua aggressione e responsabile del disordine del mondo intero; un corpo da cui occorre difendersi, e di cui bisognava contenere il potere distruttivo infliggendogli il timore dell’ira divina. Questa categoria di uomini, considerati dei nemici e che nell’ottica dell’elementare dualismo veicolato dalle credenze cristiane sembrava costituire l’esercito del male, altro non era che la cavalleria”. [ii]
La cultura cavalleresca feudale è pertanto una cultura violenta, ignorante, unicamente sensibile ai gesti. Una società dedita alla guerra.
“Solo il corpo e il coraggio contano, non lo spirito. Il futuro cavaliere – scrive Duby – non sa leggere, perché lo studio gli corromperebbe l’animo; la cavalleria è ignorante per sua scelta, e vede nella guerra, reale o immaginaria che sia, l’atto fondamentale che dà un senso all’esistenza, un gioco in cui si rischia tutto, l’onore e la vita, e dal quale i migliori tornano ricchi, trionfanti, coperti di una gloria degna dei loro avi e che si tramanderà di generazione in generazione. La cultura delll’XI secolo, così profondamente segnata dall’etica cavalleresca, si fonda quasi interamente sul piacere della cattura, sul ratto e sull’assalto”. [iii]
Tale etica fondata sulla cattura e sul ratto è la stessa dei cosiddetti eroi greci omerici, dei quali scrive con puntuale competenza Eva Cantarella nel suo “Itaca” (Feltrinelli). Menelao, al termine della guerra di Troia, non torna direttamente a Sparta, ma erra in molte regioni “molta ricchezza riunendo”. Ulisse non è da meno. Giunto nella terra dei Ciconi incendia e distrugge, rapisce donne e ricchezze.
Lo spirito cavalleresco che trionfa nel XIV secolo è la parodia della cavalleria feudale.
“Nel momento stesso in cui l’evoluzione economica mandava in rovina le famiglie dell’antica nobiltà – scrive in proposito Duby – trascinandole più in basso di certi pescecani arricchitisi con la guerra, l’alta finanza o il servizio di corte, e distruggeva le antiche gerarchie, se ne creavano delle immagini simboliche e vane, che però mantenevano efficacemente i valori del gioco: come ad esempio gli ordini cavallereschi successivamente fondati, nel XIV secolo, dai re di Castiglia, dall’imperatore, dal delfino di Viennois, dai re di Francia e da quelli d’Inghilterra, e ben presto da tanti principi meno potenti, allo scopo di circondarsi, come re Artù, di nuovi cavalieri della Tavola Rotonda”. [iv]
Il cavaliere degli ordini cavallereschi è un guerriero per gioco. Le singolari tenzoni e i tornei sono quelli che oggi si chiamano giochi di ruolo. Gli ordini cavallereschi sono parodie dove mantelli e pennacchi hanno sostituito lo scudo e la spada e dove alla hýbris si è sostituita una ridicola arroganza e supponenza.
Il cavaliere autentico, non quello violento o dei futili giochi cortesi, è chiamato, nella tradizione iniziatica, a ben altra tenzone: quella con l’eterno femminino e con la Sapienza.
Un interrogativo, per inciso, ci sovviene: “Chi è la donna che il Dio michelangiolesco della Cappella sistina abbraccia mentre tende il suo dito irraggiungibile all’Anthropos?”.
Il rapporto inscindibile con il XXIX Grado
Traggo dai testi: “Le radici scozzesi della Massoneria”[v] e “Tu sei Pietra”[vi] alcune considerazioni in merito alla catena iniziatica che lega il druidismo alla Massoneria e che possiamo riscontrare nel XXIX Grado del Rito Scozzese, detto Cavaliere di Sant’Andrea che prelude al XXX Grado e ne rappresenta l’inscindibile presupposto.
Prima di entrare nel merito del rapporto che lega i due gradi e che ci riporta alla catena iniziatica che passa attraverso la Scozia, è necessario un breve cenno alla figura di Sant’Andrea.
Andrea, fratello di Pietro, ha una funzione per il mondo greco analoga a quella di Pietro per Roma.
La tradizione vuole che, al momento della morte di Andrea a Patrasso, avvenuta il 30 Novembre del 60 d.C. tramite il supplizio della crocifissione, egli avesse fatto richiesta di una croce diversa da quella di Gesù, scegliendo una croce decussata, ovvero ad X, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea” oggi evidente nella bandiera nazionale scozzese e, successivamente, nella Union Jack.
Due antichi manoscritti scozzesi affermano che le reliquie di sant’Andrea vennero portate da Regolo detto anche Riagail o Rule, monaco irlandese, al re dei Piti, Oengus I Mac Fergusa (729-761).
Le reliquie probabilmente facevano originariamente parte della collezione del vescovo Acca di Hexham e che vennero da quest’ultimo portate ai Piti da Hexham (c. 732), dove venne fondata una sede episcopale, non come avrebbe voluto la tradizione a Galloway, ma sul luogo detto di Sant’Andrea.
Veniamo, dunque, all’innesto tra tradizione celtico druidica e la Massoneria.
Nel 1286 la Loggia di Kilwinning ebbe come Gran Maestro un Lord Stewart di Scozia, ossia un Regio Stewart (maggiordomo di palazzo), carica, divenuta ereditaria, istituita da re David ed assegnata a Walter fitz Alan, di discendenza bretone celtica e scozzese, la cui linea di sangue risale a re Mc Alpin e ai Siniscalchi di Dol. Quando la figlia di re Robert Bruce sposerà Walter lo Stewart, dai maggiordomi di palazzo di discendenza regale avrà inizio la dinastia Stuart. La carica di Gran Maestro della Loggia di Kilwinning, considerata Loggia madre, è stata pertanto conferita a un Lord Stewart di nomina regale celtica e di sangue regale celtico. E’, dunque, un re celtico, incoronato con rito cristiano e con l’antico rito druidico sulla Pietra di Scone, ad istituire gli Stewart ed è uno Stewart ad assumere la carica di Gran Maestro, riconoscendo, in tal modo, e legittimando la tradizione massonica e incardinandola in quella druidica. Tra regalità tradizionale celtica e Massoneria si stabilisce un rapporto che dura, ininterrotto, sino al 1717, quando la dinastia degli Hannover, dopo essersi sostituita a quella degli Stuart, si arrogherà il diritto di istituire una Gran Loggia, affidando ad un pastore protestante la stesura di nuove costituzioni per l’istituzione massonica.
Il Cavaliere del leone e la Dama della fontana
L’eroe letterario di una delle opere più conosciute di Chrétien de Troyes è Yvain, il cavaliere del leone, basato sull’antico poema gallese Iarlles y Ffynnawn, il quale compare, nel Mabinogion, nella storia “Owein, o la Dama della Fontana” e anche nella Historia Regum Britanniae di Geoffredo di Monmouth.
Nella “Dama della fontana” Owein, dopo aver sentito alla corte di Artù il
racconto di un’avventura prodigiosa, parte per viverla di persona. Giunto, su indicazione di un gigante che vive in un bosco e comanda gli animali, ad una fontana dove sorge un albero verdissimo, simbolo della vita (l’Albero della Vita), rovescia dell’acqua sulla pietra che circonda la fontana e scatena una grandine dalla quale si salva a fatica. Segue un volo d’uccelli dal dolcissimo canto e compare un cavaliere nero, che Owein affronta e sconfigge, per prenderne il posto alla difesa della fontana e del paese, dopo averne sposato la vedova, che è la contessa che governa le terre dove si trovano l’albero e la fontana. Nelle sue imprese Owein è affiancato da un leone tutto nero, che ha salvato da un serpente e che diventa il suo fedele compagno, una sorta di alter ego.
L’Yvain di Chrétien de Troyes è precedente all’Owein della “Dama della fontana” dei Mabinogion, che non ne è la traduzione. I due racconti attingono entrambi ad una fonte più antica.
Quando Chrétien comincia a scrivere, in Francia del Nord era affermato il genere epico della chanson de geste, che esaltava le imprese di Carlo Magno e dei paladini, ossia le virtù del cavaliere guerriero, mentre nelle regioni della lingua d’oc (Provenza, Aquitania, Limosino e Poitou) era sorto il movimento trobadorico, con la sua ideologia dell’amore, secondo cui ogni eroe “deve” amare e dedicare il proprio intento e le proprie opere ad una dama.
La Dama dei trovatori è la stessa della Filosofia della Consolatio di Severino Boezio, di Socrate nel Critone, della immagine raffigurata da Marciano Capella, ed è l’Intelligenza divina, la Sapienza divina che troviamo nelle opere di Ermete Trismegisto e anche nel misticismo dei Fedeli d’Amore, setta che ebbe tra i suoi fondatori il normanno Federico II di Svevia, il figlio di Federico Manfredi, il cancelliere di Federico Pier Delle Vigne, il notaio di Federico Jacopo da Lentini e successivamente: Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti (in fama di essere un eretico patarino), Dante Alighieri, Cino da Pistoia, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli.
Per i Fedeli d’Amore la donna amata (Rosa) è l’Intelligenza o Sapienza divina (Fiore), che è affisa in Dio e guida l’uomo secondo il suo volere. Amore è il congiungersi dell’intelletto con la Sapienza (avere intelletto d’Amore). L’amante (nel Roman de la Rose) bacia il Fiore, la Rosa, con le braccia in croce.
Il tema della Rosa è presente in Apuleio, che nelle Metamorfosi cita la Dea celtica Epona “ch’era accuratamente adorna di ghirlande di rose” e Venere, a cui è associata la rosa, che dice di sé: “Ecco, io l’antica genitrice dell’universo, io, causa prima degli elementi, io, Venere autrice del mondo intero….”.
Lucio, il protagonista delle Metamorfosi, dopo essere divenuto asino (somaro, ossia solo soma) a causa di una magia, viene riportato allo stato umano dal suggerimento di Iside di mangiare le rose, ossia, in altri termini, di nutrirsi della Sapienza divina.
Nelle Metamorfosi di Apuleio, Iside dice: “Eccomi a te, o Lucio, poiché le tue preghiere mi hanno commossa. Io sono la genitrice dell’universo, la sovrana di tutti gli elementi, l’origine prima dei secoli, la regina delle ombre, la prima dei celesti; io riassumo nel mio volto l’aspetto di tutte le divinità maschili e femminili: sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi dell’Averno. Indivisibile è la mia divina essenza, ma nel mondo io son venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi. ….. e gli Egiziani cui l’antico sapere conferisce potenza, mi onorano con riti che appartengono a me sola, e mi chiamano, col mio vero nome, Iside Regina”.
Dopo aver mangiato le rose, Lucio (Apuleio) sarà iniziato ai riti isiaci.
Per i Fedeli d’Amore la Santa Sapienza (ecco un riferimento puntuale per l’Owein e l’Yvain) siede alla fontana dell’insegnamento e il fiore che darà il frutto è sull’albero che sta sopra la fontana dell’insegnamento.
Nel XII secolo compare anche in Francia la traduzione dell’Historia regum Britannie di Goffredo di Monmouth, ossia il Roman de Brut del normanno Wace (1155). In Francia arriva la “materia di Bretagna”, che darà alimento al ciclo del Graal.
“L’incontro della tradizione eroica della Francia del Nord con quella lirica della Provenza del fine amour con la materia di Bretagna e con i racconti celti che bardi, menestrelli e giullari – scrivono Gabriella Agrati e Maria Letizia Mogini – narravano tra le due sponde del canale della Manica, si realizzò nell’ambiente di Eleonora d’Aquitania, nipote di quel Guglielmo IX che era stato il primo trovatore, moglie di Luigi VII di Francia e poi di Enrico II Plantaganeto e madre di Maria e di Alice, andate spose a due tra i più grandi signori di Francia, i conti di Champagne e di Blois”. [vii]
Non va sottovalutato il fatto che la narrazione cortese che si contrapponeva al ciclo carolingio soddisfaceva le “aspirazioni a un’epopea nazionale di quei normanni che avevano conquistato il trono inglese”. [viii] Normanni come Federico II e i suoi iniziali Fedeli d’Amore.
Ivano-Owein rappresenta il punto di passaggio dal ciclo carolingio al ciclo bretone; dal cavaliere maschio guerriero che combatte con altri cavalieri maschi guerrieri, al cavaliere maschio che si confronta con l’eterno femminino; dalle battaglie esterne alla battaglia interna.
Il racconto di Yvain inizia alla corte di Artù a Pentecoste, ossia il giorno in cui nella tradizione cristiana discende lo Spirito Santo. Un giorno, dunque, di ispirazione: il celtico Awen. E Chrétien, quasi a voler indicare la sua appartenenza alla linea iniziatica dei Fedeli d’Amore, scrive che, mentre alcuni raccontavano storie “gli altri ragionavano d’Amore, dei tormenti, delle sofferenze e delle grandi gioie che spesso conobbero i discepoli della sua regola. A quel tempo essa era dolce e benigna, mentre ora ha ben pochi seguaci: quasi tutti l’hanno abbandonata si che Amore ne è molto svilito”.
Nel suo dire che “vale molto meglio un cortese morto che un villano vivo” intravvediamo in Chrétien un parallelo con la distinzione tra adepti e “gente grossa” dei Fedeli d’Amore.
Ivano viene accolto nel castello di un signore padre di una pulzella che lo conduce “a sedere nel più bel prato del mondo, chiuso da un muro basso tutto intorno”: è l’hortus clausus, il roseto ed è anche il luogo del suo primo incontro con il femminile.
Ivano di reca poi in una foresta (come farà Dante), dove incontra un gigante signore degli animali, ossia la natura nella sua versione materiale (il Kernunnos, l’uomo selvatico, il maschile del Paleolitico) che lo indirizza presso una fontana.
La fontana gorgoglia come se bollisse. È una fonte termale simbolo del ventre caldo della terra. Accanto alla fontana c’è l’albero più bello che la natura seppe creare, il cui fogliame resiste ad ogni stagione. La pietra è uno smeraldo sostenuto da quattro rubini e il bacile appeso all’albero è d’oro, ossia di luce, e contiene acqua.
Un Santo Cavaliere è un “ordinato prima”.
Un Santo è un prescritto per legge, ossia un essere umano prae-scriptum, ordinato prima, reso prima conforme alla legge.
Un Santo è, pertanto, ogni essere umano in quanto prae-scriptum dalla legge universale.
Il Santo Cavaliere è colui che ha cercato se stesso, il proprio Graal (Sé, nucleo pensante spirituale) superando le prove della Cerca ed è giunto alla consapevolezza di chi è e del suo ordine, ossia del suo posto nella gerarchia dell’universo.
Il Santo Cavaliere può conseguentemente accingersi con le armi della parola e della penna a narrare la propria storia, a scrivere su un libro bianco il suo percorso iniziatico verso la libertà, lungo la via in divenire del farsi del mondo; ad essere testimone.
Il Santo Cavaliere, se è davvero tale, può esercitare il dovere per il dovere, in quanto ha compreso da dove deriva l’imperativo e che tale imperativo necessita di una restituzione e ha capito che l’imperativo, ossia il comando è un “vai!” verso nuove mete, supera te stesso, usa il cor actum, restituisci, rimettiti nello stato primitivo, ossia stai di nuovo com’eri: Spiritus.
segue
[i] Citazione in George Duby, L’arte e la società medievale, Laterza
[ii] George Duby, L’arte e la società medievale, Laterza
[iii] George Duby, L’arte e la società medievale, Laterza
[iv] George Duby, L’arte e la società medievale, Laterza
[v] Silvano Danesi, Le radici scozzesi della Massoneria, Ilmiolibro.it
[vi] Silvano Danesi, Tu sei Pietra, Ilmiolibro.it
[vii] Gabriella Agrati e Maria Letizia Mogini, Introduzione all’Ivano di Chrétien de Troyes, Mondadori
[viii] Gabriella Agrati e Maria Letizia Mogini, Introduzione all’Ivano di Chrétien de Troyes, Mondadori
di Silvano Danesi
Il 30° grado del Rito Scozzese costituisce la sintesi dell’intero percorso massonico e conduce l’iniziato alla soglia dell’Assoluto, simbolizzato da quel fuoco misterioso che è il Lógos e che nel linguaggio moderno è chiamato energia.
Dopo aver conosciuto scienze e virtù, l’iniziato si rende conto che è sulla soglia dell’Assoluto e che è “un Oceano per il quale non abbiamo né barca, né vela, ma del quale la chiara visione è altrettanto salutare che formidabile”.
La chiara visione è l’epopteia degli antichi riti eleusini, della quale nulla si può dire, perché è indicibile e ognuno ne deve fare esperienza in proprio.
L’iniziato è di fronte ad un “focolare misterioso che non si rivela se non per i suoi raggi. Tale è probabilmente il miglior simbolo della realtà assoluta della quale la logica proclama l’esistenza, quando a mezzo del pensiero si sopprimono tutti i limiti di durata e di spazio”.
Nel Rituale, di questo focolare, è scritto: “E’ ciò che noi chiamiamo Lógos; è ciò che nel linguaggio simbolico della filosofia contemporanea viene chiamato energia. Anche qui noi siamo impotenti a scoprire la natura intima di questo primo fattore; tuttavia, ciò che è più importante, noi possiamo stabilire che l’Energia opera secondo leggi fisse accessibili al nostro intelletto. Noi la simboleggiamo a mezzo di una corona luminosa, come quella che rivela agli astronomi, nelle eclissi di sole, la gloria dell’astro invisibile”.
Ancora una volta siamo di fronte al rapporto Archè- Lógos che si è incontrato sin dai primi passi all’apertura dei lavori al primo grado di Apprendista, nel Prologo del Vangelo di Giovanni aperto sull’Ara, dove arde il fuoco centrale del Tempio.
Se porgiamo attenzione alle varie culture presenti nella storia dell’umanità ritroviamo questo rapporto tra ciò che è nascosto e nascosto rimane e ciò che del nascosto si evidenzia nel rapporto Amon (nascosto) Ra (la sua manifestazione luminosa).
L’oceano primordiale, dal quale sorge Tum Atum, è il Nun egizio.
Nell’indoeuropeo le acque primordiali Na hanno in sé Ka, la luce interiore, il fuoco o l’ardore, che si evidenzia in Eka.
Troviamo in Egitto il rapporto tra Sia (intelligenza) e Hu (il verbo, l’azione) che abbiamo in Arché- Lógos.
Nel mito greco Latona (la notte) è madre di Apollo (la luce) e di Artemide (la natura).
Dalla notte il corpo di luce e il corpo materiale, che coesistono.
Siamo di fronte al più grande dei misteri: l’Assoluto che diviene.
Qui ci soccorre Eraclito.
“Questo cosmo non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era, ed è, e sarà, Fuoco semprevivente, che con misura divampa e con misura si spegne”. (Fr.DK 22B30).
“Tutte le cose contraccambio del Fuoco, e il Fuoco contraccambio di tutte le cose, come le ricchezze dell’oro, e l’oro delle ricchezze”. (Fr. DK22B90).
“Sapiente è il Fuoco” (Fr. DK 22B64).
“Ma tutto governa la folgore”. (Fr. DK22B64).
Anche lo stoico Zenone, per fare un altro esempio di come la filosofia greca si sia accostata al mistero, concepiva l’universo come dotato di un principio attivo, igneo, intelligente.
“Il fuoco interno al mondo, affermava Zenone, è del tutto diverso dal fuoco elemento comune: un calore vivificante e costruttivo; una mente intelligente e provvidenziale”. [i]
L’epopteia, l’apertura al rapporto con l’Assoluto (Atman-Brahman) introduce uno degli approdi più significativi del percorso massonico: il dovere per il dovere, il quale è correlato al libero arbitrio.
Nel rituale di iniziazione a Cavaliere Kadosch (30° grado del Riro Scozzese) si legge: “Voi dovete fare il vostro dovere perché è il vostro dovere: questa è l’ultima parola della Libera Muratoria”.
L’unica certezza che ci consegna questa affermazione ultimativa è che essa è l’ultima parola della Libera Muratoria ma, come ben si addice ad ogni parola ultimativa, essa, mentre chiude una fase della conoscenza, ne apre un’altra, riconducendo chi abbia intelletto per intendere, al dubbio, alla domanda, al punto interrogativo, lieviti di ogni divenire cosciente.
Cosa significa, dunque, dovere?
Il dovere, dal latino de habére, è possedere qualcosa avendolo ricevuto da altri e introduce il concetto di restituzione e la conseguente domanda: ricevuto da chi?
Ricevuto dal proprio Sé, dal proprio daimon, da quel dio personale che i Sumeri indicavano come il creatore della propria personalità umana.
Nel mazdeismo potremmo riferirci alla Fravashi “il più alto ed eterno principio inerente un essere umano”.
La risposta è: ricevuto da se stessi, in quanto aperti all’Assoluto.
Non a caso l’affermazione segue la citazione dell’imperativo categorico, il quale è “assoluto o non lo è”.
Assoluto, in quanto libero, indipendente, prosciolto da vincoli e da limitazioni. Caratteristiche, queste, proprie del Libero Pensiero e del Puro Pensiero, ossia dell’Arché.
Non a caso l’affermazione è seguita anche da quella che il bene più grande è il libero arbitrio, ossia l’operare in proprio secondo proprio giudizio.
Si aprono interrogativi fondamentali.
Kant, a proposito dell’imperativo categorico scrive: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale”.
Principio di legislazione universale è la Regola che, racchiusa nell’Arché, si esplicita per l’azione del Lógos nella legislazione universale, ossia nelle regole che presiedono al determinarsi del Logos come zoé: vita naturale universale.
Siamo tornati all’apprendistato, al primo riferimento sapienziale, non riferibile ad una singola religione, che ci è offerto dal rituale sin dal primo grado con la squadra e il compasso sovrapposti al Prologo di Giovanni.
Siamo chiamati, con quel gesto e quel testo, ad essere co-artefici di una manifestazione dell’Arché che avviene e diviene per opera del Lógos, il quale materializza (gravitazione, cristallizzazione, vita) il Puro Pensiero, essendo Arché Tek-ton, artefice o, meglio: Grande Artefice.
Qui si apre un altro interrogativo fondamentale relativo agli appellativi Pantokrator e Kosmocrator. L’Arché Tek-ton è artefice o dominatore?
Dobbiamo realizzare il richiamo del Sé secondo coscienza, ossia secondo quell’interiore conoscimento che deriva dal conoscere cum, ossia con. Con chi? Con il Lógos che è “luce degli uomini” e dal quale apprendiamo (afferriamo appigliandoci) l’imperativo categorico che si presenta come lampo illuminante, Ziza, così come è stato indicato sin dai primi passi nel percorso del Rito Scozzese.
Concetti come dovere, imperativo categorico, libero arbitrio, ispirazione, conoscenza hanno occupato il lavoro e la riflessione di intere generazioni e non sono, pertanto, che marcatori di nuove esperienze intellettuali e spirituali che ognuno dovrà fare per diventare Santo (Kadosch) Cavaliere e dovrà fare, in seguito, nella sua vita iniziatica.
Un Santo Cavaliere non è un cavaliere erede di questo o di quell’ordine cavalleresco e tanto meno l’erede di bande armate di cavalieri medievali. Il proliferare di mantelli di sedicenti cavalieri è semplicemente ridicolo. Su questo essenziale punto vale la pena di soffermarci.
segue
di Silvano Danesi
Il rapporto tra la luce e le tenebre è questione primordiale, ha implicanze teoretiche, teologiche, psicologiche e si è concretizzata in azioni che hanno significative conseguenze nella vita dei singoli, dei popoli, dell’umanità.
Nell’ambito latomistico, nel quale si dipana questa breve riflessione, tale questione si coniuga con quella, spesso sottaciuta e sottovalutata, della sostanziale differenza tra la tradizione libero muratoria, cosiddetta operativa, e le tradizioni che nel loro insieme costituiscono quella libero muratoria speculativa.
La tradizione massonica operativa, come è riscontrabile in alcuni documenti, quali il Poema Regius e il Manoscritto Cooke, ha i suoi principali riferimenti nelle figure, sia pur mitizzate, di Euclide, di Pitagora e di Hermes il filosofo e pertanto incardina il suo pensiero nella filosofia greca antica e nel debito che essa ha con la sapienza egizia.
Tali riferimenti radicano la tradizione libero muratoria operativa in una concezione del mondo armonica, che concepisce l’essere umano come un artefice che ha il suo paradigma nell’ordine cosmico.
La tradizione libero muratoria operativa è primordiale, ancestrale e riscontrabile in una molteplicità di luoghi, laddove i manufatti dell’essere umano riproducono le armonie cosmiche, siano essi quelli del megalitismo, delle piramidi, delle zigurat, delle cattedrali gotiche o delle varie testimonianze di un’antichità costruttiva che contiene in sé la numerologia e la geometria del cosmo e le proporzioni essenziali della natura.
In questa tradizione l’architetto terreno è colui che imita l’arché-tecton, l’architetto divino, il logos, potere dinamico improntante e realizzante dell’arché, ossia dell’origine.
In questa tradizione l’essere umano è collaboratore del Grande Arché Tecton dell’Universo.
La tradizione libero muratoria cosiddetta speculativa, innestatasi su quella operativa nel XVII secolo, contiene in sé molteplici linee di pensiero, non sempre tra di loro compatibili, anzi, spesso tra di loro contrastanti.
Credo pertanto di poter affermare, sia pure in queste brevi considerazioni, che la tradizione libero muratoria operativa sia quella fondativa della moderna massoneria; quella alla quale si dovrebbe guardare come al riferimento paradigmatico essenziale.
La tradizione libero muratoria speculativa, al contrario, con le sue evidenti interne contraddizioni, anche se artatamente fatta assurgere a fattore costitutivo legittimante, va frequentata con grande attenzione e spirito critico, per non cadere nella trappola delle Costituzioni di Anderson, frutto della massoneria speculativa hannoveriana, o in quella delle Costituzioni federiciane, che, in contraddizione con l’essenza del pensiero libero muratorio, contengono riferimenti al dogma e alla dottrina.
Cosa abbia a che fare questo preambolo con la questione della luce e delle tenebre è comprensibile con alcuni esempi, non essendo possibile, nell’economia di questo lavoro, allargare l’orizzonte fino a comprendere un insieme complesso di linee di pensiero che andrebbero opportunamente approfondite.
Se, come s’è detto, la massoneria operativa ha come riferimento la Grecia classica, vediamo cosa pensavano i greci del rapporto tra la luce e le tenebre.
Aristofane (450-385 a.C.) negli Uccelli scrive: “Da principio c’era Caos e Notte ed Erebo [tenebra] nero e l’ampio Tartaro [realtà tenebrosa e sotterranea], ma non c’era terra né aria né cielo; e nel seno sconfinato di Erebo Notte dalle ali nere genera anzitutto un uovo sollevato dal vento, da cui nelle stagioni ritornanti in cerchio sbocciò Eros il desiderabile [entità primigenia vivificatrice dell’universo], con il dorso rifulgente per due ali d’oro, simile a rapidi turbini di vento. E costui di notte mescolandosi con Caos alato, nell’ampio Tartaro, fece schiudere la nostra stirpe, e prima la condusse alla luce. Sino allora non c’era la stirpe degli immortali, prima che Eros avesse mescolato assieme ogni cosa; ma essendo mescolate le une alle altre, nacquero Cielo e Oceano e Terra e la stirpe senza distruzione di tutti gli dei felici”.
Aristotele ci ricorda che i teologi “fanno iniziare la generazione dalla Notte”. (Metafisica).
Eudemio di Rodi (370-300 a.C) scrive: “E la teologia tramandata da Eudemo il Peripatetico, e da lui attribuita ad Orfeo, passa sotto il silenzio tutto ciò che è oggetto dell’intuizione, in quanto totalmente inesprimibile e inconoscibile….E assume il principio della Notte, da cui prende le mosse anche Omero, anche se non con una genealogia continua. Non bisogna difatti accettare l’affermazione di Eudemo, secondo cui Omero inizierebbe da Oceano e da Teti, poiché Omero sembra sapere che la Notte è la più grande divinità, al punto che lo stesso Zeus la venerava: «invero egli temeva di fare cose non gradite alla Notte, la veloce». Dobbiamo dire dunque che anche Omero comincia dalla Notte. Quanto a Esiodo, mi sembra essere stato il primo a considerare il Caos, a chiamare Caos la natura inafferrabile dell’oggetto dell’intuizione e compiutamente unificata, e ad aver posto accanto a esso in seguito la Terra, come principio dell’intera generazione degli dèi…”.
Crisippo, (281-277 a.C.) in un frammento afferma: “….e nel primo libro dice che la Notte è la primissima dea”.
Il neoplatonico Ermia (V sec. d.C.) introduce Fanes. Nel Commento al Fedro di Platone scrive: “Certo a Protogono nessuno guardò con i suoi occhi, se non la Notte sacra; ma tutti gli altri si stupirono scorgendo nell’etere uno splendore insperato: tale luce balenava dal corpo di Fanes immortale”.
Ancora Ermia (Commento al Fedro di Platone): “…nacque Adrastea, che è sorella di Ida: Ida dalle belle forme e la germana Adrastea [significato: inevitabile. Figlia di Ananke, la necessità] … perciò si dice che anche essa faccia strepito davanti all’antro della Notte: diede nelle mani ad Adrastea bronzei cimbali. Sulla porta dell’antro della Notte, difatti, si dice che Adrastea faccia strepito di cimbali ….Dentro invero, nel santuario della Notte, siede Fanes, e nel mezzo sta la Notte che profetizza per gli dei. Davanti alla porta invece sta Adrastea, che plasma per tutti le leggi divine. ….E oltre a ciò disse che queste sono creature della Notte, che rimangono dentro di lei…. E la Notte a sua volta generò la Terra e l’ampio Cielo, li rivelò manifesti, da nascosti che erano, e quali sono per nascita”.
Giovanni Malalas (V secolo, Cronografia) scrive: “Da principio si rivelò al tempo l’Etere creato dal dio; e di qua e di là dell’Etere vi era Caos; e Notte tenebrosa copriva tutte le cose e nascondeva quanto era sotto l’Etere…. E Orfeo disse che la terra era invisibile a causa delle tenebre….dicendo che la luce che aveva squarciato l’Etere era quella dell’essere … più alto di tutti, il cui nome lo stesso Orfeo, avendolo udito dall’Oracolo, rivelò come Metis, Fanes, Erichepo”.
Infine, Filodemo (110-35 a. C. Sulla Pietà): “In alcune fonti si dice che tutte le cose derivano da Notte e da Tartaro, in altre invece che derivano da Ade e da Etere. Chi ha scritto la «Titanomachia» dice che le altre cose discendono da Etere, mentre Acusilao dice che il primo da cui discendono è Caos. Nelle poesie poi attribuite a Museo sta scritto che dapprima ci furono Tartaro e Notte, e per terzo Aere”.
Fanes, scrive Giorgio Colli, [i]è “il dio dell’apparenza, in generale, ma di un’apparenza ambigua: da un lato come unica realtà possibile, che gode del suo splendore e della sua visibilità in quanto forma di un’esistenza totale; dall’altro lato come una figura che esprime, manifesta qualcosa che apparenza non è, l’emergere in altra forma, con un sussulto di una realtà abissale”.
In questo “sussulto” di una realtà abissale risiede l’aspetto forse più significativo del rapporto tra la luce e le tenebre, intese come abisso, poiché il concetto di abisso chiama in causa l’arché.
Vediamo, dunque, come concepivano l’arché i filosofi della Grecia antica.
L’arché in Parmenide è l’Essere e il fondamento di tutte le cose. In Aristotele l’arché consiste nell’essere origine e fondamento per l’Essere, il divenire e il conoscere.
Anassimandro chiama l’arché apeiron, l’illimitato, l’imperituro, l’indistruttibile, l’inesauribile e la definisce anche theion, divino. L’apeiron di Anassimandro, scrive Eugen Fink è “il theion inteso come phýsis, la natura onnipresente, sempre assente, inesauribile, che racchiude in sé morte e vita, che genera e annienta….”.[ii]
L’apeiron di Anassimandro è l’abisso che fa uscire tutte le cose.
Arché, femminile in greco, deriva dalla radice indoeuropea *ark, che ha il significato di contenere, trattenere. *Ark è scrigno, arca. Arca dell’alleanza.
Arché è, dunque, un illimitato abisso, chiuso e silenzioso, fondamento di tutte le cose (ta panta) ed è phýsis che, secondo Aristotele, è l’uno originario, che è sempre, che permane e che è imperituro. La phýsis è l’arché di tutte le cose, divina, creatrice.
In Anassimandro, come spiega Eugen Fink, la phýsis “è il fondamento non cosale di tutte le cose percepibili nel pensiero, fondamento che permane imperituro in tutto il loro trapassare. La phýsis stessa non appare; è l’ente ad apparire, ma tutto ciò che appare viene fuori dal grembo della phýsis e in esso ritorna”. [iii]
La phýsis, in Eraclito, è l’eterna madre immutabile, il fondamento materno del mondo da cui erompe la luce che assegna alle cose (ta panta) la visibilità; è il grembo che tutto partorisce, è la Dea Madre.
La phýsis è l’Essere come origine. La Phýsis è l’inapparente, il velato, la profondità dell’Essere chiuso in sé. “La natura – scrive Eraclito – ama velarsi”.
L’arché è dunque phýsis, fondamento, abisso, grembo partoriente da cui erompe la luce come sophon, l’uno sapiente, la ragione del mondo di cui scrive Eraclito.
Il sophon è l’aperto, “il chiarore della comprensione in cui unità, totalità ed Essere appaiono diradati nel loro rapporto reciproco”. [iv]
Il sophon è l’aletheia dell’Essere e in Eraclito è il saphes, il chiarore della luce: fuoco semprevivente. Fuoco cosmico, che assegna alle cose la visibilità del loro aspetto; è il fulmine che nel frammento 64 Eraclito indica come la potenza che governa tutte le cose nel loro insieme (ta panta).
E l’ordine simbolico del fuoco è quello cosmologico del logos, ossia del sophon: ragione che attraversa il cosmo e custodisce la vicenda dell’apparire.
Il logos in Eraclito “è l’articolazione ontologica che attraversa l’aperto, il principio strutturale del sophon…; è la forza improntante e disponente”[v], che impronta e dispone le cose.
Il Prologo del Vangelo di Giovanni, che rientra nell’attuale ritualità massonica, evidenzia il reciproco rapporto tra l’origine (archè, phýsis) e il logos come luce che evidenzia tutte le cose che sono nell’origine e le impronta, le ordina, dà loro visibilità.
L’origine, arché, phýsis, è un principio creatore del quale il sophon è l’aspetto ordinante e, in quanto logos, improntante e custodente in un continuo avvicendarsi di krisis, separazione, e di krasis, mescolanza (la mescolanza di cui parla Aristofane a proposito di Eros): due vocaboli la cui radice *kr è anche quella di creare, ossia di fare.
Nel Prologo leggiamo che tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, ossia che l’attività creatrice dell’origine è propria del logos, che è nell’origine presso se stesso, così come Fanes, che risiede nel santuario della Notte (Ermia).
Qui si inserisce una riflessione sul concetto di cosa, che può essere phýsei onta o techne onta, dove nel primo caso le cose sono tali da partire dalla natura per opera del logos, che si propone come Grande Architetto dell’Universo, Archi-tecton, realizzatore dell’arché e, nel secondo caso, come derivanti dalla techne, per opera degli archi-tecton umani, che assumono il ruolo di collaboratori del logos e di custodi della phýsis.
Il Prologo continua poi affermando che nel logos era la vita e la vita era la luce degli uomini. Il vocabolo usato è zoé, ossia vita universale generale e, in quanto tale, luce degli uomini, ossia capace di trarre gli esseri umani all’esistenza (come l’Eros di Aristofane), assegnando loro la visibilità del loro aspetto e della loro identità, così come il fuoco semprevivente assegna la visibilità del loro aspetto a tutte le cose (ta panta).
Rimane, infine, il rapporto tra luce e tenebre.
Scrive l’evangelista che la luce risplende tra le tenebre o nelle tenebre e questa affermazione è coerente con quanto sin qui detto riguardo al logos come fulmine, che è nelle tenebre e le squarcia, dando visibilità a tutte le cose.
Meno chiaro è il rapporto tra luce e tenebra quando l’evangelista usa il vocabolo catalaben che nella traduzione dà luogo a: “ma le tenebre non l’anno ricevuta” o “accolta”.
Il vocabolo catalaben deriva da kata, dal significato di “in giù”, “che intensifica” e da lambano, dal significato di aggressivamente, prendere correttamente, afferrare esattamente, afferrare qualcosa con forza.
Si potrebbe, pertanto, tradurre come afferrare in modo forte in giù, ossia riportare nell’abisso, nel chiuso dell’archè.
La parola greca scotia è tradotta con tenebra, il cui significato deriva dalle radici *ten, trattenere, racchiudere e *br, espandere.
La tenebra, come l’arché e la phýsis, è dunque un abisso racchiuso capace di espandersi, di diradarsi, dando spazio alla luce, che ne squarcia il velo dando visibilità alle cose. Il fulmine, il baleno, non viene riafferrato e tanto meno lo è la luce nel suo significato di Helios, un fuoco non perpetuo, ma sufficientemente permanente per essere un orologio cosmico.
Qui Eraclito ci sovviene rinviandoci alla luce che splende nelle tenebre. Afferma Eraclito nel frammento 99: “Se il sole non ci fosse, per quanto è delle altre stelle sarebbe notte”.
“La luce – commenta Fink – fa luce nelle tenebre. Ciò significa che la cerchia della luce è circondata dalla notte. Le stelle e la luna mostrano la possibilità dell’essere coricate e adagiate, delle luci, nell’oscurità della notte”. [vi]
La potenza di Helios, al contrario, non si adagia, perché Helios è il simbolo del logos.
Il fulmine lascia apparire in un colpo come un colpo di frusta. Il sole lascia apparire con sufficiente permanenza. Il “fuoco semprevivente” del frammento 30 di Eraclito lascia vedere ogni cosa nel suo contorno definito in modo costante.
Scotia, la tenebra, dunque, non può sopraffare il “fuoco semprevivente”, ossia il logos, che è una potenza dell’arché, improntante, governante, custodente, che è “l’uno sapiente”, il sophon: luce della ragione che rischiara il mondo, aletheia dell’Essere e Uno-Tutto (frammento 10 «da tutte le cose uno e da uno tutte le cose»).
Qui ritroviamo anche il significato della prossimità e identità del Dio e del Logos che leggiamo nel Prologo di Giovanni.
Nel frammento 32 Eraclito scrive: “L’uno, che solo è sapiente, non vuole e nondimeno vuole essere chiamato Zeus”.
L’Uno, sophon, logos è chiamato theos.
Per ora rimaniamo con l’attenzione all’arché.
L’arché, la phýsis, l’oscurità da cui prorompe la luce che rende evidente la finitezza di questo mondo, dei mondi è la Grande Madre. La Phýsis è il theion (Anassimandro): il divino illimitato, ingenerato ed eterno (apeiron – Anassimandro), da cui emerge un tempo finito.
L’Essere, ossia il perdurare dell’identico nel differente, non ha fondamento in quanto il suo fondamento è il fondo abissale che si dischiude; è il nascosto “sottosuolo” in cui l’Essere si raccoglie quando si sottrae all’apparire.
Il fondamento è il fondo abissale, la Tenebra.
La Tenebra è anche l’arché nel suo essere nascosta; è phýsis pronta a sbocciare dall’abisso del suo trattenimento.
Il modo di manifestarsi dell’Essere è simile al modo di manifestarsi della luce (pháos, da cui Fanes) che non manifesta se stessa, ma le cose che sottrae all’oscurità per portarle, appunto, alla luce. L’Essere (phýsis), come la luce (pháos) è ciò che porta alla presenza l’ente, ciò che dimorando presso l’ente (pres-ente) lo fa essere e apparire”.[vii]
Oscurità e luce sono simbolicamente rappresentate nel nero e nel bianco del pavimento del Tempio massonico in un ordinato alternarsi che induce a meditare sul kosmos, ossia sulla totalità ordinata degli enti.
Phýsis è Regola che con il Logos si fa regola. La phýsis è l’Essere. Ed è anche arché, “in quanto kinesis. La motilità che la caratterizza non è da riferire allo spazio-tempo, ma a quel venire dall’occultamento (a-létheia) in cui è custodita la verità”. [viii]
“La filologia – scrive Galimberti – riconosce alla parole «essere» tre radici. La più antica è es, in sanscrito asus che significa: vita, vivente, ciò che è in sé e per sé ha vita. L’altra radice indogermanica suona bhûe bhue. A essa si ricollega il greco phýo, che significa schiudersi, aprirsi, germogliare, donde phýsis, phýein che, anche nella traduzione latina che li rende con natura e con nascere, ancora conservano il senso originario di ciò che nasce sbocciando e così, dispiegandosi, germoglia e si manifesta. A questa seconda radice si rifà il latino fui e il tedesco bin (sono) e bist (sei). La terza radice wes che significa risiedere, restare, trattenersi sta alla base del tedesco gewesen (stato), war (era) es west (esiste), wesen (essere) War-sein (essenza) e del latino sens, di prae-sens e ab-sens. «Essere» allora significa nascere, vivere, presentarsi nelle varie forme di vita”. [ix]
Interessante notare come nella lingua etrusca Ais sia il dio e aiser, plurale di Ais significhi gli dèi e come nella cultura druidica Esus sia il divino primordiale.
La luce è Fanes ed è il logos e Fanes, meglio: Phanés è in altri termini Bacco, ossia Dioniso, dio solare, creatore della vita universale sulla terra e forza generatrice dell’Universo; è l’Osiride egizio.
Fanete è uno dei nomi della creatura originaria del sistema mistico orfico, ossia pitagorico e Bacco-Dioniso, in quanto divinità mistico-filosofica celebrata nei Misteri orfici, era chiamato Fanete, al quale erano dedicate le feste chiamate Farai.
Bacco è il verbo ed è stato il primo che ha brillato, all’inizio, nel cuore delle tenebre. [x]
Bacco è dio anacto, ossia Signore; è liberatore, rendentore e iniziatore e come tutte le divinità iniziatrici, ossia che danno avvio all’inizio, è dilaniato e messo a morte.
Bacco è il sole della notte, il corego, colui che allestisce il coro e dirige le stelle; è il sole dei morti, come Osiride; è il sole che a mezzanotte incontrano i massoni nel Tempio la cui volta è il cielo stellato.
Dioniso è strettamente connesso con Apollo, figlio, come la gemella Artemide, di Leto, la Notte e il cui carattere originario è ctonio.
Secondo Carolina Lanzani[xi] il carattere originario di Apollo deve essere collegato con le tenebre e quindi egli è da considerarsi piuttosto come una divinità ctonia, che come una divinità solare. In seguito gli furono attribuite tutte le proprietà del dio sole tanto che fu possibile identificare Apollo con l’Helios-Zeus dei pitagorici (Zeus-Ouranos/Varuna, ossia volta celeste).
Come divinità solare Apollo rappresenta il sole immutabile, eterno, indifferenziabile, principio attivo, causa prima, sole nel cielo. Come divinità ctonica è strettamente connesso con Dioniso, definito da Aristofane (Rane): “Stella splendente dell’iniziazione notturna”.
Non possiamo qui andare oltre nell’approfondimento delle caratteristiche di Dioniso-Apollo e possiamo concludere asserendo che il riferimento a Pitagora nei documenti della massoneria operativa, oltre a condurci nel mondo della matematica, della geometria, dell’armonia e delle bellezza naturale, indica un collegamento radicale con la ritualità orfico-pitagorica e, conseguentemente, con i riti eleusini e di Samotracia che, a loro volta, sono debitori dei riti isiaci e osiriaci.
Va, a questo punto, ricordato che Ermete è un’altra delle forme di Dioniso e Ermete ci introduce ad un altro dei riferimenti essenziali della massoneria operativa.
“Ogni volta che sull’Egitto sorgeva il sole – scrive Tobias Churton – si celebrava la vittoria della luce: l’oscurità scompariva per lasciare spazio alla vita visibile. Per Ermes non faceva alcuna differenza: egli era dio della notte come del giorno, ugualmente a suo agio con la luna e i poteri dell’invisibile, così come con i commerci e le messi del mattino grondanti di sole”. [xii]
“Il culto di Ermes – ci ricorda Churton – era già diffuso prima che Alessandro Magno conquistasse l’Egitto e fondasse Alessandria (331 a.C.). Un secolo più tardi, i coloni greci di questa città iniziarono a chiamare Ermes megistos kai megistos, theos megas (più o meno «grande e grande il grande dio Ermes»)”.[xiii]
In seguito, tra il I secolo a.C. e la fine del II d.C., compaiono gli scritti che sono attribuiti a Ermete Trismegisto e che costituiscono il paradigma dell’ermetismo, comprendente l’astrologia e l’alchimia. Le scuole ermetiche, che sembrano siano state presenti sin dalla fine del I secolo d.C. , conducevano gli allievi a un’esperienza diretta di gnosi. La conoscenza era accompagnata da mondi percepibili dall’occhio illuminato del nous, che in greco significa sia mente, sia spirito.
L’insegnamento principale dell’ermetismo era, ed è: “Conosci te stesso” e guarda al cosmo come ad un continuo miracolo da riprodurre sulla terra.
“Non lo sai, Asclepio, che l’Egitto è l’immagine del cielo? Inoltre è la dimora del cielo e di tutte le forze che stanno in cielo. Se è giusto che diciamo la verità, la nostra terra è il tempio del mondo”.
E’ questa anche l’idea dei massoni operativi: fare della terra il tempio del cielo.
La gnosi, la conoscenza, è volta a conoscere un dio incorporeo, che contiene tutte le cose dentro di sé e che si manifesta attraverso le cose.
“E tu dici: «Dio è invisibile?». Non parlare così. Chi è più manifesto di Dio? Proprio per questo motivo egli ha creato tutte le cose, in modo che tu lo veda attraverso le cose. Questa è la bontà di Dio, che egli si manifesta attraverso tutte le cose. Nulla è invisibile, nemmeno una luce incorporea; il nous viene visto nel proprio pensiero, e Dio nel proprio lavoro”.
L’ermetismo presenta una visione positiva del mondo, che non è altro che il divino manifestato nella natura, e una visione positiva del cosmo, del quale la terra è il tempio.
Veniamo a Euclide (365-300 a.C.), le cui opere in Alessandria furono raccolte da Theon, padre della matematica e fisica Ipazia e custode della biblioteca alessandrina.
Scrive in proposito Barrow: “La geometria non era considerata come una semplice approssimazione alla vera natura delle cose; era parte della verità assoluta circa l’universo. Quasi fossero frammenti di una qualche sacra scrittura, i grandi teoremi di Euclide furono studiati per millenni nella loro lingua originale: erano veri, né più né meno, e consentivano agli esseri umani di dare uno sguardo alle verità assolute. Dio era molte cose, ma indubbiamente era anche un geometra. … La geometria euclidea non era soltanto un gioco di matematici, né una grossolana approssimazione alle cose e neppure un capitolo di matematica pura privo di un contatto con la realtà. Era il modo in cui era fatto il mondo”. [xiv]
La massoneria operativa, in sintesi, incardina il proprio pensiero in quello della Grecia classica e, anche quando guarda all’ellenismo, prende come riferimento un’idea del divino che si manifesta nel mondo, essendo nel mondo, in modo armonico, cosicché l’essere umano è inserito in un ordine cosmico con il quale può collaborare. Gli architetti della massoneria operativa riproducono sulla terra l’ordine celeste, fanno della terra un tempio e sono collaboratori del Grande Arché Tecton.
Diverso è l’orizzonte che ci si presenta quando prendiamo in considerazione la massoneria cosiddetta speculativa, la quale comprende molteplici correnti di pensiero, alcune delle quali conducono ad una vera e propria controiniziazione.
E’ il caso dello gnosticismo, combattuto da Plotino e dai neoplatonici, che concepisce il mondo come una prigione dello spirito, creata da un Demiurgo e dai suoi collaboratori (angeli, arconti, ecc. ) e il corpo come la sua tomba.
L’heimarméne (fato universale), che per gli Stoici era l’aspetto pratico dell’armonia, per gli gnostici diventa la concreta costrizione dell’uomo nel suo essere prigioniero del mondo, che è tenebra.
La luce di un dio nascosto e inaccessibile non viene accolta dalla tenebra del mondo, cui fanno da scudo le sette sfere celesti. Il cosmo è la gabbia che imprigiona lo spirito e il regno del divino inizia dove finisce il cosmo, ossia all’ottava sfera.
L’identità spirituale viene conquistata attraverso una rottura con il mondo, conseguibile o con l’astensione da esso (ascetismo, come quello che ritroveremo nei Catari e nelle correnti mistiche) o con il libertinismo, come quello di Carpocrate e dei Cainiti.
Il disprezzo del mondo, che è tenebra e tiene prigioniero lo spirito, consente, nella interpretazione del libertinismo gnostico, l’utilizzo indiscriminato del mondo, anche nei modi più crudeli.
Nella divisione degli esseri umani tra ilici (corporei), psichici (mentali) e pneumatici (spirituali), l’interpretazione estremistica assegna agli pneumatici la condizione di esseri salvati per la loro stessa natura. “La conseguenza pratica di ciò – scrive Hans Jonas, il maggior studioso dello gnosticismo – è la massima dissolutezza, che permette al pneumatico l’uso indiscriminato del regno naturale”. [xv]
“Secondo i loro scritti – scrive degli gnostici Ireneo -, le anime prima di partire del corpo devono aver provato ogni modo di vita e non devono aver lasciato residuo di sorte da compiere….”. [xvi]
Da qui anche l’idea che nel peccare si conduce a termine una specie di programma.
Si ha così “il peccato come via di salvezza” – commenta Jonas – è “l’inversione teologica di peccato stesso: uno degli antecedenti del satanismo medievale, e, anche, un archetipo del mito di Faust”. [xvii]
Così come Pitagora, Euclide, Hermes il filosofo sono “cosmici”, ossia concepiscono il cosmo come ordine e armonia, gli gnostici sono “a-cosmici”, perché il cosmo per loro è di per se stesso demoniaco. (Per approfondimenti dello gnosticismo rinvio allo studio di Hans Jonas).
Vorrei, avviandomi alla conclusione di questa riflessione, ricordare come la frase del Vangelo di Giovanni: “ma le tenebre non l’hanno ricevuta”, riferita alla luce, potrebbe, nell’ottica gnostica, acquistare un significato ben diverso da quello che, a mio modesto parere, ha, in coerenza con il testo precedente.
Traendo le somme da quanto sin qui detto, credo si possa affermare: 1) che il tema della luce e delle tenebre costituisca uno spartiacque tra il pensiero cosmico al quale si riferivano i liberi muratori operativi e quello a-cosmico al quale si riferiscono correnti di pensiero che sono presenti nella cosiddetta massoneria speculativa; 2) che la massoneria operativa rappresenti la radice limpida della tradizione latomistica; 3) che le correnti di pensiero che innervano la massoneria cosiddetta speculativa vanno frequentate “cum grano salis”, per non dire con sospettoso spirito critico.
Infatti, e per concludere davvero, l’estremismo gnostico libertino può condurre all’idea che una “fratellanza” di sedicenti pneumatici, nel più totale disprezzo del mondo in quanto ritenuto tenebra prigione e convinti che del mondo, così come del corpo, si possa fare strazio, stenda sul mondo la tracotante violenza dei controiniziati, che l’umanità, purtroppo, ha già conosciuto nei secoli e continua a conoscere.
Non va dimenticato che allo gnosticismo radicale si accompagnano le teorie apocalittiche, con la conseguente idea della battaglia finale tra il bene e il male. E in questo orizzonte apocalittico i controiniziati sanno ben cammuffarsi da “guerrieri delle luce”.
Torniamo, pertanto, alle cattedrali, alle grandi strutture megalitiche, alle piramidi, al tempio del cosmo sulla terra, all’armonia del divino nel mondo e ad essere collaboratori dell’Arché Tecton. Torniamo alla massoneria operativa e ai suoi limpidi paradigmi iniziatici.
[i] Giorgio Colli, La sapienza greca, Adelphi.
[ii] Eugen Fink, Le domande fondamentali della filosofia, Donzelli editore
[iii] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[iv] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[v] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[vi] Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, Laterza
[vii] U.Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli
[viii] Umberto Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli
[ix] Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli
[x] Vedi Paul Vulliaud, Il pensiero esoterico di Leonardo, Mediterranee
[xi] Carolina Lanzani, Religione dionisiaca, Melita
[xii] Tobias Churton, Le origini esoteriche della massoneria, Fabbri
[xiii] Tobias Churton, Le origini esoteriche della massoneria, Fabbri
[xiv] John D.Barrow, Da zero a infinito, Mondadori
[xv] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei
[xvi] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei
[xvii] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Sei